Realtà e incubo, esperimento teatrale fra prosa e mentalismo

di Tommaso Chimenti

Siete davvero sicuri che un pavimento non possa essere anche un soffitto?” (Maurits Cornelis Escher)

TRIESTE-Esiste sotto traccia, sotto la cenere, una precaria ma persistente sottile linea rossa, di congiunzione e trade union, che impercettibilmente collega Trieste alla follia o ancora, se vogliamo ribaltare il concetto, a quella visione che non si uniforma alla norma TRIprecostituita ed accettata come vera e reale dalla maggioranza di noi. Perché è la maggioranza che decide che cosa è giusto e come invece non lo sia, ed è sempre la maggioranza a certificare che cosa sia “normale” e che cosa rientri nella categoria del “matto”. Partiamo da Franco Basaglia che qui lavorò per una decina d’anni, proseguiamo con Joyce, che qui visse, ed il suo “flusso di coscienza”, fino alla mostra su Escher che nei giorni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno ha illuminato la città che si affaccia sulla Croazia. Infine, volendo fare un piccolo gioco di parole, la vecchia targa della città, TS, potrebbe essere l’acronimo di Trattamento Sanitario, e la Bora “quel vento che rende pazzi”, fino ad arrivare a questa nuova produzione del Teatro Stabile del FVG, “Valzer per un mentalista”, esperimento, ampiamente riuscito, in equilibrio tra l’alto intrattenimento culturale dei giochi mnemonici e una prosa costruita su tre attori (grazie alla regia solida e brillante di Marco Lorenzi della compagnia torinese Il Mulino di Amleto; nel 2021 dirigerà, con una produzione FVG,  TPE e Elsinor, la versione teatrale di “Festen”, un grande e gravoso compito) in un continuo rimando tra realtà, finzione, sogno, incubo, paradosso, sdoppiamento, alterità, dove quello che si è creduto fermamente come vero scivola nella nebbia della mente fino a perdere i contorni, fino a prendere le forme dell’impossibile, del vaneggiamento, del fumoso, dell’inafferrabile.

© Simone Di Luca

E’ in questa linea, appunto immateriale e indecifrabile, che la scena sancisce la non separazione tra il concreto e il tangibile da una parte e il pensiero e l’immaginazione dall’altra in uno scambio continuo (mette a dura prova la platea), in una osmosi che mischia, miscela, sposta le carte come un baro al tavolo verde del poker, fa perdere i punti di riferimento assodati. Questo Valzer è un lento epilogo angoscioso, non può scorrere Liscio, non frizza come un Tip Tap ma formalizza un elastico tra una possibile e plausibile e papabile scena per poi scardinarla in quella successiva, rimettendo in discussione perenne, e creando così uno stato confusionale ansiogeno ed elettrico, le nozioni acquisite all’interno del plot. Non c’è salvezza, non c’è certezza.

© Simone Di Luca

La scena ha un che di vangoghiano con un letto che ricorda non tanto quello del capolavoro “Camera di Vincent ad Arles” coloratissimo, quanto la sua stanza nel manicomio di Saint Remy e un soffitto e un pavimento, entrambi triangolari che rimpiccioliscono le dimensioni, che amplificano la portata della profondità e della prospettiva rimettendo tutto su un piano sbilenco, claudicante, tentennante, obliquo e allungato. Questa stanza potrebbe essere proprio la mente del protagonista che è stato internato a sua insaputa (una sorta di “Shutter Island” di Martin Scorsese con Leonardo Di Caprio), ha perso la memoria, non sa chi è né perché si trova lì. La drammaturgia di Davide Calabrese e Fabio Vagnarelli (due degli Oblivion) è una goccia cinese che attanaglia e morde, ti porta verso strade senza sfondo, ti fa vedere la luce in fondo al tunnel prima della doccia gelata: è un thriller tanto velenoso quanto glaciale, una lama che entra paziente e asettica. Il tutto ruota attorno ad un mnemonista fenomenale, un non-attore con grandissime capacità sia di stare sulla scena, di controllo del corpo, di padroneggiare lo spazio: Vanni De Luca convincente nella fase attoriale come in quella, di teatro nel teatro, di prove ed esprimenti da lasciare a bocca aperta per abilità, concentrazione, perfezione, pulizia e velocità d’esecuzione: fare calcoli enormi, risolvere un Cubo di Rubik e citare a memoria un intero canto della Divina Commedia scelto a caso dal pubblico, il tutto contemporaneamente, solo per fare un esempio delle sue poderose abilità dimostrate.

© Simone Di Luca

Ma è tutto il trittico che compone il cast ben affiatato ed affilato: Andrea Germani è una presenza, un Jocker spiritato e iroso, un Lucignolo famelico e buio, la voce cinica della verità ombrosa, una sorta di domatore circense di anime, mentre Romina Colbasso (divertente la sua maglietta con la scritta Pink Freud) è il suo alter ego, la professoressa-psicanalista candida e pura che sembra volerlo aiutare. In questo gioco al massacro, in questo tritacarne, in questa agonia lancinante, dove ogni volta pare che si accenda una fiammella di speranza prima che il gelido freddo della cruda realtà la spenga, la verità si confonde nelle proiezioni della mente: “Finiamo col fare delle nostre menzogne realtà”. E tutto slitta e scivola, cade e si frantuma, perde di consistenza mentre tra una scena e l’altra suoni gracchianti ancestrali e ruvidi, da archeologia industriale, come ferraglie o televisori con le trasmissioni interrotte, ad acuire ancora maggiormente lo stato di eccitazione e depressione, far esplodere sinapsi, friggere brulicanti.

© Simone Di Luca

Cosa esiste e che cosa è soltanto frutto del nostro pensiero? Oppure, proprio perché lo sto pensando forse già esiste? Che cosa è oggettivo e che cosa è soggettivo? Se è vero che nessuno di noi vede la stessa realtà allora il mondo là fuori è soltanto una convenzione.

© Simone Di Luca

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