-di Simone Soranna-
Sono ormai passati diversi giorni dal termine della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia numero 72. Un tempo sicuramente sufficiente per raccogliere le idee e fare un po’ di ordine all’interno del mare magnum di film visti quest’anno al Lido.
Forse per chi non è solito frequentare l’ambiente festivaliero questa pratica potrebbe risultare misteriosa e/o inspiegabile. Eppure non è semplice immergersi in sala dodici giorni consecutivi guardando mediamente 3-4 pellicole ogni giorno. Le idee si accumulano, le immagini si mescolano, i finali si dimenticano. Un film cancella un altro e se non ci si ferma un attimo alla fine della rassegna si rischia di azzerare completamente tutto il lavoro e la fatica impiegati nello scorrere della kermesse.
Ora, senza criticare (né positivamente né negativamente parlando) il lavoro dei selezionatori, dei registi in concorso o della giuria, senza dunque valutare la qualità complessiva della rassegna né le scelte del palmarès, è più che lecito rivolgere uno sguardo d’insieme all’intera Mostra per cercare di intuire la direzione che il cinema odierno sta intraprendendo. Ovviamente non possiamo fare di ogni erba un fascio, eppure poter ragionare avendo impressi negli occhi e nella mente circa 40 titoli prodotti bene o male contemporaneamente e calati decisamente nel qui e ora storico in cui ci troviamo, sicuramente costituisce un vantaggio notevole dal quale partire.
Ecco allora che se volessimo cercare un filo rosso che accomuni le opere presentate al Lido, il più evidente elemento di continuità è l’insistente e forte legame che attanaglia i titoli al presente storico, alla cronaca, al così detto “basato su fatti realmente accaduti”. In un decennio in cui il cinema documentario è cresciuto esponenzialmente (non solo numericamente parlando) soprattutto qualitativamente, sembra ora che la fiction stia in qualche maniera seguendo le medesime orme e direttive. Gli autori sentono il bisogno di confrontarsi con la realtà, di partire da essa per cercare di capire il presente storico.
Mai come oggi l’essere umano si ritrova del tutto disorientato da un mondo troppo vario, finto, frammentato in cui orientarsi risulta quasi impossibile (11 minutes di Jerzy Skolimowski parla anche di questo). Ecco allora che un buon punto di partenza per fare ordine potrebbe essere proprio quello della cronaca. Attraverso la ricostruzione dei fatti, un autore non si limita solo ad indagare un avvenimento cercando di interrogarsi sulle ragioni e i sentimenti che vi stanno alla base, cerca piuttosto di darsi delle risposte riguardo alle conseguenze che una certa storia possa aver scaturito. Conseguenze, manco a dirlo, ancora vive e attuali.
Everest, film d’apertura di questa edizione del Festival, metteva già in chiaro tale questione. Dopo aver ospitato nella medesima sede le avventure spaziali di Gravity e quelle psicologiche di Birdman, ecco spuntare un blockbuster che racconta di una delle spedizioni più tragiche che la cima più alta del mondo abbia mai accolto (nel Maggio del 1996). Il film che invece ha inaugurato la sezione parallela Orizzonti, Un monstruo de mil cabezas di Rodrigo Plà, si muove sul medesimo binario senza però svelare (se non durante i titoli di coda) che la vicenda narrata sia stata ispirata da un fatto di cronaca nera realmente accaduto.
Persino la sezione del fuori concorso si è dimostrata particolarmente attenta a questa sfera. Oltre agli innumerevoli documentari presentati (pensiamo a In Jackson Heights di Frederick Wiseman, L’esercito più piccolo del mondo di Gianfranco Pannone, l’ultimo lavoro di Franco Maresco, I ricordi del fiume di Gianluca e Massimiliano De Serio, Janis di Amy Berg, De Palma di Noah Baumbach e Jake Paltrow), due sono stati i titoli più significativi e attesi: Black Mass con protagonista Johnny Depp e Spotlight di Thomas McCarthy. Il primo racconta le gesta di
James Bulger, uno dei più famosi criminali d’America, il secondo invece di un team di giornalisti che nel 2003 indagò e portò alla luce uno scandalo scioccante relativo agli abusi su minori da parte di diversi preti di Boston puntualmente coperti e insabbiati dall’arcivescovo della città.
Potremmo facilmente continuare l’elenco citando Marguerite di Xavier Giannoli, The Danish Girl di Tom Hooper, il vincitore del leone d’argento El Clan di Pablo Trapero, Rabin The Last Day di Amos Gitai eccetera. Tutte opere che si allontanano formalmente dall’attuale estetica cinematografica e dall’attuale presente diegetico, ma che non riescono a fare a meno di prendere spunto da fatti documentati.
La baraonda disorientante della crisi finanziaria (e, strettamente connessa, di quella di valori) ha dunque frammentato in maniera sorprendente la realtà che viviamo, così come il cinema che da essa dipende. La memoria, l’importanza storica di un documento, il valore inossidabile che questo rappresenta sembrano componenti in cui i cineasti hanno deciso di rifugiarsi per fare ordine. Ciò che è accaduto, ormai è Storia. Guardando ad essa, possiamo capire meglio in che direzione ci stiamo muovendo e perché. Guardando al passato, possiamo imparare dove abbiamo sbagliato e aggrapparci a un modello saldo e preciso a cui fare riferimento.
Questa è stata Venezia 72. Questo è il cinema dell’oggi. Un cinema privo di malinconia ma schietto e crudo, che di fronte all’ostacolo del presente non trova rifugio nell’immaginazione (sepolta sotto enormi macigni pessimistici) ma in una rilettura del passato per provare a riemergere.
Ce la farà?
In copertina: Johnny Depp in Black Mass, dove interpreta uno dei gangster più feroci d’America