– di Nadia Pastorcich –
Una vita assieme. Lei giornalista, lui musicista, presentatore, attore con una passione per il cinema e la letteratura. È la storia di Rossana Moretti e Lelio Luttazzi, una storia che ancora oggi vive attraverso la Fondazione Lelio Luttazzi, creata dalla moglie, che continua a portare avanti il ricordo del Maestro attraverso eventi, la mostra LelioSwing, conferenze e il Premio Luttazzi dedicato ai giovani pianisti jazz e cantautori.
A Trieste, nel 2015, è nato Studio Luttazzi, situato all’interno della Biblioteca Statale Stelio Crise (in Largo Papa Giovanni XXIII), dove è possibile ripercorrere la vita e la carriera di Luttazzi, quel “giovanotto matto” che ha iniziato proprio a Trieste la sua avventura con il quartetto “I gatti selvatici” e che grazie a Ernesto Bonino, che l’ha sentito suonare durante lo spettacolo Buonanotte al Sole al Politeama Rossetti, ha capito che gli studi di giurisprudenza non facevano per lui. Dopo il successo del brano “Il giovanotto matto”, Lelio, la musica non la lascerà più. Con il triestino Teddy Reno, si trasferisce a Milano, dove Teddy fonda la CGD (Compagnia Generale del Disco), da lì si ritrova alla Rai di Torino a dirigere la prima orchestra d’archi ritmica italiana, inventata da lui stesso. In quel periodo si dedica anche alla radio con programmi come Punto interrogativo, Motivo in Maschera, Nati per la musica, e alle commedie musicali di Scarnicci e Tarabusi e di Garinei e Giovannini. Nel 1954 si sposta a Roma e diventa il presentatore di Teatro 10, Studio Uno, Doppia Coppia, sono solo alcune delle trasmissioni televisive che lo vedono entrare nelle case degli italiani. Oltre a scrivere canzoni e tanta musica, compone anche molti commenti musicali per film noti quali Totò, Peppino e la malafemmina, Totò lascia o raddoppia di Mastrocinque, Risate di Gioia di Monicelli, Venezia, la luna e tu di Risi, arrivando ad interpretare anche alcuni ruoli, celebri quello in L’avventura di Antonioni e quello in L’ombrellone di Risi. Un altro grande successo arriva con Hit Parade!
È il 1970 quando la vita di Lelio cambia: viene arrestato. È un errore giudiziario. Da quell’esperienza nasce il film L’illazione e il libro Operazione Montecristo.
Rossana, lei ha incontrato Lelio Luttazzi, suo marito, quando faceva la giornalista. Quando nasce questa sua passione per il giornalismo?
Mi è sempre piaciuto questo mestiere, fin da ragazzina. Durante il ginnasio sono entrata al quotidiano Il Telegrafo. In quel periodo avevo lasciato Milano e abitavo con i miei nonni a La Spezia.
Ricordo che alla domenica mi mettevano alla telescrivente a fare la pagina sportiva – io che non sapevo che cosa fosse un calcio di punizione! Ricevevo le telefonate dei vari inviati sui campi di provincia e stenografavo i risultati delle partite. Ero brava ad usare la telescrivente, in più, proprio a Il Telegrafo, ho imparato ad usare il dittafono, uno strumento nuovo per l’epoca: era un piccolo marchingegno con delle fascette blu che venivano incise, per cui se magari uno era a New York poteva spedirmi questo nastro blu che io mettevo su questo apparecchio che aveva un pedale e con la macchina trascrivevo il testo.
E poi ha incontrato Mario Soldati…
Un giorno un mio collega mi disse: “Guarda che c’è Soldati che sta cercando una collaboratrice”. Non ci potevo credere. Incuriosita sono andata a Tellaro, a pochi chilometri da La Spezia, dove stava Soldati. Alla fine sono rimasta tre anni con lui. Andavo da lui quando potevo, ma cercavo di andarci spesso. Lui era un uomo eccezionale, è stato il mio maestro, mi ha insegnato moltissime cose. Mi voleva molto bene. E poi Soldati urlava sempre, non parlava, urlava, era il suo modo di parlare. Più urlava più ti voleva bene. Ero molto felice di dargli una mano. Continuavo comunque a lavorare anche per Il Telegrafo.
A Milano ha anche lavorato o ha solo fatto le scuole?
A Milano ho fatto solo le elementari e le medie, perché mia mamma era rappresentante della Carlo Erba a Milano – i miei erano separati –. Papà, invece, lavorava a Genova alla Segalerba, una fabbrica di frutta candita. Ad un certo punto mia madre mi ha portata dalla nonna austriaca, originaria di Vienna, mamma di mio papà, sposata con mio nonno che era toscano. Il nonno lavorava a La Spezia in Arsenale. Io sono stata cresciuta da loro, mia madre aveva molto da fare e non riusciva a starmi dietro.
Dal Telegrafo a La Spezia è andata poi a Roma…
Da Mario Soldati un giorno era arrivato un editore svizzero che era passato a salutarlo. A tavola disse che stava andando a Roma ad assumere la direzione della SPQR (Società Periodici Quotidiani Romani); in realtà la vera proprietà era di Nino Rovelli. Questa società inglobava non solo Momento Sera – quotidiano che aveva l’edizione mattina e sera – ma anche diverse testate come l’Unione Sarda e la Nuova Sardegna. Questo editore cercava una collaboratrice senza fidanzato o marito. Io avevo tutti i requisiti che lui stava cercando. Ho subito capito che forse era il caso di salire su questo treno che mi stava passando davanti, mal che vada sarei tornata indietro. Devo ammettere che Soldati non era tanto d’accordo. È stata una scelta molto difficile: gli volevo bene, gli ero molto grata. Poi con lui avevo fatto il giro della Sardegna alla ricerca dei vini genuini. Fu un mese meraviglioso! Ero molto combattuta, però avevo tanta voglia di fare, di essere indipendente, di pensare alla mia vita nell’ambito del giornalismo. Ne parlai con Soldati e urlando mi lasciò andare.
Arrivata a Roma dove si è stabilita?
In una villa molto bella ai Parioli che era gestita dalle suore, ovviamente c’erano degli orari da seguire, e per me che non li avevo era impossibile, perciò il mio editore andò a parlare con la Madre superiora. Lì stavo veramente molto bene, il mio editore, invece, stava al Grand Hotel di Roma – non aveva trovato ancora una casa – assieme alla moglie di Marina di Pietrasanta. Destino volle, era il 1972, che trovassero l’attico di Piazza Trevi (guardando la fontana a sinistra). In quell’attico lì aveva vissuto per cinque anni Lelio Luttazzi, poi nel 1970 – anno zero per Lelio – si trasferì in campagna. Io lo conoscevo perché ascoltavo la Hit Parade. Ricordo che con le mie compagne si usciva di corsa da scuola per andare a casa, dove trovavo la radio già impostata, per ascoltare a tavola con mio nonno e mia nonna la canzone regina di Hit Parade, poi naturalmente vedevo gli spettacoli del sabato sera, Studio Uno, Doppia Coppia e vedevo questo signore bellissimo, affascinante che suonava al pianoforte con la gardenia all’occhiello. Erano tutti innamorati di lui. Erano trasmissioni che guardavo volentieri perché molto eleganti e fatte bene.
Dopo le suore, trovai una sistemazione in via Gregoriana, vicino al giornale: la sede era in via dei Due Macelli a pochi passi da dove stavo, quindi andavo a casa e al giornale a piedi. Via Gregoriana era molto carina, ancora oggi è considerata una delle più belle vie di Roma. Spesso la moglie del mio editore mi invitava a cena a casa, ci andavo molto volentieri perché erano cene dove non si faceva tardi, con pochissime persone tutte di un certo livello. Per me, assetata di cultura, sentirle parlare di tante cose interessanti, era il massimo. La moglie di questo editore mi mostrò l’attico e mi spiegò che era stato di Lelio. Loro lo amavano tanto e lo conoscevano, a volte veniva a cena da loro. Mi disse che era una persona straordinaria.
Ero felice: avevo una casina tutta mia, lavoravo per il giornale e avevo anche le collaborazioni con le altre testate del gruppo.
Grazie a una sua collega, nel 1975, ha conosciuto Lelio Luttazzi…
Al giornale avevo una collega molto mondana, al contrario di me. Non c’era sabato sera che non facesse cene, e mi invitava sempre – io non ci andavo mai. Sono sempre stata alla ricerca della solitudine, era un modo di vivere il mio; stavo bene con la mia solitudine: leggevo, ascoltavo la musica, il jazz che mi piaceva molto, mettevo a posto la casina con il mio perfezionismo maniacale, trasmesso dalla nonna viennese. Lelio diceva che per lui era una cosa positiva: trovava sempre tutto in ordine –. Ritornando alla mia collega, aveva insistito tanto finché, un giorno, per disperazione, ho accettato un suo invito. Tanto per cambiare mi ero messa un paio di pantaloni neri, un paio di ballerine e una maglietta sempre nera. Unica nota allegra una collana di perle bianche di mia nonna che lei mi aveva regalato. Capelli alle spalle – come li ho tenuti sempre – e un filo di trucco.
Avevo una Renault 4 – dicevano che era l’automobile dei rivoluzionari –; con questa macchina, seguendo la piantina che mi aveva fatto la mia collega, sono riuscita ad arrivare a destinazione (lei stava sulla Cassia). Entrata in casa, lei mi è venuta subito incontro, tutta felice, piena di colori, l’esatto opposto di me. Ad un certo punto mi ha toccata sulla spalla, mi sono voltata e chi ho visto? Lelio Luttazzi. “Ti presento il Maestro Luttazzi”. Era bello come il sole, elegantissimo.
È stato Erroll Garner a dare inizio a tutto…
Era una di quelle cene in piedi che non ho mai amato – non sai mai dove mettere le cose –. In un angolino c’erano delle bottiglie di Prosecco, ho preso un bicchiere e un pezzo di pane e mi sono allontanata. Un giradischi suonava un pezzo di Erroll Garner che a me piaceva molto, mi sono avvicinata e ho visto che Lelio mi stava seguendo. Ha cominciato a farmi alcune domande dandomi del lei. Anche a lui piaceva Erroll Garner. Dopo un po’ ci siamo spostati all’esterno – era settembre e nel giardino c’erano i divani pronti per il dopo cena –; eravamo soli, io e lui, gli altri erano ancora impegnati a mangiare. Chiacchierando si era già fatta l’una. Lelio mi ha accompagnata all’auto e vedendola ha detto: “Ah, l’automobile dei rivoluzionari!”, poi ha aggiunto che aveva ancora voglia di parlare con me – sempre dandomi del lei – perché avevamo tanti interessi in comune, amavamo gli stessi musicisti – ci piaceva anche Art Tatum –. Gli ho detto che poteva chiamarmi al giornale Momento Sera.
È stato un segno del destino. Di Lelio mi aveva incuriosito la sua eleganza, il suo modo di parlare, i suoi occhi nei quali aveva un velo di tristezza, e poi mi piaceva molto come muoveva il braccio sinistro, evidentemente era un movimento naturale che gli veniva da anni e anni di direzione d’orchestra.
E la storia dei “trombini” (stivali per la pioggia in triestino)?
Io e Lelio non ci conoscevamo ancora. Ero al lavoro e fuori stava diluviando; dovevo andare da qualche parte a fare alcune commissioni e stavo aspettando il taxi. Avevo un impermeabile bianco lungo fino ai piedi – il mio editore mi chiamava “la tedesca”, sembravo Marlene Dietrich – e un paio di quelli che a Trieste si chiamano “trombini”.
L’ascensore era occupato, sono così corsa giù per le scale – il taxi mi stava aspettando – andando a sbattere contro una persona, ho alzato lo sguardo, era Lelio. Lui mi ha guardata e mi ha detto: “La ga i trombini!”, non sapevo cosa volesse dire. Qualche giorno dopo la festa mi ha chiamata al telefono: “Trombini, buongiorno!”. Ho capito che era lui. Poi ha cominciato a chiamarmi per un aperitivo, per andare a Villa Borghese, alla Casina Valadier, al ristorante Due Ladroni, a Fregene da Salvatore a mangiare il pesce che come me amava molto. Io ero un po’ preoccupata: avevo capito che questo incontro stava diventando importante e poi lui in quel momento era il grande Lelio Luttazzi, affascinante, bellissimo, che aveva avuto le donne più belle…
Lelio, in quel periodo, stava in campagna…
Abitava a Montefalasco, un posto splendido, nella famosa casa rossa che si vede nel film “L’Illazione”. Mi invitò per un week-end. Persi la testa, era il mondo di Walt Disney: all’esterno c’era un fontanile, i galletti amburghesi, le paperelle, i gattini, i conigli. Tutti andavano d’accordo. Io, però, dovevo confidargli le mie paure. Lelio era un uomo di un’umiltà che ti lasciava senza parole, di un’autocritica quasi distruttiva nei confronti di se stesso, era un uomo che stava sempre un passo indietro. Gli dissi che mi stavo accorgendo che per me la storia stava diventando importante ma che avevo paura. Lui fu altrettanto corretto con me: mi disse che non mi dovevo assolutamente preoccupare, che lui mi voleva per la mia semplicità, perché ero diversa da tutte le altre, perché gli piaceva chiacchierare con me, perché non lo annoiavo e perché ero molto maschile come atteggiamento.
Morale della favola, mi innamorai perdutamente di questo uomo, finché un bel giorno, un weekend – durante la settimana lavoravo –, a Montefalasco, mi guardò con le lacrime agli occhi e mi disse: “Pi” – in triestino Pi è il diminutivo di “picia”, piccola – molla tutto e resta qui con me”. Io mi sentii morire, pensando a tutto quello che avevo fatto negli anni. Gli spiegai che non potevo lasciare il mio lavoro. Lui capì, però aggiunse: “Mi auguro che fallisca presto il giornale”. Dopo neanche un anno Momento Sera fallì. Sono riuscita a tenermi le collaborazioni che facevo da casa. Per me amore e indipendenza economica hanno sempre avuto la stessa importanza. Dopo un anno, visto come stavano andando le cose, ho lasciato l’appartamento di via Gregoriana. E così è iniziata la favola.
Voi vi siete sposati il 6 dicembre, il giorno di San Nicolò. Come si è svolta quella giornata?
La casa rossa era legata a dei ricordi che a Lelio non facevano bene, così nel 1978 ci siamo trasferiti a Ceri. L’anno successivo ci siamo sposati a Cerveteri. Krizia, la stilista, sapendo che mi dovevo sposare, mi aveva dato un tailleur molto maschile e un cappello. Dovevamo essere solo io, Lelio e i due testimoni, invece, appena arrivati a Cerveteri, in piazza abbiamo trovato una folla di giornalisti e di fotografi. Fu una cerimonia molto semplice, davanti al Sindaco. Dopo aver salutato tutti, volevamo andare a casa dove io avevo messo una bottiglia di champagne in frigo per noi quattro. Ad un certo momento, sulla stradina di campagna che da Cerveteri porta a Ceri, ho visto dietro di noi una fila di automobili. Lelio propose di portare tutti da Sora Lella in trattoria. Così è stato. Sora Lella che sapeva del nostro matrimonio, aveva ordinato una torta bianca rosa e celeste, con i confetti e gli sposini di marzapane. Fu tutto improvvisato, ma molto carino, in quel posto magico che era Ceri, dove sembrava di essere su un set cinematografico in pieno Medioevo.
Per molti anni avete frequentato la Sardegna…
Andavamo a Porto Rotondo, a casa di Krizia, Mariuccia Mandelli, che era la sorella di Giancarla Mandelli la quale ebbe una relazione con Lelio negli anni ’60; una donna straordinaria con la quale poi divenni molto amica (lei in seguito si sposò con il regista Francesco Rosi). Restammo in contatto con entrambe. Poi abbiamo preso una casa per conto nostro, sempre a Porto Rotondo, dove ci siamo andati per vent’anni, avevamo anche la barca. Ricordo che si partiva ai primi di aprile per andare in Sardegna e si tornava ai primi di novembre; nel frattempo Lelio faceva i concerti, si spostava con l’aereo da Olbia.
Da Ceri, nel 1999, siete poi andati in via della Lungara a Roma e nel 2008 Lelio è ritornato assieme a lei a Trieste, la sua città, andando a stare in Piazza Unità, a Palazzo Pitteri…
La nostra vita è andata avanti per 36 anni, abbiamo vissuto in simbiosi con un amore da parte mia e da parte di Lelio che non può essere descritto con nessun aggettivo, così come non c’è aggettivo per definire il dolore che provai quel famigerato 8 luglio del 2010 quando Lelio volò via. Non mi era mai venuto in mente che Lelio potesse, ad un certo punto, non esserci più. Fu una tragedia.
Dal dolore è venuta fuori la Fondazione…
Sì, ma il lutto non si elabora mai, è dentro di te. Dal dolore ho capito che in qualche modo dovevo sopravvivere. Credo che i luoghi abbiano un’anima, che ci sia un filo che colleghi le cose che accadono. Dopo la perdita di Lelio e da come stavo, ho capito che dovevo cercare un’altra casa. Ricordo che una notte mi misi al computer alla ricerca di un appartamento dove trasferirmi. Mi capitò di trovare un piccolo appartamento in via Principe di Montfort n°10; Lelio mi aveva raccontato che nel portone precedente abitava Letizia Fonda Savio, figlia di Italo Svevo e mamma dei tre ragazzini amici di Lelio. Una strana coincidenza!
Chi l’ha aiutata in questo difficile periodo?
A Trieste mi aiutava un professore meraviglioso, Pizzolato, primario della Clinica Neurologica di Cattinara. Era amico di Lelio. Era un uomo straordinario, sia dal punto di vista professionale, che da quello umano. Aveva un’umanità che ti travolgeva. Andavo da lui una volta alla settimana a parlargli del mio dolore. Lui aveva tanta pazienza. Mi ha aiutata moltissimo.
Avevo capito che per la mia sopravvivenza dovevo fare qualcosa e mi venne in mente di creare la Fondazione. Era l’ottobre del 2010, pochi mesi dopo che Lelio era volato via. Da allora mi dedicai anima e corpo alla Fondazione. Il professor Pizzolato, quando ho dato vita alla Fondazione, mi aveva detto: “Tu la medicina l’hai trovata da sola”. Le ansie, però, le avevo ancora: mi svegliavo di notte in preda alle paure. Quando andavo a Roma per lavoro, ne approfittavo per andare dal professor Petiziol, un altro psichiatra che aveva aiutato Lelio nelle sue depressioni. Sapevo che non serviva molto, perché il problema era che Lelio non c’era più.
Quando Pizzolato è morto improvvisamente, ho ripensato a quello che lui e il professor Petiziol mi dicevano sempre, ovvero di tornare a Roma. Così ho fatto. Ho cercato una casa in centro, però in una zona dove non ero mai stata con Lelio. Ora la Fondazione ha sede a Testaccio.
I triestini e non solo si ricordano ancora oggi del concerto di Ferragosto del 2009 tenuto da Lelio Luttazzi in Piazza Unità, da allora, grazie a Gabriele Centis, direttore della Casa della Musica, ogni estate, nell’ambito del Trieste Loves Jazz, viene organizzato un concerto dedicato al Maestro. Quest’anno ad esibirsi in Piazza Verdi sono stati Lorenzo Hengeller al pianoforte, Massimo Moriconi al basso (per oltre vent’anni è stato il bassista di Luttazzi), Gianluca Nanni alla batteria e Nico Gori al clarinetto.