The Babadook & Co.: l’horror d’autore made in Australia

Data: luglio 20, 2015

In: CINEMA E DINTORNI,

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-Tommaso Tronconi-

“Fammi entrare! Fammi entrare!” reclama a gran voce, dalle pagine di una favola poco adatta a conciliare il sonno di un bambino, l’oscura e malvagia entità protagonista di The Babadook, esordio alla regia dell’attrice australiana Jennifer Kent (la serie tv Murder Call, 1997-2000). Ed è una richiesta che incarna quel desiderio del cinema horror australiano d’affermarsi definitivamente a livello internazionale.

Una scena da "The Babadook".

Una scena da “The Babadook”.

The Babadook, presentato al Sundance Film Festival 2014 e in concorso all’ultimo Torino Film Festival, è il grimaldello con cui l’horror australiano torna a farsi sentire, passando dall’ombra più gotica alle luci della ribalta, spalancando quella porta (del cinema) che nel lontano 1974 un celeberrimo horror diretto da Tobe Hooper invitava a non aprire. The Babadook è una nuova conferma della vitalità del cinema horror australiano, capace di pescare nella tradizione del genere e, pur senza innovazioni di rilievo, rielaborarlo fino ad esiti di grande originalità e coerenza sia a livello narrativo che estetico.

A dieci anni di distanza dall’acclamato Wolf Creek (2005) di Greg McLean, The Babadook è quindi l’ultimo biglietto da visita di un genere emerso a fatica e in ritardo dal contesto produttivo locale, e ancora non considerato a dovere nel panorama internazionale. Per meglio comprendere il peso del film diretto da Jennifer Kent, vale la pena ripercorrere, a rapide pennellate, la (breve) storia del genere horror nella terra dei canguri.

Nei primi anni del cinema alcuni (deboli) elementi horror fanno capolino solo in una manciata di film muti, tra cui The Face at the Window (1919), in cui un serial killer ulula come un lupo poco prima di uccidere le sue vittime, e The Guyra Ghost Mystery (1921), in cui compaiono i primi fantasmi, per lo più modellati su racconti popolari. Inoltre, se negli anni Venti e Trenta il cinema americano e quello europeo già vedono la presenza di zombie e vampiri (si pensi al Nosferatu di Murnau, 1922), nel cinema australiano ancora non ce n’è traccia.
Bandito in patria dal ’48 al ’68, il genere horror rimane quindi nell’ombra fino agli anni Settanta, ovvero fino al pionieristico Wake in Fright (1971) di Ted Kotcheff, film che, addirittura in concorso al Festival di Cannes di quell’anno, dà inizio ad una lunga serie di thriller e horror ambientati nelle sterminate e sabbiose pianure australiane. Degno di nota anche Night of Fear (1973) di Terry Bourke, in cui emerge il più classico topic del cosiddetto slasher movie, ovvero la donna terrorizzata da un killer nel bosco.

Seguono i gloriosi anni Ottanta con un energico e repentino incremento dei film prodotti, oltre che un ampliamento delle tipologie. Di esito opposto, invece, gli anni Novanta, i quali ci consegnano il minimo storico del genere, tanto che si ricordano solo i commerciali e splatter Body Melt (1993) di Philip Brophy e Bloodmoon (1990) di Alex Mills.

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Una scena da “The Babadook”.

Sopravvissuto nelle vene più underground del cinema australiano, l’horror resuscita e raggiunge la propria golden age negli anni Duemila, quando è tuonante e mondiale il successo di tre veri e propri cult: Undead (2003) dei fratelli Michael e Peter Spierig, Saw (2004) di James Wan e il già citato Wolf Creek (2005) di Greg McLean. Da questi film in poi l’horror australiano si è tenuto in buona salute con Black Water (2007), Rogue (2007), Lake Mungo (2008), fino al rinnovato successo di The Babadook.

Quest’ultimo è il più attendibile e fresco testimone del punto di forza dell’horror australiano: non inventare, ma rielaborare e dare nuovo lustro e nuova cera a topics e characters consolidatisi nel tempo. Altrimenti come si spiegherebbe il successo dell’ennesima storia incentrata sul Boogeyman, il cosiddetto “Uomo Nero”, eterno e ancestrale spauracchio dei bambini di tutto il mondo? La regista Jennifer Kent, inoltre, ha dichiarato di essersi ispirata, per rielaborarli in chiave moderna, agli horror muti dell’espressionismo tedesco, ai quali ha aggiunto nostalgici omaggi alle “attrazioni” di Méliès e alle fiabe più classiche.

Qual è, dunque, l’arma vincente di The Babadook? Il film punta tutto sulla mise-en-scène, lavorando su atmosfere, ambienti, rumori, configurandosi come un horror psicologico onesto e generoso, che sa crescere nell’accumulo di tensione e di elementi sinistri (il libro, l’armadio, la porta di cantina, il coltello, la giacca e il cappello, la foto sfregiata). Sono questi dettagli a generare suspense fin dall’inizio, discostando The Babadook sia dall’avarizia di tanto conclamato horror americano che sfida la resistenza (e la noia) dello spettatore procrastinando l’epifania dell’orrore (si veda ad esempio la saga dei Paranormal Activity), sia da quel grosso filone di film dal “nuovo mondo” che mirano a farci paura con faciloneria “responsabilizzando” la colonna sonora.

Detto questo, l’eredità dell’horror americano è palpabile in più occasioni, ad esempio nel letto traballante “preso in prestito” da L’Esorcista di William Friedkin (1973) o nella figura del bambino inquietante (tra i tanti, il protagonista di Joshua di George Ratliff, 2007).

Una scena da "Wolf Creek".

Una scena da “Wolf Creek”.

The Babadook ripercorre quindi le orme di Wolf Creek, il quale riuniva in sé i migliori elementi dell’horror made in Usa: un ragazzo e due ragazze che partono per una scampagnata (senza ritorno), l’auto che si guasta, l’isolamento in un luogo lontano dalla civiltà, uno spietato squartatore di uomini che fa buon viso a cattivo gioco. Niente di nuovo, dunque. Niente che non abbiamo già visto in dozzine di horror precedenti. Ma anche Wolf Creek, come The Babadook, lavorava sui dettagli, sui dialoghi, sul mood, su sequenze notturne alla flebile luce di un falò o di una torcia come nell’arcinoto The Blair Witch Project (Daniel Myrick, Eduardo Sanchez, 1999), con l’aggiunta di un tocco veramente gore e la contestualizzazione degli eventi narrati come fossero una true story. Ecco quindi che anche Wolf Creek guardava e imparava, ma non copiava, dal “vicino” cinema americano.

Concludendo, appare ora chiaro come il cinema horror australiano proceda inoltre verso la convergenza tra il concetto di “autore” europeo e quello orientale. Per il primo, sin dai Cahiers du cinéma, il cinema è d’autore quando dotato di un’organica convivenza fra poetica e stile. Per il secondo, invece, è la predisposizione al confronto coi generi, coi loro cliché da decomporre e ricomporre. Ecco quindi, direi inaspettatamente, come l’horror australiano riesce ad essere compiutamente un genere ibrido e ibridato, allo stesso tempo commerciale e d’autore. Insomma, un cinema da paura…

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4 Responses to The Babadook & Co.: l’horror d’autore made in Australia

  1. vanessa forte ha detto:

    Godibilissimo. Gli australiani (popolo che di certo non viene spontaneo pensare come fautore d’orrore) hanno trovato il giusto punto d’equilibrio.

  2. Valentina Benedetti ha detto:

    Mi ha deluso. l’idea non è molto originale. L’attrice protagonista invece mi ha stupito.

  3. […] Ma perchè Babadook può essere considerato come il miglior film horror 2015? Tre i fattori principali: non inventare ma rielaborare topics e characters consolidatisi nel tempo, grande attenzione e cura della mise-en-scène, capacità di lavorare sui dettagli. Continua a leggere perchè Babadook è il miglior film horror 2015. […]

  4. Linda Del Gamba ha detto:

    Non so se sia il miglior film horror del 2015 (tra l’altro devo ancora vedere Crimson Peak), ma mi è piaciuto moltissimo. Mi è caduto un po’ nel finale, ma considerando che Babadook può essere interpretato come metafora del lutto e delle conseguenze che esso comporta se non è gestito nel modo giusto, direi che è un finale abbastanza coerente con il messaggio che (credo) la storia voglia dare. Per il resto però davvero godibile e ben fatto, di un’eleganza visiva rara!