-di Nadia Pastorcich-
Ricordi. Per me la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è proprio un insieme di ricordi. Ho avuto la fortuna di iniziare a frequentarla da bambina e ancora oggi quel legame non si è rotto. Certo, è cambiato, come d’altronde ogni cosa che durante la vita cresce e matura, ma l’entusiasmo e quella curiosità sono rimasti. Perché questo racconto sulla Mostra del Cinema? Per lasciarvi una sensazione, per farvi pensare e porre l’attenzione sulla vera arte.
La mia avventura alla 76esima edizione della Mostra è stata una sorpresa. Non me lo sarei mai aspettato, seppure da piccola, con sguardo attento, pensavo a come avrei vissuto un giorno quell’esperienza che tanto mi affascinava.
Domenica 1 settembre sono partita da Trieste verso il Lido di Venezia, un posto forse poco conosciuto – si tende a parlare di Venezia – ma non per questo meno importante. Appena scesa dal vaporetto, ho potuto respirare l’aria di mare, l’aria della mia infanzia. Il viale, il lungomare, i negozietti, le villette, i profumi, i sapori.
Per prima cosa non poteva mancare la foto di rito davanti al Palazzo del Cinema che con la sua scenografia lineare, chiara e pulita spicca tra le case silenziosamente.
Ricordo, sì, mi ricordo…Mi ricordo dell’Hotel Excelsior, dello sguardo che avevo da bambina quando entrai per la prima volta in quel luogo per me d’altri tempi, magico, che mi faceva un po’ soggezione. Fuori, sulla terrazza che dà sul mare, sedute ai tavolini c’erano sempre alcune persone ben vestite, eleganti nel porsi agli altri. Io camminavo, mi guardavo intorno. Marta Marzotto, il Principe Giovanelli, Marina Ripa di Meana, sono solo alcuni dei nomi di chi osservavo incuriosita, incuriosita per la loro personalità unica. Lì, al Lido, ognuno si vestiva come voleva. Non a caso la stessa Peggy Guggenheim una volta disse: «A Venezia si può indossare quasi tutto senza sembrare ridicoli». Originalità, stile, portamento, tendono oggigiorno a lasciare invece la scena ad abiti a volte carnevaleschi e privi di personalità.
In quel clima novecentesco ogni cosa sembrava uscita fuori da un film. Quest’anno la situazione era un po’ diversa: molti controlli, molta gente, un via vai continuo. E se ai primi tempi, appena entrati nell’hotel, c’erano dei divanetti dove sedersi e conversare, già da un po’ lo spazio si è svuotato. Dopo aver osservato lo scenario, avvolta nel caos totale, mi sono avviata verso le scale che portano alla Sala degli Stucchi. E lì, proprio lì, ho chiuso gli occhi e ho immaginato quella scena di C’era una volta in America, girata in quel luogo fine e raffinato.
Tornata di sotto, travolta dalla gente, dal brusio continuo, dal rumore dei passi, dagli sguardi assenti, mi sono fermata a guardare: «Gente che va, gente che viene, tutto senza scopo», ho pensato, ricordando il celebre film Grand Hotel – tra l’altro presentato alla prima edizione della Mostra del Cinema nel 1932. Senza perdere la speranza sono uscita sulla terrazza e ho percorso la scalinata che porta in spiaggia. Per un attimo tutto mi è sembrato incantevole. Anche se quell’atmosfera familiare, ricca d’affetto, che ti metteva a tuo agio e che era capace di stimolare dialoghi interessanti tra le persone, si è un po’ persa tra le luci dei riflettori e i tappeti rossi.
Da osservatrice sono diventata spettatrice (non posso scordarmi il primo film che ho visto: O Gebo e a Sombra con Claudia Cardinale in sala…) per ritrovarmi quest’anno “attrice” nel film della Vox Produzioni La legge degli spazi bianchi – tratto dall’omonimo racconto di Giorgio Pressburger. Ho avuto la fortuna di incontrare e dialogare con questo grande scrittore ungherese che mi ha trasmesso una visione senza confini, attraverso uno sguardo pieno di storia, di sofferenze ma anche di momenti di felicità. Il regista Mauro Caputo con Pressburger aveva realizzato altri due film L’orologio di Monaco e Il profumo del tempo delle favole, mettendo in alcuni argomenti cari all’essere umano come le radici, la fede, il tempo. Questo nuovo film completa la trilogia. È un film di assenze e presenze, di silenzi e di parole alla ricerca del senso della vita. Tra le presenze, oltre la mia, quella di Paola Pini, Antonio Cacace, Daniele Tenze.
La legge degli spazi bianchi invita a riflettere, a scomporre il piano visivo, meditando su se stessi e sulla vita. Perdendo la memoria, il protagonista, interpretato da Fulvio Falzarano, mette in gioco una serie di interrogativi ai quali lo spettatore è portato a trovare una risposta.
«Un film – spiega il regista Caputo – che ancora una volta analizza i misteri più profondi. Un’idea che fin dall’inizio è stata diversa dalle precedenti, una scelta che ho condiviso da subito con entusiasmo, purtroppo poco prima che Giorgio ci lasciasse. Quelle scelte iniziali mi hanno permesso di portare a termine il lavoro così come l’avevamo pensato insieme». Attraverso la voce narrante di Omero Antonutti l’opera cinematografica si plasma fino a diventare – per certi aspetti – un’opera letteraria in grado di entrare nella mente come una fiaba, illustrata dalla fotografia di Daniele Trani e accompagnata dalle musiche di Francesco Morosini.
Ma ritorniamo al racconto della giornata della proiezione: nel pomeriggio con un po’ di emozione e un po’ provata dal caldo, sono andata alla Villa degli Autori per il photocall. Tutto è durato pochi minuti, sebbene l’attesa sembrava infinita. Per la proiezione serale è andata meglio, grazie a un filo di vento. A presentare il film – nell’ambito delle Giornate degli Autori – è stato il critico cinematografico Maurizio di Rienzo, seguito dal regista Mauro Caputo e dal direttore dell’Accademia d’Ungheria in Roma István Puskás. Un dialogo che è continuato anche a fine visione con le domande e le riflessioni del pubblico. Il cinema dovrebbe essere proprio questo: confronto e dialogo. Anche se non era presente tra i “vivi”, Giorgio c’era, c’era nelle parole, nel cuore e nell’aria. Affettuoso il saluto a Pressburger del direttore delle Giornate degli Autori Giorgio Gosetti che ha sottolineato la capacità visionaria di Giorgio, unica nel suo genere. Ora non resta – come ha annunciato nel corso dell’evento il direttore dell’Archivio Storico Luce Enrico Bufalini – che aspettare il cofanetto della trilogia di prossima uscita, voluto dall’Istituto Luce-Cinecittà.
Solo a serata conclusa mi sono resa conto di aver partecipato a qualcosa che è molto più di un semplice film. È stata un’emozione indescrivibile.
Il giorno seguente, lunedì 2 settembre, mentre ero pronta a tornare a Trieste, all’improvviso mi sono ritrovata con un biglietto per la proiezione delle 14, nella Sala Grande (Palazzo del Cinema). Non una semplice proiezione ma per me “La proiezione”: Victor Victoria con Julie Andrews, James Garner e Robert Preston. Unico particolare? Julie Andrews sarebbe stata presente!
Proprio il giorno prima mi dicevo che sarebbe stato bello vedere un attore di una volta, di quei film che tanto mi piacciono. Accontentata. Felice e incredula ho assistito alla consegna del Leone d’Oro alla Carriera a Julie Andrews. Una signora. Elegante, dolce, raffinata. Mi ha conquistata. Guardandola e guardando poi il suo film, mi sono ricordata perché vale la pena amare la settima arte.
A presentare l’affascinante attrice è stato Luca Guadagnino che le ha regalato un discorso omaggiandola. Con al suo fianco il direttore artistico della Mostra del Cinema Alberto Barbera e Guadagnino, Julie Andrews ha ricevuto dal presidente della Biennale Paolo Baratta il Leone d’Oro. Ma a conquistare il pubblico è stata proprio lei iniziando il suo discorso canticchiando qualche aria d’opera: «Quando ero una bambina in Inghilterra, cantavo molte arie in italiano. Ero molto giovane e a malapena capivo le parole che stavo cantando, quindi credo che per oggi sia meglio per tutti fare il discorso in inglese». Dopo un sentito ringraziamento, per aver ricevuto il premio, ha voluto esprimere la sua gratitudine: «Mi considero estremamente fortunata ad aver trascorso la maggior parte della mia vita professionale nel mondo del cinema e ancora mi meraviglio di quanto sia stata fortunata a poter interpretare questi ruoli. Vorrei ora ringraziare e ricordare i tanti e giovani talenti emergenti nel mondo del cinema e vorrei chieder loro di rimanere fedeli ai loro progetti e ai loro sogni; le gratificazioni in questo mondo saranno incommensurabili». Un grazie finale è andato al pubblico che mantiene viva la magia sullo schermo, augurando infine buona visione. Le luci in sala si sono spente per lasciare la scena a Victor Victoria (1982), diretto da Blake Edwards, marito di Julie Andrews. Posso solo usare una parola per descriverlo: Immenso.
Mentre stavo uscendo dalla sala, un gruppo di giovani ha commentato sorpreso: «È il film migliore della Mostra, dovrebbe vincere!». Attuale, ironico, di classe. Mentre lo guardavo ho capito perché mi sono innamorata di quel cinema e perché ogni volta – anche a distanza di anni – quel sentimento rimane, anzi si rafforza.
Termino il mio viaggio con un invito a fermarsi e pensare, a confrontarsi, ad amare l’arte per la sua purezza. Forse aveva ragione Pressburger: «Tutto è scritto negli spazi bianchi tra una lettera e l’altra. Il resto non conta…».