Teatro negli Emirati: From the sands to the clouds

Resoconto “Festival Fujairah” – EAU

di Tommaso Chimenti

FUJAIRAH ARTS FESTIVAL: “FROM SANDS TO THE CLOUDS”, TEATRO NEGLI EMIRATI

FUJAIRAH – La foschia è palpabile, netta, spessa e grigia, attaccata a queste piccole montagne rocciose e appuntite dietro la nostra visuale a fare da cornice. E’ l’umidità che la notte sale dal deserto di sabbia e dromedari e che la mattina fatica a defluire e sciogliersi rimanendo aggrappata a queste cime rare a queste latitudini. Gli Emirati Arabi Uniti sono sette e si sono coesi a fine 1971: una storia giovane. Tutti abbiamo sentito parlare di Abu Dhabi, per il circuito della Formula Uno o per la filiale del Louvre, o di Dubai per i grattacieli e il prossimo Expo 2020 (da ottobre ad aprile ’21). Un’esplosione economico-commerciale: fino agli anni ’30 la risorsa erano le perle fino alla scoperta del petrolio negli anni ’60 e questo boom edilizio e finanziario degli ultimi decenni che non accenna a calare. Essere al “Fujairah International Arts Festival” è un’importante occasione per conoscere questa parte d’Asia, le sue tradizioni e la sua voglia di aprirsi pur rimanendo fedele alle proprie origini. Il FIAF è un agglomerato di festival che include la musica, il teatro, le performance, l’arte, ed è alla sua terza edizione (biennale), mentre la parte del “Monodrama” (quella che maggiormente abbiamo seguito) ha dieci anni. Il Festival di Fujairah (20-28 febbraio) si svolge tra l’omonima città, a circa un’ora da Dubai, e la città di Dibba al confine con la punta nord distaccata dell’Oman. Dibba e Fujairah distano più di un’ora d’auto.

Le strade sono lingue d’asfalto scorrevoli, piatte e lisce che tagliano la sabbia bianca ai bordi che un leggero vento porta sulla carreggiata. L’aria condizionata è a livelli freezer in ogni spazio al chiuso, palazzi, teatri, macchine. L’Emirato di Fujairah è quello meno popolato (130.000 abitanti) e l’unico dei sette che si affaccia non sul Golfo ma sull’Oceano Indiano. La marea si ritira velocemente e lascia sulla riva jellyfish (un bellissimo termine inglese per chiamare le meduse), razze, infinite conchiglie bianche striate. Senza la disinfestazione delle sei di pomeriggio, effettuata con le piccole macchine da caddy del golf che ingolfano l’aria per cinque minuti (non fa così bene respirare lì nei dintorni in quei momenti), gli insetti e i mosquitos avrebbero la meglio. I gabbiani sono dello stesso colore delle tante cornacchie che incessanti cantano, urlano, comunicano, starnazzano da una palma all’altra. Per raggiungere i luoghi dove si svolgono gli spettacoli lo scenario che ci si apre davanti è contraddittorio: sorte di campi profughi con roulotte o tende e alle loro spalle alberghi a cinque stelle costellati di marmo, imponenti svettano sul mare, ville recintate e negozietti a fianco di terra battuta che principalmente vendono frutta o piatti tipici.

A Dibba ci sono due spettacoli al giorno, alle 17 e alle 20, in due spazi divisi da una strada, uno di fronte all’altro. C’è una sezione che chiameremo “in lingua araba” con piece ospiti provenienti da Paesi come Tunisia, Algeria, Palestina, gli stessi Emirati Arabi, Bahrain, Kurdistan, mentre per quanto riguarda gli spettacoli “internazionali” le compagnie invitate arrivano da Lituania, Sri Lanka, Russia, Filippine, Grecia, Inghilterra. Il “monodrama” è una definizione che sfugge alle categorie del teatro nostrano: monodrama non è semplicemente un monologo ma deve essere drammatizzato. Ad esempio i “nostri” Baliani, Celestini, Paolini o Davide Enia con la sua sedia non potrebbero essere inseriti nei monodrama. Quindi ci vogliono scene, costumi, movimento. Se Dibba è la “patria” del monodrama (un’ora massimo la durata delle piece), a Fujairah, dove si sono svolte le faraoniche cerimonie d’apertura e chiusura dell’intera manifestazione, il palco gigantesco è dedicato ai concerti di grandi cantanti nazionali. Molto interessante invece era la comfort zone del Villaggio ricreato a Dibba che veniva affollato dagli spettatori (tutti invitati con badge, non esiste biglietto per il teatro; poca Polizia in giro ma grande senso di sicurezza garantito) tra lo spettacolo pomeridiano e quello serale; qui si potevano assaggiare le pietanze locali preparate da donne del posto: una sorta di pane carasau croccante con tuorlo d’uovo e formaggio spalmati all’interno, palline di pasta di pane fritte con caramello sopra, una minestra di grano, il latte al timo o quello al ginger, i tradizionali tè e caffè. Un luogo d’incontro di tappeti e fumi che escono da grossi pentoloni e odori e il canto del muezzin, il richiamo alla preghiera per tutti gli islamici, dalla vicina (immensa) moschea.

Quando il canto della preghiera si leva alto tutto si deve fermare, soprattutto la musica e le danze: religioso silenzio, è proprio il caso di dirlo in questo caso. Le donne si possono dividere, per fare una elementare semplificazione, tra quelle in abiti tradizionali neri, molte con il niqab che lascia visibili soltanto gli occhi, altre con il burka degli Emirati Arabi che consiste in una sorta di maschera metallica con due spesse fasce una sopra gli occhi all’altezza delle sopracciglia e l’altra sopra la bocca quasi del grossi baffi che permettono di intravedere a malapena lo sguardo e di celare del tutto le labbra. Le altre hanno abiti occidentali, con i marchi di accessori e borse in bella mostra ma quello che più colpisce è il ricorso, anche quando non servirebbe o quando l’età anagrafica è bassa, alla chirurgia estetica, un vero e proprio status e must: labbra, zigomi, botulino sulla fronte vanno per la maggiore creando un abisso tra le due tipologie femminili. Gli uomini invece hanno le lunghe classiche tuniche bianche, il “kandura”, maniche fino ai polsi e lungo fino alle caviglie. Nel Village vanno in scena le musiche tradizionali di gruppi internazionali folcloristici. Un appunto però è doveroso farlo sulla platea indisciplinata, sperando che, con il tempo e l’abitudine al teatro, qualcosa cambi e soprattutto migliori riguardo alla fruizione degli spettacoli dal vivo all’interno: durante le piece teatrali ci si alza, si esce, si sbattono le porte, si risponde al telefono, le suonerie non sono assolutamente silenziate né minimamente abbassate, si chiacchiera e discorre con il vicino di sedia, si fanno filmati (sembra un concerto), si fanno fotografie con i flash, si fumano sigarette elettroniche, e alla fine scatta sempre un microscopico, impercettibile applauso di pochissimi secondi e poi si corre spediti verso l’uscita. Neo di un festival che sta crescendo. Da plauso invece l’incontro con l’artista subito dopo la rappresentazione con il pubblico che ha così la possibilità di porre domande, chiedere chiarimenti e soprattutto esprimere il proprio punto di vista sulla piece.

Bomber

Bomber

Parleremo di cinque spettacoli, Grecia e Russia deludenti, Lituania, Sri Lanka e Inghilterra positivi, perché purtroppo le piece “arabe” non erano sottotitolate in inglese, altra pecca da correggere per le prossime edizioni, per una corretta fruizione da parte del tanto pubblico occidentale invitato. Cominciamo con le note dolenti, dallo zoppicante “Bomber” dell’artista greco Jhonny O-Panayota Kantiani, spettacolo senza parole, di mimo che la faccia bianca dell’attore suggeriva. Il titolo fa riferimento ad una bomba reale che qui è vista come scardinamento delle attuali esistenze messe in scena, piede di porco per cambiare vita, dare una sterzata alle normalità delle tre figure sulla scena: un autista, un manager, un direttore d’orchestra. Se il tema può essere profondo la sua esplicazione è leggera, grottesca e il fil rouge si perde nei meandri criptici del performer, impantanato in una scrittura debolissima che non riesce né a scaldare né a commuovere. Sgraziato, scoordinato con il playback, dinoccolato, non riesce a creare empatia, colmo di errori tecnici, gramelot insufficiente, attorialità insoddisfacente, piece frustrante, inconcludente, incomprensibile, confusionaria: non un non-sense, come nelle intenzioni dell’artista greco, ma proprio senza senso: un buco nell’acqua.

Lidia Kopina

Passiamo al russo “Settimana” (è il titolo originale, in italiano) di e con Lidia Kopina, i sette giorni della creazione visti da dentro un’esistenza. Molto cerebrale, ma anche scontato, si comincia dal feto che sta per nascere. La Kopina, con una musicista-rumorista in scena (perché lasciarla al buio sul boccascena invece che integrarla nella piece?), si muove flessuosa come un ragno, adesso con i passi leggeri dell’uomo sulla Luna, striscia come un serpente, traballa, è schiacciata al suolo, tenta di alzarsi come una giraffa appena nata che non riesce a stare sulle zampe. I suoni, anche estemporanei e improvvisati, seguono i movimenti e questi ultimi si autoalimentano con la musica in un viaggio introspettivo ma troppo ermetico e chiuso. La nascita e crescita dell’individuo come fosse il parallelo con la Creazione dell’Universo. C’è mistero e scoperta, adesso cresce, danza, da brutto anatroccolo ora è un sinuoso cigno. Ma tutto rimane nelle intenzioni senza riuscire ad andare in profondità, a coinvolgere, a toccare.

Untouched

Importante, sia per il contesto dove è nato lo spettacolo sia per dove è stato proposto, la scelta dello Sri Lanka con “Untouched” a cura del gruppo Inter Act Art che è formato da membri di varie etnie e di diverse religioni. Il tema, come dicevamo, è coraggioso: la crisi di coppia in un mondo dove non è contemplato il tradimento né il divorzio. Se la recitazione è molto naif, con le voci fuori campo che rappresentano gli altri personaggi, la scena è costruita con semplicità e sapienza: un grande telo con all’interno tre igloo, canadesi da campeggio, che la sostengono. Ad una prima occhiata sembra di trovarsi davanti all’immagine del Piccolo Principe con il serpente che si è ingoiato l’elefante divenendo una sorta di cappello. Lei (gli altri personaggi sono Lui, il marito, e l’Amante, come a farne una storia universale) si muove sotto questa rete, infagottata, ingabbiata, reclusa all’interno delle regole del matrimonio con un coniuge che non ama e dal quale viene trascurata. Sotto questo velo traforato Lei muovendosi lo allarga, lo amplia, ci cammina sotto, lo deforma, lo abita, come un pesce dentro la rete del pescatore, impigliata, intrappolata in questa ragnatela, dentro questa bolla di sapone, racchiusa all’interno di questa enorme Big Babol. Lei è compressa in casa, schiacciata in quel rapporto, prigioniera del e nel matrimonio. Importanti le luci che danno corpo e anima alla semplice evoluzione di questa donna che comincia a frequentare un altro uomo per solitudine e non certo per lussuria. Quando inizia a vedersi con l’Amante la donna esce dal suo guscio, dalla sua prigione dorata. E quel telo che sorregge debolmente tutta la sua esistenza come un colosso dai piedi d’argilla, come un castello di sabbia in riva al mare, ora diventa abito nuziale adesso si trasforma in cappio fino alla scena finale dove Lei sembra issarsi come dentro un vulcano, come la Winnie in “Giorni Felici”. Una critica ai matrimoni combinati, insoddisfacenti e infelici, la rivendicazione che anche la donna può scegliesi il proprio futuro e la propria felicità: un teatro didascalico e ingenuo ma con qualcosa da dire e da raccontare: una protesta gentile ma necessaria.

Pit Utton

Il miglior spettacolo al quale abbiamo assistito dell’intero Festival è stato senza dubbio l’inglese “At home with Will Shakespeare” di e con il grande attore britannico Pip Utton che, nel corso della sua carriera, ha impersonato nei suoi monologhi Hitler, Einstein o Margaret Thatcher. Qui diventa il Bardo. Importante il nome dell’autore di “Amleto” che da William si contrae in Will. Sembra cosa da poco, invece sta qui il senso della piece che ci fa entrare dentro la casa, lo studio, tra le carte e la scrivania, tra i pensieri di Shakespeare, e ce lo fa sentire vicino, terreno, vulnerabile, non mito ma comune mortale con le paure, i fallimenti, gli scivoloni della vita e non soltanto i successi e gli applausi. Utton, l’unico che dal palco ha detto qualcosa al pubblico per l’uso smodato dei cellulari, ha ricevuto a fine esibizione il Premio dal Festival per il Monodrama. Il suo Shakespeare parla dell’amore, per lavoro dell’attore, per il teatro, per la scena, per il palco, per la parola, della sua vita a Stratford upon Avon e poi a Londra, l’esperienza del Globe. La sua è una conferenza drammatizzata attiva, fresca, interattiva, si sente che tiene le redini del pubblico. Ci racconta delle condizioni di vita del Seicento, la mortalità dei bambini, la verginità delle donne. Rompe gli schemi ai quali sono abituati da queste parti e sfonda la quarta parete: scende dal palco, cammina, si mischia con la folla, guarda negli occhi la platea, li interroga. E alla fine, è l’unico che si prende un lungo giusto applauso, lo strappa feroce, di pancia, viscerale: il migliore artista, di gran lunga e per distacco, visto a Fujairah.

Birute Mar

Ed infine un altro spettacolo fondamentale soprattutto per aver portato a galla un problema, un caso e un tema ai più sconosciuto: le donne giapponesi che all’inizio del secolo scorso andavano negli Stati Uniti come spose di uomini che avevano visto solamente per lettera e fotografia e che, dopo l’attacco a Pearl Harbor, hanno subito discriminazioni, incarcerazioni, deportazioni e rimpatri, loro e soprattutto i loro figli, nati su suolo americano. Una storia contemporanea che si ripete. E’ “The Buddha in the attic” della scrittrice nipponica Julie Otsuka messo in scena dalla lituana Birute Mar (anch’essa Premio per il Monodrama) che racconta in tre parti, il Viaggio in nave per raggiungere la Terra Promessa, l’America e la Guerra. E’ un viaggio esteriore verso un mondo sconosciuto ma anche uno interiore dentro se stesse: le attese, le speranze di una vita migliore, il fantasticare sul marito. Si parla di identità, di cittadinanza, di questione femminile. Una volta arrivate a San Francisco l’amara e cruda realtà: gli uomini spesso avevano mandato fotografie false, erano più brutti e più anziani e le avrebbero trattate come schiave costrette in casa ai lavori quotidiani di pulizia, cucina e “doveri coniugali”. Serve comprate, cose e non persone che lavoravano molto e non potevano protestare. Birute Mar dona corpo e pathos alle vicende, è umana e gentile nei suoi gesti, ferma, elegante, attrice di tradizione e contemporanea allo stesso tempo, enfatica dai movimenti controllati e puliti, senza fronzoli: giustamente premiata.

Gli Emirati Arabi Uniti sono sospesi tra tradizioni secolari da una parte e tecnologia e progresso dall’altra, come recitava lo slogan della Cerimonia d’Apertura: “From sands to the clouds”, dalla sabbia alle nuvole, ricordando ed esaltando Hazza Al Mansouri che a settembre 2019 è stato il primo cittadino e pilota emiratino nello spazio. Il futuro è qui.

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