-di Andrea Chimento-
Non è mai facile provare a riassumere le linee guida di un festival come il Torino Film Festival, kermesse ricca di titoli differenti, tra opere prime e seconde, film di grandi maestri, generi diversi e tante nazionalità in cartellone.
Eppure, almeno una direttrice (tra le tante possibili) possiamo seguirla per sintetizzare i titoli più significativi visti sotto la Mole e, tra questi, si può cominciare dai tanti lungometraggi che hanno a che fare con la realtà, ispirati a storie vere o a grandi eventi storici.
Si può così partire dall’ attesissimo Sully di Clint Eastwood, biopic dedicato al pilota di linea Chesley “Sully” Sullenberger, colui che il 15 gennaio 2009 compì il celebre “miracolo sull’Hudson”, facendo atterrare il suo aereo sul fiume in seguito a un’avaria dei motori. Sullenberger riuscì a salvare la vita di tutte le 155 persone a bordo.
Un antieroe che si inserisce perfettamente nella poetica del regista, decisamente più in forma rispetto agli ultimi lungometraggi diretti e capace di strutturare una notevole riflessione sull’America di oggi attraverso un linguaggio che guarda al cinema classico (ma c’è anche un grande Tom Hanks nei panni del protagonista).
Biopic meno interessante è invece quello su Emily Dickinson firmato da Terence Davies, che si concentra sulla vita privata della poetessa e sulla sua necessità di scrivere per evadere da una società maschilistica e poco accogliente nei suoi confronti. Davies ha la solita classe, ma il suo lavoro fatica a spiccare il volo a causa di troppi momenti altalenanti.
Da due eventi storici, invece, si muovono due film dagli esiti opposti: il deludente Free State of Jones – ispirato alla vera storia di Newton Knight (Matthew McConaughey), un contadino del Sud degli Stati Uniti che durante la Guerra Civile Americana si ribellò all’esercito confederato – e l’ottimo Death in Sarajevo di Danis Tanovic.
Quest’ultimo, ispirato a una pièce di Bernard-Henri Levy, è un film ambientato in un albergo di Sarajevo il 28 giugno del 2014, giorno in cui ricorse il centenario dell’assassinio di Francesco Ferdinando che diede il via alla Prima guerra mondiale. La riflessione portata avanti dal regista bosniaco è sull’ Europa di oggi e su un’unione continentale che forse è rimasta solo un’illusione.
Alla Storia guarda anche Lav Diaz con A Lullaby to the Sorrowful Mystery: esamina il mito di Andrés Bonifacio y de Castro, colui che ha dato inizio alla rivoluzione filippina contro il dominatore spagnolo negli ultimi anni dell’Ottocento. Mentre il governatore cerca di sedare le rivolte, la vedova di Bonifacio si addentra sempre più nella giungla in cerca del corpo del marito.
Otto ore di durata per una pellicola non per tutti, ma capace di regalare immagini suggestive e affascinanti: un’esperienza audiovisiva impressionante, da fare almeno una volta nella vita.
Una menzione a parte, quando si parla di reale al cinema, va obbligatoriamente ai documentari e non si può prescindere dal citare Ta’ang di Wang Bing, ambientato ai confini della Cina, dove una guerra civile continua a mietere vittime da molti anni a questa parte. La popolazione Ta’ang, che abita quelle terre, si trova spesso costretta a scappare per cercare una parvenza di pace. Duro e intenso, un documentario importante come quasi tutti quelli firmati dal regista cinese.
Non c’entra con i biopic o con eventi storici, ma una piccola parentesi va comunque dedicata ai due film con protagonista Isabelle Huppert: L’avenir di Mia Hansen-Love e Elle di Paul Verhoeven. Se già il primo è un ritratto credibile e sincero di un’insegnante di liceo che viene lasciata dopo venticinque anni di matrimonio dal marito, il secondo è ancor più interessante per come utilizza il registro grottesco per parlare della borghesia contemporanea. Perché spesso, per essere reali, bisogna proprio puntare su iperboli e sarcasmo, e un regista come Paul Verhoeven lo sa molto bene…