Una storia Italiana
di Stefano Fabbri
Valeva la pena attendere almeno una settimana, nella speranza (forse vana) che si depositasse un po’ di polvere della polemica sulla liberazione di Silvia Romano. La grande prova della pandemia che avrebbe dovuto renderci migliori (chissà poi perché) ha finito invece per acuire nel sentimento comune il sospetto, la crudeltà, quando non vero e proprio odio, originato dalle modalità della sua liberazione, e cioè il pagamento di un riscatto, mai ufficialmente confermato ma molto probabilmente corrisposto, e la sua conversione all’Islam, o meglio la rappresentazione plastica di essa sintetizzata dalla veste verde che scendeva dal capo di Silvia al suo arrivo a Ciampino. Nel mondo degli odiatori seriali da tastiera, comprese le tastiere su cui si scrivono articoli destinati al grande pubblico, adusi ad improvvisarsi grazie all’ “università della strada” di volta in volta in economisti, virologi, psicologi, urbanisti (con grande sollievo degli allenatori di calcio che era la categoria più insidiata da tali competitors), in quel mondo, appunto, la sfida del senso del ridicolo è giunta all’immedesimazione pure nel ruolo di mediatori internazionali per il rilascio degli ostaggi.

Silvia Romano saluta dalla finestra della sua abitazione milanese
Sul capitolo riscatto, che in una situazione di forte crisi economica è quello che può più facilmente colpire, ci sono due aspetti significativi. Il primo è quello del confronto con altri Paesi che ostentano una linea della fermezza, come Uk e Usa, spesso solo enunciata in nome di un celodurismo che in realtà, in molti casi, li ha visti invece impegnati in estenuanti trattative mai confessate pubblicamente. Il secondo, più profondo, è quello che mostra la grande differenza di atteggiamento nei confronti del valore della vita umana. Nelle scorse settimane hanno fatto molto discutere le affermazioni del presidente del Bundestag Wolfgang Schauble che, nel dibattito sulla riapertura delle attività economiche in una situazione resa ancora difficile dal coronavirus, è intervenuto sostenendo, in sostanza, la tesi per cui “la dignità delle persone viene prima della salvaguardia della vita”.

Wolfgang Schaeuble
Parole che vanno certo contestualizzate nel dibattito sull’impossibilità oggettiva di un lockdown lungo quanto l’attesa di un vaccino, ma che sarebbe colpevolmente schematico ricondurre solo a sillogismi in cui la dignità equivale al lavoro (e magari alla sua capacità di rendere liberi…) e che riecheggiano sinistri motti della Germania di 80 anni fa. Tuttavia non può sfuggire come esse siano state pronunciate dall’esponente di un partito che si rifà ai principi cristiani, tra cui quello dell’inviolabilità e sacralità della vita umana, e non da un alfiere di una visione del mondo segnata dalla laicità e da una concezione dell’interesse collettivo come bene supremo, anche a scapito della vita sia pure di un solo individuo. Scherzi del calvinismo? Ma Calvino, alle nostre latitudini, viene malamente interpretato nel caso di Silvia Romano secondo lo schema che segue: “è più importante la mia dignità (di cittadino resistente ai ricatti) della vita di un ostaggio”, cioè di un altro. Non è, sciaguratamente, la prima volta che nel nostro Paese questo rigore a buon mercato che mette sullo stesso piano la dignità (propria) e la vita (degli altri) si fa largo. Inutile cercarne l’origine nella ben diversa situazione in cui si trovarono i combattenti della Resistenza che non cedevano alle torture non solo e non tanto per difendere la dignità, bensì la vita di tante altre persone anche a costo della propria. Credo invece che questa deriva culturale abbia una sua data d’inizio ed è quella del rapimento di Aldo Moro. La “linea della fermezza”, che aveva sostanzialmente il proprio pernio nei due partiti-chiesa di allora, il Pci e la Dc, conquistò il consenso della maggioranza degli italiani che, anche in quel caso, preferirono la propria “dignità” alla vita di un uomo. Salvo poi lacrimare come solo i coccodrilli sono capaci di fronte alle immagini della Renault rossa di via Caetani e, successivamente, cullarsi ed auto assolversi nella narrazione per cui quel sacrificio (di Moro, non certo loro) li avrebbe liberati dal ricatto e dalla sfida del terrorismo e per smentire la quale (indipendentemente dalle valutazioni sulla crisi politica delle Br) basta la scia di morti che ha segnato i 25 anni successivi all’uccisione di Moro. Oggi l’eredità della linea della fermezza si è concretizzata nel disdoro di coloro i quali avrebbero forse preferito vedere il ritorno di Silvia Romano non avvolta in una veste islamica, ma chiusa in una bara anziché rinunciare alla loro “dignità”.

Il ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani
A potenziare questo inconfessabile desiderio c’è poi il secondo capitolo, quello della conversione, che a differenza del pagamento del riscatto è addebitata per intero a Silvia Romano. In sostanza il ragionamento è questo: ma come, paghiamo pure per avere in cambio la vita di una persona che vuole somigliare a quelli che sono stati i suoi carcerieri e che potevano essere i suoi carnefici e che sono dunque i nostri nemici? Un ragionamento che porta con sé tutto il corollario di disprezzo per chi ha “tradito”. Nessuno, credo neanche gli investigatori più capaci, tantomeno gli psicologi più accorti e gli esperti di cose islamiche più colti hanno ricostruito esattamente cosa abbia fatto scattare in Silvia Romano la sua decisione, a quali ed in quali condizioni essa sia maturata o fatta maturare. Ci sono però le parole di chi ha vissuto la sua stessa situazione. Ad esempio quelle di Giuliana Sgrena secondo la quale “non basta una vita per superare lo choc di un sequestro”, per lei aggravato dalla morte di uno dei suoi liberatori, Nicola Calipari. E ricorda i tentativi di conversione, l’averle fatto recitare una preghiera con il velo sul capo, salvo poi essere uscita da quella drammatica esperienza, racconta, più atea di come ci era entrata. Silvia, sostiene Tahar Ben Jelloun, “dice che è una scelta libera. Dobbiamo crederle. Ma una domanda sorge spontanea: perché aderire a questo Islam che rapisce, terrorizza e ti priva della libertà gettando in una grande angoscia la tua famiglia e i tuoi cari?” . E poi: “L’isolamento, il terrore, la paura di essere uccisi sono ingredienti che a volte perturbano la ragione e la libertà di spirito. Non pensi più allo stesso modo quando sei libero e quando sei privato di ogni libertà, con in più la minaccia di perdere la vita. È un’angoscia profonda quella che probabilmente ha dettato a Silvia una scelta del genere”. Ma ancora di più, per farci capire, sono importanti le parole di Domenico Quirico, giornalista de La Stampa, anche lui sequestrato per mesi: “Conosco il rito dell’offerta della conversione per averlo vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. Sconcertante impenetrabilità di personaggi a doppio, triplo fondo. Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima. Non è un rito formale, piccole mercanzie da sacrestia islamica, è un obbligo, a cui credono sinceramente: salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede, accrescere di una unità il paradiso dei puri, dei giusti. Che doppia vittoria!”.
Ed ancora: “Non si parli di sindrome di Stoccolma, del legame capovolto che si crea con chi ti fa del male. Semplicemente non esiste. Quello che cerchi, che sogni è avere un po’ di quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio implacabile e senza indulgenza può andare bene, ti può scorrere addosso come un balsamo. Il tuo, se lo avevi, sembra aver scelto il silenzio, ha perso la partita”. E quell’abito, dice Quirico, “lei ha voluto indossarlo, ci condanna e ci coinvolge. Non possiamo voltargli le spalle. Si offre allo sguardo di ognuno. Inganna o conferma? Ci costringe a ricordare che chi ha subito un sequestro, nel tempo purtroppo senza via di uscita della jihad, vive inevitabilmente in più di un mondo, non può ordinare al passato di spegnersi, invocare l’avvenire per illuminarlo”. Interessante, vero? Fino a farci sospettare che quel lungo velo verde indossato senza costrizione nei suoi primi momenti di libertà possa rappresentare un segnale ai suoi sequestratori sulla genuinità di quella conversione, come un patto tacito e non scritto che fa parte anch’esso delle condizioni del rilascio e contemporaneamente di un mutamento profondo avvenuto nella stessa persona dopo 18 mesi di prigionia. Ancora una volta ci può venire in aiuto la vicenda Moro. Le sue lettere, i suoi scritti dalla “prigione del popolo”, o i frammenti che è stato possibile ricostruire dei suoi “interrogatori” sulle colpe che avrebbe avuto come uomo politico e su quelle del sistema nel quale aveva un ruolo importante, furono accolti con valutazioni inizialmente di una intermittenza fuori dal comune dettate dalla convenienza del momento (“sì questo è lui, no questo non è lui”) fino alle ultime e definitive: “non è più lui”. E quindi poteva morire. Le lettere di Moro, sulle quali andrebbero oggi rilette le riflessioni di un intellettuale come Sciascia, sono il vestito islamico verde di Silvia Romano. Lui non era più lui, lei non è più lei. E quindi, in un caso, se ne può fare a meno e, nell’altro, meglio se non tornava. Vox populi. Nella quale, tuttavia, c’è un fondo di verità. La ragazza milanese il cui nome è ora Aisha, ma che – non lo hanno notato in molti – nel suo primo e finora unico messaggio da persona libera si firma “vostra Silvia”, non è veramente più lei. E come potrebbe esserlo dopo un anno e mezzo di sequestro? Non sono più le stesse persone neanche quelle che trascorrono sei mesi in un più civile carcere, chi guarisce da una malattia che pareva letale, chi si salva da un terremoto, da un’alluvione o da una guerra. Figurarsi se lei poteva uscirne uguale a se stessa. E come non lo sarebbe stato per Moro. Il bel film di Marco Bellocchio “Buongiorno notte” sul sequestro dello statista fa finire la storia in un modo diverso da come si concluse e come, forse, tutti avrebbero (almeno a parole) desiderato: Moro viene scarcerato e si allontana nell’alba verso casa. Un sogno, certo. Ma che pone a tutti una domanda: come sarebbe stato Aldo Moro libero dopo le settimane di prigionia? Cosa avrebbe fatto e detto? Di certo non sarebbe stata la stessa persona che era fino ad un minuto prima dell’agguato di via Fani. E così Silvia Romano. Per giorni ci siamo sgolati dai balconi del nostro lockdown a dire che non solo tutto sarebbe andato benissimo (?) ma a confessare pubblicamente e a convincerci a vicenda che ne saremo usciti come persone diverse se non proprio migliori. Ma alla prima prova concreta, quella promessa buonista e dal sapore millenarista simile a quella di chi è disposto a riconoscere i propri errori come se fosse in vista del giudizio universale, si è infranta alla sola vista del vestito verde di Silvia Romano. La nostra ecumenica comprensione della diversità e del mutamento è durata il tempo di una quarantena. Come sarebbe stato Moro una volta libero non lo sapremo mai. Della giovane ex cooperante invece potremo saperlo. Ma, a dire la verità, la nostra partita deve considerarsi chiusa con la sua liberazione. Il resto è qualcosa che, per ora, riguarda solo ed esclusivamente lei.
23 Maggio, 2020