-di Silvia Poletti- Nella stranita estate teatrale 2020, in cui la necessità e l’ingegno hanno aiutato i festival dotati di spazi open air a salvare il salvabile e mantenere la parvenza di una programmazione tradizionale (Ravenna Festival docet) Bolzano Danza 2020, festival dedicato alla coreografia contemporanea, ha optato per un vero e proprio reset.
Impossibilitato a ospitare compagnie o a immaginare qualsiasi evento che non fosse dominato dalle regole del distanziamento, della bonifica, del contingentamento e delle mascherine, il festival altoatesino ha immaginato il Day After di questa globale palingenesi teatrale e ha scelto di regalare una simbolica esperienza sensoriale di ‘riscoperta/scoperta’ del rito del teatro dal vivo (che qualcuno, ministro Franceschini in testa, vorrebbe presto sostituire con una piattaforma Netflix: ma perché?!).
Uno spettatore, un danzatore
Lo spazio enorme, altrimenti vuoto, della sala teatrale. Una piccola danza (firmata, ogni volta da uno dei tre autori legati alla storia di Bolzano Danza – diversi per linguaggio e poetica- dalla maestra Carolyn Carlson al francese Rachid Ouramdane al nostro Michele Di Stefano).
Un incontro ‘primordiale’, che risveglia le emozioni più istintive, nell’intimità e nell’oscurità. Una specie di Eden, come si chiama questo progetto speciale firmato dal giovane direttore artistico del festival, Emanuele Masi, che tocca corde profonde – meraviglia, commuove, energizza.
Dieci danzatori. Quattrocentocinquanta aperture di sipario. Due settimane di spettacoli, dalle undici del mattino alle otto di sera. E poi uno spazio paradisiaco per meditare, raccogliere le idee, metabolizzare le sensazioni appena vissute davanti a quel sipario. Per capire quanto il teatro sia necessario alle nostre vite. (s.poletti)