– di Stefano Fabbri – Ma che Draghi sarà? Il nuovo presidente del Consiglio ha mosso i primi passi e tanti sono gli interrogativi del profilo del suo governo, ma qualche esito già si è visto nei primi giorni
Non tanto per gli aspetti comunicativi diversi dal suo predecessore Giuseppe Conte, con conferenze stampa alle quali Supermario non partecipa, mentre quelli operativi sul terreno non sembrano per ora segnare un passo decisamente nuovo: sui problemi della campagna vaccinale non si vede ancora lo scatto sperato e il primo Dpcm che porta la firma dell’ex numero uno della Bce (uno strumento il cui uso intensivo sembrava non più tollerabile dai partiti che hanno provocato la crisi e da quelli che sono entrati ex novo a far parte della maggioranza e che ora non battono ciglio) sembra aver dimenticato che l’apertura della scuola era stata dichiarata come la maggiore urgenza.
Le dimissioni di Nicola Zingaretti
Ma senza dubbio il nuovo governo, che come anticipato su queste pagine sarebbe stato formalmente ampio ma in realtà nelle mani di pochi e fidati uomini del presidente, un bel po’ di novità le ha introdotte e, seppure indirettamente, provocate.
Tra queste ultime la più recente è l’annuncio delle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd, effetto di un’onda lunga, anzi di uno tsunami che ha travolto le architravi del precedente governo.
Ma andiamo per ordine. Innanzitutto alcune delle posizioni-chiave nel contrasto all’emergenza virus sono cambiate in una manciata di ore. La lotta alla pandemia ha insomma provocato una epidemia di trombature e sostituzioni.
L’effetto “rottamazione” dello tsunami Draghi
Il primo a saltare è stato il capo della protezione civile Angelo Borrelli, la cui colpa principale è forse stata quella di occupare una casella troppo vicina alla preda grossa, il supercommissario per la pandemia Domenico Arcuri.
Al posto di Borrelli torna Fabrizio Curcio, che aveva lasciato poco più di tre anni fa per motivi assolutamenti personali. Quindi è stata la volta di Arcuri, che aveva forse immaginato che il prezzo alle novità fosse già stato pagato dal dimissionato Borrelli.
Ad Arcuri non è stato perdonato neanche il fatto di aver dovuto misurarsi per primo con un evento mai conosciuto prima come la pandemia.
Ma perché potesse rappresentare il nuovo corso troppi sono stati gli scivoloni, operativi e comunicativi. Tra i primi una disordinata caccia alle mascherine, rincorse fin sulla muraglia cinese (ma le vere responsabilità di quella rincorsa sono forse da ricercare in una mano pubblica che ha dimenticato come alcune risorse strategiche, anche nel settore dell’industria della salute, avrebbero dovuto – appunto – restare pubbliche), per poi proseguire con la sciagurata avventura dei banchi muniti di rotelle, mai serviti e destinati al macero o all’organizzazione di goliardiche gare su pista una volta conclusa la brutta avventura del Covid, e soprattutto con una campagna vaccinale, certo gravata dalla carenza di materia prima grazie al mancato rispetto degli accordi da parte delle aziende farmaceutiche ma segnata da approssimazione e farraginosità.
Tra gli scivoloni comunicativi, ma non solo, la mancata fioritura delle primule, lo sfortunato bocciolo che era stato designato ad indicare i centri vaccinali: di questi ultimi, infatti, era pronta prima la floreale segnaletica e non le strutture destinate a distribuire l’antidoto.
Le scelte di Draghi
Poi, e forse non è tutta colpa di Arcuri, c’è qualcuno che si ricorda ancora dell’app Immuni, battuta sul campo per numero di adesioni dal cash-back e quindi consegnata all’oblio? Una vicenda della quale varrebbe la pena di occuparsi nel futuro prossimo. Al posto di Arcuri è andato il generale Figliuolo, un esperto di logistica e che in più ha la tradizionale affidabilità comunemente riconosciuta agli alpini.
Un’altra new (ma neanche troppo) entry non indossa più l’uniforme (in realtà per i delicati compiti di servizio svolti l’ha sempre indossata poco): l’ex capo della polizia Franco Gabrielli chiamato al sottosegretariato alla presidenza del Consiglio.
Due scelte, quelle di Figliuolo e di Gabrielli, che Draghi ha probabilmente voluto non tanto per dare il segnale di una militarizzazione dell’emergenza ma nella logica di accrescere il carattere tecnocratico del suo governo pescando non solo nel mondo della finanza e dell’impresa ma anche delle istituzioni che godono di prestigio e popolarità tra i cittadini.
Sempre seguendo la linea di un nocciolo duro del governo, composto da fidatissimi.
Il resto, come diceva Flaiano a proposito della gran parte dei giorni della vita di un uomo, fa solo volume.
Ma il colpo forte il capo del governo lo ha riservato a se stesso ed è recentissimo: il blocco delle forniture di vaccini AstraZeneca prodotti in uno stabilimento italiano e che erano destinati in Australia.
Troppo necessari da noi perché prendessero il volo. Un gesto compiuto in accordo con la Ue ma che assegna all’Italia il primato di averlo fatto e che suona come un avvertimento, seppure rischioso ma risoluto, sul piano della concezione dei vaccini come una risorsa strategica e non come una semplice merce esposta alle sole dinamiche di mercato.
Dal Conte bis al Governo Draghi
E poi c’è la politica. Quella che si temeva mancasse con l’arrivo del nuovo governo e che forse, almeno per la fase della sua agonia, non mancherà di riempire ancora le cronache.
Nel giro di sette giorni le forze politiche che sostenevano il governo Conte bis hanno conosciuto passaggi inimmaginabili, a cominciare dalla sinistra critica, quella che si contorce attorno a sigle più numerose dei propri rappresentanti parlamentari e che è riuscita a dividersi ancora una volta sulla decisione amletica sul da farsi: appoggiare o no il governo Draghi?
Ma lo stesso Movimento 5 stelle, il detentore della golden share di qualsiasi maggioranza per quel 33% conquistato alle elezioni del 2018 e progressivamente dissipato fino ad una dimensione dei gruppi consiliari di Camera e Senato adesso più o meno della consistenza di quelli degli altri principali partiti, in pochi giorni è passato da una nuova e non indolore scissione e, soprattutto, dall’arrivo alla guida dei pentastellati dello stesso Giuseppe Conte.
Un passaggio che ha fatto tramontare l’idea, considerata naturale, che l’ex presidente del Consiglio potesse avere il ruolo di federatore delle forze che lo avevano sostenuto: M5s, Pd e Leu.
Adesso, nel suo nuovo ruolo di capo grillino, questo ruolo sarà più complicato. Anzi, quasi impossibile.
Il vaso di Pandora è rotto
Ma il colpo grosso, sicuramente non voluto e non desiderato da Draghi, è il più recente: le dimissioni annunciate da Nicola Zingaretti. All’origine, se ben si guarda, poiché tutto si tiene, c’è la politica perseguita dal segretario del Pd tesa alla ricerca di un’alleanza strutturale con M5s che proseguisse anche oltre l’esperienza del governo Conte bis, fortemente osteggiata – sebbene tale linea sia stata approvata all’unanimità dalla direzione del partito – dalla componente più moderata dei Dem.
Che è stata in pressing per giorni su Zingaretti ponendo la questione di un congresso immediato con lo scopo, mai dichiarato ma facilmente intuibile, di un cambiamento di linea e della stessa leadership del partito: sindaci come Dario Nardella e Giorgio Gori, presidenti di regione come Stefano Bonaccini.
Ma le dimissioni del segretario sono anche un messaggio alla nuora rimasta in casa Pd perché la suocera di Rignano intenda. Il gesto improvviso di Zingaretti ha rotto il vaso di Pandora, spiazzando tutti.
Sia che accolga l’invito pressochè unanime a ripensarci, sia che confermi le dimissioni, Zingaretti avrà vinto comunque dopo aver rimproverato ai suoi competitors in pectore, e quelli che ne sostengono le ragioni dall’esterno, di aver privilegiato le dinamiche di potere interne ai Dem rispetto all’emergenza sanitaria, economica e sociale in cui si dibatte il Paese.
Un messaggio forse più capito fuori che dentro le stanze del Nazzareno.