VINCITORI PREMIO ABBIATI 2016
-di Gianmarco Caselli-
Sono in quattro, sono giovani di Torino e hanno fondato un ensemble dedicato alla musica contemporanea: è il Quartetto Maurice, attivo dal 2002 con concerti in Italia e all’estero, composto da Georgia Privitera (violino), Laura Bertolino (violino), Francesco Vernero (viola), e Aline Privitera (violoncello). Un quartetto che non si limita solo all’attività concertistica ma che annovera nel proprio curriculum anche la direzione e codirezione artistica di festival ed eventi culturali. Una realtà, quella del Quartetto Maurice, che coraggiosamente lotta nel portare avanti la propria idea di musica in un paese sempre più limitato nelle esperienze di arte alternativa e che sembra sempre più inchiodato su due secoli indietro mentre il resto dell’Europa guarda avanti. Per il resto del brillante percorso del Quartetto, basta consultare il loro sito internet.
Abbiamo intervistato Georgia Privitera, uno dei due violini del Quartetto.
La scelta di un repertorio dedicato alla musica classica contemporanea è importante ma anche rischioso. Perché questa decisione?
Si è trattato di una scelta molto spontanea. Non c’è stata alcuna decisione di convenienza. È un’esigenza musicale artistica venuta fuori fin dall’adolescenza: il nostro è stato un percorso iniziato da ricerche e passioni personali. Il primo progetto riguardo il mondo della contemporanea è stato fondare un’orchestra d’archi dedicata alla musica d’oggi. Il quartetto era già avviato, ma all’inizio era dedicato allo studio dei classici, poi il repertorio contemporaneo è confluito man mano nella nostra vita. La scelta è derivata dal fatto che, almeno secondo la mia opinione, è importante capire cosa c’è intorno a noi ora, in questo momento; è fondamentale interagire con il mondo contemporaneo con una base musicale e storica che ci permetta di avere più profondità. Inoltre io e mia sorella, violoncellista del quartetto, siamo nate in un ambiente artistico: siamo figlie di burattinai che si occupano in gran parte anche di un teatro di figura di ricerca; questo ha certamente influito su noi due e in generale sull’ambiente intorno a noi.
Avere un repertorio classico ed essere giovani sono due fattori che in Italia non facilitano certo la vita di un musicista.
Sì è vero, però questo non è mai stato un argomento di discussione. È stato sempre più forte il desiderio di andare avanti con il nostro progetto. Non abbiamo mai messo al primo posto i problemi. L’obiettivo è fare ciò in cui crediamo. Abbiamo sempre avuto un atteggiamento molto positivo, credendo che la forza del pensiero potesse essere la soluzione e che in ambienti ostili a volte possa uscire fuori qualcosa di sorprendente. Lotta, resistenza: questo mi inorgoglisce.
Voi avete concerti anche all’estero: come cambia la ricezione della vostra esperienza?
All’estero non capiscono come si possa fare con i mezzi che abbiamo noi. Ci guardano con stupore. Non abbiamo sovvenzioni, in Italia le possibilità di festival di contemporanea sono poche e limitate a pochi. Il nostro quartetto suona per il 90% all’estero. Ma non è mai stato un atteggiamento che ci abbia abbattuto in qualche modo. È una scelta di vita radicale, ma le priorità sono altre rispetto a una sicurezza economica e lo accetti. Credo che la positività, l’infondere fiducia agli atri, possa far andare meglio le cose.
Quali sono i luoghi in cui preferite tenere le vostre esibizioni?
Noi siamo orgogliosi di aver creato qualcosa a Torino che fosse parallelo alle iniziative ufficiali e che viaggiasse sulla scia di iniziative underground torinesi; abbiamo colto l’occasione di fare delle prove generali per creare una sorta di seguito di pubblico e di persone che potevano essere interessate. Siamo stati ospiti di situazioni particolari: abbiamo tenuto “house concerts”, concerti in gallerie indipendenti di arte contemporanea, e in un bar che praticamente ci ha adottato. Una sera che era freddo e non sapevamo dove fare la nostra prova generale per via di un riscaldamento che non funzionava nel luogo dovevamo provare, il titolare di questo bar, Tony, ci ha visti seduti al suo bar infreddoliti e ci ha offerto di provare proprio lì nel suo locale. E ora per noi Tony è diventato un punto di riferimento. Le nostre esibizioni al bar sono diventate appuntamenti quasi fissi che le persone aspettano, e che diventano momenti di dialogo: dopo il concerto, con le persone del pubblico si parla, si dialoga, si riflette insieme sui pezzi, eventualmente si litiga; questo ha creato una capacità critica notevole in chi ci viene a sentire.
L’età media del vostro quartetto non arriva a 27 anni: questo voler andare avanti su una strada che è comunque difficile come viene visto dai vostri coetanei?
Il problema è il cambio di mentalità. Penso che la cosa principale sia la mancanza di fiducia, di prospettiva, di progettualità, e la colpa di questo è anche di chi cresce i ragazzi. Mettere i giovani sempre di fronte ai problemi e non ai sogni e alle speranze è una colpa non indifferente. Si deve entrare in contatto con i più giovani, metterli di fronte al fatto compiuto. Alcuni nostri coetanei ci vedono come persone con una visione utopica, idealista.