–di Paolo Pellegrini–
Ricordi, flash e qualche riflessione sui sei mesi che hanno cambiato il modo di approcciarsi al cibo degli italiani. O forse no.
Il Re è morto, viva il Re. E dunque l’Expo è finita, viva l’Expo? Bah, alla fin fine un tantino ci mancherà, sei mesi di passerella spinta a ogni ora con tutti i mezzi su tutti i mezzi non passano certo inosservati, un pochino avranno toccato di sicuro anche i più scettici. Per non parlare della incredibile orgia di numeri roboanti, in specie quelli che scorrono a fiumi per bocca delle vedove, delle prefiche e di profeti di grandeur: 21 milioni e mezzo di visitatori, di cui, ma è solo per stare al gioco, ben 13 milioni al “cluster” – dio mio quanto ho odiato e quanto odierò questa parola, una semplice “area” mi avrebbe assai più tranquillizzato – del caffè, e ben 5 milioni e mezzo all’insulso padiglione del Brasile; 30mila volontari, con una rotazione di 15mila al giorno; sette ore di coda in un giorno per entrare nel padiglione del Giappone, che non vi racconterò perché non l’avrei mai fatto e non l’ho fatto di buttare via mezza giornata per aspettare di entrare lì dentro con un giramento di scatole da non credere; 2 miliardi e mezzo di euro spesi dagli italiani, e questo la dice lunga su ciò che, alla fine, a me di Expo rimane dentro davvero, unito e magari in simbiosi con i ricordi personali; 42mila eventi organizzati in sei mesi dentro e fuori Expo, insomma una media di ben 233,3 (periodico) al giorno, hai detto stecco, praticamente un’inondazione di parole, slides, tacchetti e tailleurini di hostess, spumantini e prosecchini, pagnottelle e pastarelle, musichette e salamelecchi, pompose dichiarazioni d’intenti e sorrisetti smaliziati…
No. Fermi. Intanto c’è da ricordare ai profeti di grandeur come era cominciata tutta la vicenda, con una serie di scandalozzi che ci hanno regalato in fronte al mondo la solita figura di cacca tutta italica a colpi di arraffa arraffa, solite tangenti, soliti furbetti del quartierone e via dicendo. Acqua passata, dice, già: perché ancora all’italica maniera, chi ha avuto ha avuto ha avuto, scurdammoce ‘u passato, e via dicendo. Nihil sub sole novi, altro che “Carte” e impegni di fronte al mondo.
Ciò detto, che cosa resta alla fine? Proviamo a tenere due ricordi, al netto delle cronachette quasi ridicole dell’ultimo giorno, con mille blog e siti più o meno potenti e diffusi a riportare – udite udite – con compiaciuta sottolineatura che la Francia ha vinto il premio per architettura e paesaggio (mah: il giardino-orto d’ingresso, forse, perché là dentro… che guazzabuglio…) tra i “big” e la Gran Bretagna (ecco, riconoscimento azzeccato) con il suo alveare tra i “piccoli”, che lo sviluppo del tema ha premiato il Vaticano (ma non c’era da aspettarselo?) e però anche l’Algeria nel settore dei “cluster” (giuro che non lo dico più).
Primo ricordo, a flash. La gente, la folla, le code. Pazzesche.
Non solo le sette ore di attesa per entrare in Giappone. Le ore di fila all’accesso di Cascina Merlata. La gente, gli stronzi che s’appropriavano a giornate intere dei seggiolini-trottola sotto l’Albero della Vita, ecco un bel ricordo, gli spettacoli e i giochi d’acqua e di luci, peccato la ripetizione a voce strillata dagli altoparlanti un minuto via l’altro degli sponsor di quest’operazione. Le scolaresche legate, con la corda o per le mani intrecciate a non districarsi per la paura di perdersi.
I padiglioni. La magia del Padiglione Zero, l’unico per il quale valesse la pena di lasciarsi avvolgere e stordire: dal borsino in tempo reale di tutti i prodotti alimentari del mondo, dalla “Pastorale Cilentana” di Martone, dal viaggio un po’ darwiniano attraverso specie animali e vegetali.Il bosco dell’Austria, l’alveare della Gran Bretagna, la coltivazione delle pesche e l’operazione-acqua nell’Oman. La raffinatezza dell’Iran, con la freschezza di un magico tappeto di piante officinali. La sostenibile leggerezza della Turchia (buonino ma non leggendario il caffè), le tronfie esibizioni-spot con tanto di facce dei l dittatore ripetute a mo’ di Big Brother in certe repubbliche ex sovietiche.
La straordinaria tavola di Mendeleev nel padiglione della Russia, un’intera parete illuminata con tutti gli elementi come si studiavano a scuola, e la gente passava davanti con la faccia a punto interrogativo, senza rendersi conto di transitare accanto alla raccolta di tutti i semi delle 323mila piante studiate da Nikolaj Vavilov cent’anni fa; e però, signori miei, non potete venire a dirci che “la Russia è autosufficiente”, ormai lo sa anche il gatto che la Terra intera non è più autosufficiente.
E ancora: le scommesse di Barack Obama via monitor (Usa e Russia si son fatti la guerra a colpi di terrazze più alte, lo sapevate?), le tecnologie del Giappone che bisogna definire futuristiche se qualcosa di futuribile esiste ancora nel mondo dell’hi-tech. Ma anche l’ora e mezza di fila buttata al vento per il padiglione del Nepal, copia di una pagoda con copie di Budda distesi, mentre là sotto le mandrie si accalcavano per le vaschette di plastica con roba non decifrabile all’odore di un curry assolutamente non proponibile.
Già, il tema. Il messaggio. , energia per la vita. Nobilissimo. Rispettato? Dualismo: dagli Stati il tentativo è venuto di sicuro, in fondo la Carta di Milano partorita alla fine, se non resterà lettera morta come tutte o quasi le Kyoto et similia di questi ultimi decenni, perché tutti buoni a promettere con la mano sul cuore ma quando s’intacca il profitto te ne puoi andare a morire ammazzato, in fondo la Carta di Milano inchioderebbe diritti e impegni e responsabilità di tutti, dal più piccolo cittadino al più grande degli imperi economici e degli Stati.
Ma dalla gente? E dal clima dentro e fuori Expo? Impressione: un mangificio, un magna magna, si andava per assaggiare e ingollare e ingozzarsi più che per studiare, vedere, ascoltare, capire. Complici, certo, multinazionali e big dell’alimento cui Expo ha in parte svenduto il proprio significato: ma la gente ci mette del suo, del resto abbiamo scoperto – ricerca Censis giusto per Expo – che oltre a commissari tecnici della nazionale siamo un popolo di superesperti di cibo, ben 4,2 milioni se ne vantano… E quindi, al solito, esaltazione magnificazione santificazione di questo o quel superchef, di questo o quel piatto. Alla faccia del pianeta da nutrire, e dell’energia per la vita.
Ecco qua. Ah già: il Padiglione Italia non ve lo racconto.
Eh no perché un volontario indubbiamente cretino, alla mia richiesta di bypassare la fila con tanto di pass stampa giusto perché “ devo entrare, vedere e raccontare, è il mio lavoro”, mi ha seccamente risposto: “E perché lei, e non un medico?”. Certo: ilo medico entri di corsa, ma solo se si richiede la sua opera. Per guardare può aspettare, ha qualcosa da raccontare ai lettori lui? Ecco, questa battuta fa il paio con l’ultimi spot post-Expo mandato dalle tv nazionali, dove una ragazzotta a un certo punto dice: “Le malattie sono tante, le culture sono tante, noi moriamo tutti”. A parte i gesti di scongiuro, che c’entra? Amen.
Foto courtesy EXPO 2015 press office e Paolo Pellegrini