– di Maurizio Melani –
Sei agosto 1965: ecco “Help!”, tappa fondamentale della creatività dei Betles. Mentre sono passati quarantacinque anni esatti dalla pubblicazione dell’ultimo vinile “Let it be”. Ecco un viaggio in immagini insieme a Maurizio Melani, che in due puntate per ripercorrere i cambiamenti socio-musicali del quartetto di Liverpool e i primi indizi sulla misteriosa morte di Paul… PARTE 2
Forma e sostanza. Un binomio perfetto che vale tanto per uno chef pentastellato, quanto per un complesso musicale che, attraverso le immagini di copertina (e i videoclips), deve trasmettere al consumatore (o al fan) la propria filosofia, idee, cultura. Con un occhio anche al business, of course!
Se è facile analizzare le covers di artisti sempre identici a se stessi nonostante la lunga carriera (siano essi gli Iron Maiden con la truculenta mascotte Eddie, ma anche chi sceglie smielati e costanti primi piani in stile simil selfie), più interessante è studiare le band che hanno più volte modificato la propria musica, arte, stile.
Perché abbiamo deciso di viaggiare insieme ai Beatles? Primo: proprio in questo periodo ricorre il quarantacinquennale – che parolone! – dalla pubblicazione del loro ultimo vinile (Let it be, maggio 1970); secondo: la loro carriera, durata discograficamente solo 7 anni – ve lo sareste mai immaginato? – a bordo di un dinamico sottomarino giallo ha piroettato tra le sacre sponde del beat e quelle della psichedelia, tra rock’n’roll e canzone d’autore; last but not least: i Beatles sonol’unica band storica che ha cambiato più volte immagine, sospesi tra tradizione e modernità, chitarra e sitar, conservatorismo e flower power, titoli onorifici e riscoperte mistico-Crowleyane.
Personalmente, messi davanti al gioco della torre, forse sceglieremmo a malincuore di salvare Mick Jagger e i ribelli, diabolici cugini Stones, facendo precipitare (ascendere) John, Paul, George e Ringo nel paradiso degli eroi. Ma il materiale visivo degli “scarrafoni beat” di Liverpool batte chiunque altro e vale la pena buttarvi quindi un occhio attento.
Formatisi nella cultura rock’n’roll & blues d’oltreoceano, che mescolava Elvis, Carl Perkins, Bill Haley, Chuck Berry, il prematuramente scomparso Buddy Holly, ed esplosi sulla scia del fenomeno beat (tanto da scegliere il nome Beatles – e non Beetles – per onorare attraenti specie animali, come usava all’epoca), le copertine dei primi album rispecchiano i canonici modelli mercantili: primi piani puliti, vestiti eleganti (per lo strazio di John), occhi strizzati a donzelle, famiglie, benpensanti, tramite canzoni “pop love” e testi con rime in stile “Love me do/I love you”. Nascono così Please, please me, With the Beatles, A hard day’s night, Beatles for sale, Help.
Durante la tournée americana dell’estate 1964, il quartetto ha il privilegio di conoscere un certo menestrello del folk dalle idee politiche e sociali per l’epoca estremamente radicali: Mr. Bob Dylan. Il quale li inizierà all’uso della marijuana: moda che stava prendendo sempre più corpo nel mondo delle sette note e del cinema, affiancando le intemperanze alla guida modello “Gioventù bruciata”. Dopo averli visti esibirsi dal vivo a San Francisco, anche il guru dell’LSD Timothy Leary cercherà di dare loro una prima patente di anticonformismo, proclamandoli “avanguardia d’assalto della rivoluzione psichedelica”. Il dado era tratto. Il “Day tripper” anche.
A fine 1965 esce Rubber soul. Il disco non è accolto nel migliore dei modi da pubblico e critica. Troppi i cambiamenti usati: da una musica meno “yè-yè” e più ricercata (maggior ampiezza melodica e la scoperta del sitar), a testi che lasciano spazio a filosofia, onirismo, voli pindarici come in Norvegian Wood
Ovviamente anche la copertina non è da meno. Per la prima volta sparisce la parola Beatles e il titolo dell’album abbandona ogni razionalismo estetico, per scoprire una contorta grafia gonfia di proto psichedelia. Anche la foto dei quattro boys, ad opera di Robert Freeman, già autore di quasi tutte le cover precedenti, è realizzata con un leggero effetto ottico che allunga leggermente i volti, allontanandoli dalla paciosa naturalezza degli esordi.
L’anno dopo è quello del capolavoro Revolver, l’album della svolta, in cui il misticismo orientaleggiante di George e il desiderio di sperimentazione di John (anche psicotropo) si affiancano al romanticismo conservatore di Paul, dando alla luce brani (in primis “Love you to” e quel “Tomorrow never knows”, con un ipnotico ritmo di batteria da far invidia a molti elettrofili moderni) che in qualche modo anticipano il boom della lysergic music dell’anno successivo. La cover, ideata dal musicista e illustratore tedesco Klaus Voorman, amico sin dai tempi dei piccoli live in Amburgo, va naturalmente di pari passo: tra patchwork di primi piani e maxi volti che perdono colore e realtà, trasformandosi in quattro curiosi fumetti in bianco e nero.
Pochi mesi dopo l’uscita del vinile, esattamente il 9 novembre del ’66, alle 5 del mattino, secondo una delle grandi leggende (o misteri) del rock, sarebbe morto in un incidente stradale niente meno che Paul Mc Cartney. A prendere il suo posto, un sosia che si sarebbe sottoposto anche a un’accurata operazione di plastica facciale. La notizia cominciò a girare quello stesso anno ma, smentita dall’entourage, tornò prepotentemente alla ribalta nel 1969 quando, nel corso di una trasmissione radiofonica, un ascoltatore affermò addirittura di conoscere il vero nome del “Paul non Paul” – William Campbell – e che le copertine degli ultimi dischi avrebbero numerosi indizi in materia. Facile intuire che vi fu il boom di approfondimenti, specialisti, intenditori, decifratori e – guarda caso – anche di dischi venduti: gli ultimi prima del (forse) già deciso scioglimento. Si formò anche il partito del PID: Paul Is Dead. Di certo la band non fu contrariata da quelle voci ma, al contrario – come vedremo – in qualche modo le alimentò, tanto che nel febbraio del ’67, tramite il fan club ufficiale, lanciò pure un concorso per trovare niente meno che il sosia di Paul. Che fosse quella “The great rock’n’roll swindle” proclamata 10 anni dopo dai Sex Pistols?
Facendo un piccolo passo indietro al 1967, quando le parole d’ordine sono rock psichedelico, controcultura e “summer of love” (con gli esordi discografici di Pink Floyd e Doors, ma anche Velvet Underground e Jimi Hendrix), ecco che in quel caldo giugno esce Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band. Sarà l’album col tessuto sonoro più sofisticato, ricco di archi, corni, pianoforti, tastiere e con la copertina – a cura dei Pop artists Jann Haworth e Peter Blake – più densa di misteri e simbolismi della storia del rock: un mix dei valori portanti dei Fab 4 e di quella cultura pop anni ’60 che tutto mescolava senza fastidi o pudori. Morte di Paul compresa (clicca qui per dare un nome ai volti sulla cover). A fianco dei musicisti della “banda dei cuori solitari”, si ergevano miti della letteratura e della controcultura (Dylan Thomas, Allan Poe, William Burroughs), guru e occultisti quali Aleister Crowley, colleghi musici (Bob Dylan), icone pop (Marylin Monroe).
Ma non solo. Il partito del PID da sempre punta il dito su alcuni inquietanti particolari: la bambola sosia di Shirley Temple che sostiene un modellino di Aston Martin (l’auto guidata da Paul), come la composizione floreale mortuaria di color bianco a forma del basso mancino Hofner (con le classiche quattro corde disegnate sopra); lo stesso Paul che pare consolare un Ringo vestito a lutto, come la scritta “Lonely Hearts” sulla grancassa che, scomposta a metà grazie a un banale specchietto, diventa ”I ONE IX HE <> DIE”: l’11 novembre lui è morto. PID o PIA (Paul Is Alive) che sia, resta la più affascinante, eclettica e mistica cover che la storia del rock abbia mai prodotto.
Ma indizi, misteri e cambiamenti stilistici non si fermano qui. Prossimamente: l’inquietante significato e chi vi era dietro la maschera da tricheco nella cover del “Mystery Tour”. E quella strana targa sul Maggiolino posteggiato in Abbey Road…
Segue parte 2