ALL’OPERA DI FIRENZE L’8 SETTEMBRE INSIEME A ZUBIN MEHTA. CONOSCIAMOLO MEGLIO IN QUESTA INTERVISTA
-di Massimo Giuseppe Bianchi-
“Igor Stravinsky non guardava Heidi”. Incontro fra pianisti: Stefano Bollani intervistato da Massimo G. Bianchi
Ho incontrato il pianista Stefano Bollani che sta per iniziare il tour di promozione del suo ultimo disco “Sheik Yer Zappa” (Universal). Con lui ho piacevolmente conversato di musica e di molte altre cose.
E’ uscito da poco il tuo album “Sheik Yer Zappa”. Frank Zappa è stato un grande musicista rock, ma anche un compositore cameristico e sinfonico il cui linguaggio deriva da Stravinsky e Varèse lambendo, in alcuni dischi (penso a ‘The grand Wazoo’) il jazz. Quali elementi ti interessano particolarmente nella sua musica?
“Lo humor, innanzitutto. Dal punto di vista musicale nei suoi dischi e nelle sue partiture ci trovi un mucchio di idee delle quali potremmo discutere a lungo… Zappa è stato tante cose insieme e la sua personalità è talmente ricca da avere pochi confronti, proprio inclassificabile: c’è il rock, la musica contemporanea, i coretti doo-wop degli anni ‘50, il jazz, un sarcasmo dissacrante, persino la politica, era una musica visionaria, che creava contrasti forti per provocare. Ma lo humor, che si rispecchia non solo nei testi ma anche nei contenuti musicali, è stato l’elemento che più mi ha colpito e che ancor oggi ritengo peculiare.
Sono da poco scomparsi, tra i tanti, due grandi protagonisti del jazz: Ornette Coleman e Gunther Schuller. Questi artisti, nel loro approccio alla musica afroamericana, rappresentano quasi due poli opposti. Ce ne vuoi parlare?
Si tratta in entrambi i casi di musicisti che si sono confrontati col jazz cercando di portarlo in un’altra direzione. Naturalmente venivano da storie differenti. Coleman era un nero legato al blues, Schuller un bianco che proveniva da studi classici, diplomato in corno: un accademico quindi. Ma tutti e due sono accomunati dal desiderio di declinare il jazz al presente, cosa che hanno fatto con grandi risultati. Personalmente io mi sento più legato ad Ornette poiché in Schuller c’è una grande quantità di “testa”, il desiderio di mettersi a sedere e sforzarsi di dare al jazz una forma, fissandolo entro una struttura che integri l’improvvisazione. Ornette invece semplicemente soffiava dentro il sassofono: in questo si compiva la sua sperimentazione.
Sembra sempre brutto, quando si parla di artisti scomparsi, citare i primi dischi, poiché parrebbe che dopo non abbiano più fatto nulla di altrettanto significativo, e non è certo questo il caso! Ma devo dire che di Ornette mi sono sempre piaciute molto le prime realizzazioni…C’era un’intenzione dichiarata, una marca intellettuale precisa, un gusto, una forza che mi hanno sempre coinvolto e li riascolto ancora oggi con lo stesso entusiasmo di quando li conobbi allora.
A proposito di Schuller, mi viene in mente anche il nome di Giorgio Gaslini, pure scomparso da poco.
Anche a me! E avremmo forse anche potuto citarlo per primo… Con lui si può fare un discorso analogo a quello fatto a proposito di Schuller, certo, Giorgio però era un italiano, cresciuto con la musica classica. Aveva studiato in Conservatorio conseguendo vari diplomi e studiando tra l’altro con Carlo Maria Giulini. Successivamente ha conosciuto il jazz, un nuovo mondo, se ne è innamorato al punto da operare una sintesi con con le proprie radici, con il sinfonismo ma anche con la musica popolare di cui era un grande conoscitore; ha realizzato sperimentazioni interessantissime che, naturalmente, sono divenute jazz, il “suo” jazz. Abbiamo perso un grande protagonista della nostra musica.
Tu sei anche un brillante pianista “classico”, con alcune registrazioni all’attivo: è sempre vivo il rapporto con questa tradizione? Ami dare concerti in questa veste?
Certamente, sono molto legato alla musica classica e mi piace suonarla in pubblico anche se ciò in verità non accade spesso, solo qualche volta l’anno. Di certo non voglio pensare di indossare una veste diversa rispetto a quella che indosso quando faccio jazz, non desidero fare una doppia carriera. Recentemente ho suonato ad Amsterdam, al Concertgebouw, con Chailly e ammetto che è stata una bellissima esperienza, ma spero che il “cambio” non avvenga mai, non lo sento e non voglio pensare di mettermi il farfallino e diventare un’altra persona, come dr. Jekyll e mr. Hyde. Sono aspetti complementari anche se, nel mio caso, il mestiere di jazzista finisce col prendere il sopravvento, per tante ragioni.
Tu hai dedicato un disco molto fortunato a Gershwin ma anche inciso il concerto in sol di Ravel, cosa insolita per un jazzista. Ci vorresti parlare di questo concerto, che io reputo una delle opere più belle del primo Novecento ?
Anch’io ! E’ un’opera straordinaria, mi è sempre piaciuto. Dopo la registrazione per Decca con Riccardo Chailly dedicata a Gershwin, io e il maestro ci siamo trovati per discutere di un altro progetto ed è spuntato il nome di Ravel.
Per la verità, il concerto che avrei dovuto incidere era l’altro, quello per la mano sinistra, che in effetti è più “jazzistico”. Però, non saprei dire perché, lo sentivo meno nelle mie corde, non ero convinto e la scelta alla fine è caduta su questo. Anche il Concerto in sol, comunque, in molti luoghi presenta più di un accenno al jazz, in particolare al mondo ellingtoniano, specie nell’Adagio. Chiaramente l’autore in questo pezzo cerca un aggancio con musica ben più antica, ma in questo suo modo di porgere mi ricorda tanto Ellington e le “ballads”. Anzi, Ravel qui si rivela in fondo un precursore delle “ballads”: non dobbiamo dimenticarci che a quei tempi non c’era in giro un Dexter Gordon cui ispirarsi.
Anche Stravinsky si è ispirato più volte al jazz, ma ho sempre pensato che, in fondo, si sia trattato di un geniale fraintendimento di quella musica…
Credo che per loro, dopotutto, si trattasse di una moda. Pensavano che dopo dieci anni di questa musica non sarebbe rimasta più traccia e nessuno l’avrebbe più ascoltata. Non dimentichiamoci che queste menti geniali erano sottoposte ad una straordinaria quantità di stimoli differenti. Frequentavano gente che non si occupava solo di musica e un fenomeno di questa portata culturale non si è più ripetuto. A Parigi, all’epoca di Ravel, si poteva incontrare non solo Stravinsky ma anche Coco Chanel, Salvador Dalì, André Breton…e potrei continuare a lungo. Il jazz era soltanto una di queste istanze. Comunque sia a tutti, di questo stile, sembra essere sfuggito l’elemento più importante: l’improvvisazione
Sei un personaggio molto amato anche per la cordiale comunicativa che instauri con il pubblico, caratteristica che hai saputo trasferire anche in TV. Tuttavia, non manca chi ti muove delle critiche, quasi che la componente giocosa che contraddistingue i tuoi spettacoli possa rappresentare un ostacolo alla musica, ledendone la ‘sacralità’.
Come vivi queste obiezioni e cosa risponderesti?
Bè, così mi è molto facile, se il succo della critica è questo. Sotto sotto c’è una sorta di indignazione perché non bisognerebbe scherzare su qualcosa di così importante come la musica, altrimenti la si abbassa di livello… se è questo il punto, allora affermo di esserne ben felice, in quanto l’idea che la musica abbia qualcosa a che fare con un rito sacro semplicemente mi spaventa. Per me non c’è niente di intoccabile, nella musica come nella vita. Un conto sono le cose sacre che uno si porta dentro e che custodisce, un conto è la sacralità, quella cosa esibita verso l’esterno che dovrebbe tenere insieme un popolo, una classe, o addirittura il genere umano.
Non credo ce ne sia bisogno: il genere umano è già unito e ponendogli di fronte nuovi riti sacri non si fa che creare ulteriori divisioni in quanto, come ben sappiamo, qualsiasi rito, religioso o politico, è esclusivo, non inclusivo.
Per i fedeli, il proprio rito è più importante di quello che si svolge pochi metri accanto; ad esempio, per i custodi della musica classica, la loro tradizione è più importante delle altre, e così via. Tutto questo è solo fonte di discordia, è come tenere per il Milan piuttosto che per l’Inter. Nella vita reale invece, accade che uno sta tranquillamente ascoltando Mahler e un attimo dopo qualcun altro gli racconta una barzelletta. Che c’è di strano? Per il sottoscritto esiste solo il presente, non il divieto. Parlando di attività creative, dobbiamo semplicemente fare ciò che vogliamo fare nel momento in cui lo desideriamo. Tutto quanto blocca la creatività non mi sta molto simpatico.
Il jazz può ancora essere portatore di nuova energia creativa o è ormai, come alcuni sostengono, uno stile consolidato,classico, con ben tracciati confini, dove è più soltanto possibile ribadire cose già dette?
Sai, è diventato anche questo perché tutte le cose, quando invecchiano un pò, a un certo punto diventano monumenti, accademia. E’ così per molte persone anziane, che arrivate a 80 anni diventano improvvisamente sagge: il jazz è ormai un signore di una certa età, con le sue regole, i suoi proseliti. Ma accanto a quel signore saggio cui hanno fatto il monumento c’è gente che, per fortuna, tiene in vita la musica. Questo vale anche per Beethoven. Gli hanno fatto un monumento, ma per fortuna qualcuno lo suona come se fosse musica viva e non scritta da un grande signore di 300 anni fa di fronte a cui dobbiamo inginocchiarci. Questa visione, che traspare ogni tanto dall’atteggiamento di alcuni musicisti, puzza di morte, di cadavere, di cimitero e non credo che appassioni nessuno.
Torniamo per un momento a Zappa. Come dicevamo, per lui Edgar Varèse rappresentava il vero iniziatore della modernità (non Schoenberg, che in fondo chiudeva un’epoca). Per te chi è, nella storia del Jazz, l’equivalente di Varèse, il più grande innovatore? Ammesso che sia possibile rispondere…
Domanda difficile… troppo! Non saprei perché, per fortuna, ragiono regolandomi sui miei gusti personali, con un piccolo accenno di critica storica. Diciamo che potrei rispondere, un po’ banalmente, Miles Davis perché ha reinventato continuamente la propria musica. A dispetto di altri, a dispetto persino dello stesso Ornette Coleman che ha inventato un linguaggio, una corrente e una moda, Miles ha fatto semplicemente gli affari propri. Ecco, credo che sia questa la vera innovazione: essersi fatto gli affari propri tutta la vita fregandosene delle mode.
Tu suoni spesso con Hamilton de Holanda e hai dedicato un album, Carioca, alla musica brasiliana. Quali sono gli elementi che ti affascinano di più di questo mondo? Ci vuoi parlare più da vicino del tuo duo con il mandolinista?
Con Hamilton c’è stata empatia da subito, al punto che non dobbiamo quasi parlare di scaletta, saliamo sul palco e suoniamo, se io vado in una direzione lui la asseconda subito: naturalmente, la cosa è reciproca! Nella musica brasiliana ciò che più affascina è, finalmente, l’ assenza di dicotomia tra “alto” e “basso”. Tra Villa Lobos, che è il compositore colto per eccellenza, e Antonio Carlos Jobim non corre nessun fiume in mezzo e questa cosa è, come direbbero gli inglesi, “refreshing”: fa bene. La bossa-nova, il samba, la canzone popolare o la canzonetta di Chico Buarque, le “Bachianas Brasileiras” e i concerti di Villa Lobos stanno tutti insieme. Questa è la cosa più bella che possa capitare a un popolo.
Sono cresciuto, per ragioni anagrafiche, con il jazz-rock e la fusion. Che ne pensi? Come è possibile creare una vera ‘fusione’ di generi musicali? E qual è il tuo rapporto con il rock, il punk, la pop music…..
Domandona, questa… mi hai chiesto di tutto! Ti dirò, non ero proprio innamorato del genere poiché ero appassionato fin da bambino dello strumento acustico, del pianoforte, più che delle tastiere. Amavo la chitarra elettrica, questo sì, anche nel rock le mie passioni sono sempre stati i chitarristi: Zappa, Robert Fripp. “ Fusion” era un termine usato per fini commerciali ma “ fusion” è quella che si fa tutti i giorni, sempre, poiché nessuno di noi può dire di fare qualcosa di puro: è impossibile. Sono nato a Milano nel ’72, cresciuto a Firenze, potrei mai indossare una giacca e una cravatta in stile e fingere di essere un contemporaneo di Beethoven? Ma, aggiungo, non potrei essere neppure contemporaneo di Louis Armstrong: sono lontanissimo culturalmente. E nemmeno di Stravinsky! Io sono cresciuto guardando “Heidi”, Stravinsky non guardava “ Heidi”! Non sarà una grande impronta culturale, lo ammetto, ma purtroppo sono circostanze che creano inevitabilmente un diverso modo di vedere le cose. I musicisti più interessanti cercano di prendere ingredienti diversi e mettere insieme una propria ricetta. Per esempio i due che ho citato, Zappa e Fripp, sono importanti perché si sono messi in testa il cappello da cuoco e hanno deciso di utilizzare elementi provenienti da zone molto lontane: uno Varèse e il doo- woop, l’altro tutta una tradizione di minimalismo che possiamo far risalire faticosamente addirittura a Satie, che con il rock non aveva proprio niente a che fare; però funzionava, e ha fatto la cifra stilistica dei King Crimson, collocandoli in un posto secondo me molto importante.
Mi piacevano anche i Doors, i Led Zeppelin, naturalmente i mitici Beatles: però Frank e Robert sono per me i due cuochi più interessanti poiché hanno davvero rubato da tutti creando una ricetta nuova.
Parlaci dei tuoi progetti futuri.
Tanti concerti, quest’estate. Se volete, potete seguire il calendario sul sito perché sono davvero tantissimi. C’è il tour di omaggio a Zappa e poi altre cose diverse, in settembre e ottobre.
Grazie e in bocca al lupo per tutto
Ciao e un saluto ai lettori di “Wordsinfreedom”
Foto di Valentina Cenni cortesia Press Stefano Bollani
Sheik Yer Zappa tour luglio 2015
12 Umbria Jazz, Perugia
13 Carroponte, Sesto San Giovanni
14 Festival da Jazz live at Dracula Club, St. Moritz – Laudinella, CH
15 Arena Derthona 2015,Tortona
16 Estate Fiesolana, Anfiteatro Romano, Fiesole
17 La memoria degli elefanti, Spartacus Arena, Santa Maria Capua Vetere (Ce)
18 Jazz in campo, Campodipietra (Cb)
19 Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, Roma
20 Udina Vola 2015, Castello, Udine
21 Veneto Jazz, Rocca dei Tempesta, Noale (VE)
bella intervista. Bollani è un musicista molto noto, ma da questo colloquio più che la star emerge il musicista con tutto il suo vissuto, il che dà una bella chiave di lettura anche alla sua musica. Bravo maestro Bianchi!
Sì è un’intervista bellissima, in cui Bollani finalmente riacquista la sua statura di musicista. Trovo anche io che il maesrto Bianchi sia stato davvero bravo
Grazie. A parte le lodi di Carla Vinci e Valeria Ronzani, che giungono sempre gradite, e di cui sono grato, è bello ribadire quanto mi faccia piacere avere l’opportunità di scrivere di musica in una casa libera e comodamente arredata come “wordsinfreedom”, uno spazio davvero aperto e non conformista. Stefano Bollani ha forse percepito questo orizzonte e si è sentito libero di conversare simpaticamente (davvero) di musica. Come tutti i migliori artisti, i suoi interessi non si fermano all’arte dei suoni, che comunque basta per la vita.