-di Elisabetta Torselli-
Alla vigilia dell’inaugurazione, il 24 aprile, del 79° Maggio Musicale Fiorentino, una riflessione fra passato e presente, cercando di capire qualche perché
Un vecchio libro di fotografie ritrovato curiosando fra gli scaffali della “Fenice” di via Santa Reparata, punto di riferimento per noi musicofili fiorentini: Norma, come nasce uno spettacolo. Testo di Mara Cantoni, fotografie di Silvia Lelli Masotti, edizioni di “Musica Viva” (la rivista fondata da Lorenzo Arruga), maggio 1979. Un libro che rievoca la storica edizione Riccardo Muti – Luca Ronconi del capolavoro belliniano, con Renata Scotto, Margherita Rinaldi, Ermanno Mauro, Agostino Ferrin, che debuttò il 19 dicembre 1978. Sfogliarlo significa riflettere su come e quanto si lavorava al vecchio Teatro Comunale di corso Italia, allora sede del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, oggi in via di trasformazione in supercondominio di lusso. Nel 1978 si era quasi alla scadenza dell’epoca di Riccardo Muti direttore principale (avrebbe lasciato l’incarico nel 1980). Per carità, bando alle nostalgie. Proviamo solo a dar forma ai pensieri che queste immagini provocano, a fare i dovuti confronti, a trarre le dovute conclusioni.

Norma. Come nasce uno spettacolo. Testo di Mara Cantoni, fotografie di Silvia Lelli Masotti. (Edizioni di Musica Viva, Milano, Maggio 1979)

Lavagna calendario prove luci (foto di SIlvia Lelli, in Norma, come nasce uno spettacolo, Edizioni di Musica Viva, Milano 1979)
Cominciamo da pagina 78. E’ la foto di una lavagna su cui sono segnate le date per la prima prova luci degli spettacoli che si stavano montando. Dunque: Norma 8 dicembre, Madama Butterfly 17 gennaio, Lucrezia Borgia 2 febbraio, Balletti 1° (dovrebbe trattarsi dello spettacolo che debuttò il 23 dicembre con musiche di Stravinskij, Skrjabin, Varèse e Cajkovskij eseguite dal vivo e coreografie di Cauley, Moreland, Amodio e Van Hoecke) 20 dicembre, Melarance (evidentemente L’amore delle tre melarance di Prokof’ev) 4 gennaio. Ed erano tutte nuove produzioni.
Le cose da allora per le istituzioni culturali sono cambiate radicalmente in peggio e certo non solo a Firenze e in Italia, del resto non era Jean-Jacques Nattiez a prevedere che entro il XXI secolo sarebbero sopravvissuti solo due teatri d’opera in Europa ? D’accordo… per restare a quei livelli ci sarebbe voluto ben più di un miracolo. Però va detto che in questo peggioramento generale assoluto, che riguarda tutti, Firenze ha perso comunque anche nel piazzamento relativo, rispetto alle altre Fondazioni italiane. Se dovessimo partire da un punto fermo, suggerirei questo: la scelta del vertice. Sovrintendente di un teatro non è un incarico, come sindaco o presidente del consiglio, espletato il quale si torna ad altro. Sovrintendente è un mestiere. Prevede una formazione sul campo e una carriera specifica. Pensiamo a Joseph Volpe, entrato come apprendista carpentiere al Metropolitan nel 1964, assunto nel 1966, diventato direttore tecnico nel 1978, Assistent Manager nel 1981, General Manager, cioè l’equivalente del nostro sovrintendente, nel 1990. In altri casi i percorsi possono partire dall’accademia: dagli studi musicali e dalla musicologia. Come Massimo Bogianckino che era sovrintendente all’epoca di questa Norma, affiancato da Luciano Alberti come direttore artistico. Fatta salva la parentesi politica e di sindaco di Firenze, Bogianckino è stato appunto un uomo del mestiere, sovrintendente o direttore artistico, dagli anni Sessanta agli anni Novanta (sovrintendente all’Opera di Roma e al Festival dei due Mondi, direttore artistico alla Scala, sovrintendente al Teatro Comunale di Firenze e poi all’Opera di Parigi, di nuovo sovrintendente a Firenze e infine all’Accademia Filarmonica Romana), insomma come funziona un teatro lo sapeva e non per sentito dire. Se sovrintendente è un mestiere, l’ultimo sovrintendente vero, a Firenze, c’è poco da fare, è stato Francesco Ernani.
Tornando a quella foto, essa ci obbliga a ricordare che nel giro di un paio di mesi allora i fiorentini ascoltavano e vedevano cantanti come Raina Kabaivanska come Cio-Cio-San, Katia Ricciarelli in alternanza con Leyla Gencer per la Lucrezia Borgia di Donizetti, registi e scenografi come Ugo Chazalettes, Ulisse Santicchi, Pierluigi Samaritani, Giancarlo Sepe… non basta, perché tra un’opera e l’altra c’erano anche Canzoni tra due guerre, memorabile spettacolo di Filippo Crivelli con Milva, e un recital di Leyla Gencer che il grande soprano turco apriva spiritosamente con la canzonetta “La mia turca” di Claudio Monteverdi.
Allora le stagioni non erano il frullato-gusti misti di adesso, ma ben distinte e riconoscibili (Sinfonica in due spezzoni, Lirica, Maggio) anche in base a destinatari diversi, e tenendo bene a mente che a Firenze c’era un pubblico sinfonico storico e ben formato, perché proprio come orchestra sinfonica era nata nel 1928 la Stabile Orchestrale Fiorentina poi denominata Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino quando negli anni Trenta nacque l’omonimo festival (per questo la denominazione attuale Opera di Firenze ci irrita profondamente: abbiamo alle spalle un’intera e prestigiosa tradizione il cui marchio è Maggio Musicale Fiorentino). Il pubblico sinfonico aveva avuto il suo nei mesi precedenti, con una stagione autunnale con direttori come Efrem Kurtz, Jean-Claude Casadesus, Christoph von Donhany, Eduardo Mata e lo stesso Muti. Stagione in cui non erano mancati progetti speciali come “La voix des voix”, spettacolo audiovisivo creato e realizzato da Luciano Berio all’allora nuovissimo Ircam di Parigi. Ogni concerto della stagione sinfonica aveva di norma quattro recite il che, nel Comunale di allora, significava circa ottomila ascoltatori potenziali, e, credete a chi c’era, il teatro era quasi sempre pieno. Intanto il pubblico più cosmopolita, più informato, più curioso, si preparava ad un 42° Maggio Musicale Fiorentino dove, tra le altre cose, avrebbe visto il Wozzeck di Berg con l’esordio alla regìa di Liliana Cavani e Bruno Bartoletti sul podio, l’inizio del mitico, indimenticabile Ring Mehta-Ronconi con Das Rehingold – ma non abbiamo amato di meno quello della Fura dels Baus – e alla Pergola, sotto la bacchetta di Massimo De Bernart, lo straordinario Li Zite’n Galera di Leonardo Vinci nella revisione di Roberto De Simone.
Continuiamo a sfogliare il libro di Mara Cantoni e Silvia Lelli. Ci spostiamo alle Cascine dove aveva sede il laboratorio scenografico. Ora molto depotenziato e di incerto destino.

Il laboratorio scenografico alle Cascine (foto di Silvia Lelli, in Norma, come nasce uno spettacolo, Edizioni di Musica Viva, Milano 1979)
Senza addentrarci ulteriormente nel tema, teniamo comunque presente che ci sono teatri italiani che nel 1978 non erano certo più blasonati del Comunale, e che hanno fatto la scelta di valorizzare i propri laboratori per produrre gli spettacoli e noleggiarli agli altri. Questo è anche il momento di ricordare un grande direttore degli allestimenti, Raoul Farolfi. Ma, tornando alle foto, osserviamo la creazione del grande, possente e contorto albero druidico che ben ricordiamo, dal bozzetto alla realizzazione.

Una prova di scena di Norma al vecchio Comunale (foto di SIlvia Lelli, in Norma, come nasce uno spettacolo, Edizioni di Musica Viva, Milano 1979)
Ecco le immagini del vecchio Comunale. Nonostante tutto non lo rimpiangiamo, ricordando le sue pecche acustiche, in particolare le tante volte in cui abbiamo visto gli archi filare dei pianissimo che appunto si vedevano invece di sentirli (e invece, nel teatro nuovo, quel finale della Nona di Mahler con Abbado…). Ma forse per chi ci lavorava doveva essere meglio, ad esempio c’era la mensa che i progettisti del Nuovo Teatro dell’Opera si sono dimenticati di inserire nel progetto… ma a chi spettava controllare il loro lavoro ? Ecco dunque nel libro le foto delle prove d’orchestra e della banda in saloncino, e del coro che comincia a impostare i movimenti intorno alla quercia già in scena. Ed ecco che arrivano le immagini dei protagonisti al lavoro: Muti, Ronconi, Scotto.
Di Muti sono molte le immagini delle prove al pianoforte. Quelle prove al pianoforte che Muti, ottimo pianista allievo di Vincenzo Vitale, allora, a Firenze – poi non sappiamo – faceva regolarmente da sé, e grazie a cui, in Bellini come in Mozart e in Verdi, si assicurava quella scolpitura di significati della frase musicale e del recitativo che rendeva così riconoscibile la sua interpretazione (abbiamo poi assistito negli ultimi anni a spettacoli in cui questa fase del lavoro era stata chiaramente trascurata).
Ed ecco Ronconi che siede in sala con due leggii davanti durante le prove. Commenta Mara Cantoni: “Luca Ronconi si sa amministrare. Distribuisce parche informazioni ai collaboratori che gli si fanno intorno e poi si spargono a metterle in atto, in un incessante alternarsi di movimenti centripeti e centrifughi: sta a vedere cosa succede, approva, corregge. Conosce le regole del teatro d’opera, le mette in conto, le rispetta.”
E’ così che sono nati a Firenze i grandi spettacoli fiorentini Muti-Ronconi, L’Orfeo ed Euridice, questa Norma, il Nabucco, il Trovatore, in un equilibrato convergere di competenze che partivano da una reale visione comune. Che non aveva niente a che fare con il divismo del regista d’opera di oggi che esce in scena per ultimo dopo il direttore come “firma principale”, né tanto meno con l’abominato concetto o concettuzzo che troppi registi vanno a cercare nel libretto, facendo l’errore di fondo e di metodo di pensare che il testo dell’opera sia il libretto. Mentre il testo dell’opera – ma davvero c’è bisogno di dirlo ? – è, ovviamente, la partitura. E allora per fare una buona regìa d’opera si deve saper ascoltare la musica, le sue strutture, le sue gerarchie. In quel caso la visione comune partiva appunto dalla musica: una Norma liberata dai tagli, spogliata dagli orpelli (come le puntature verso l’acuto non previste da Bellini), neoclassica del neoclassicismo vibrante che fissa le passioni umane sulla tela, nel marmo, nelle parole e nei suoni, in linee perfette, ferme e tese. Il neoclassicismo di Jean-Jacques David, di Ugo Foscolo, di Luigi Cherubini e di questo Vincenzo Bellini.
Una Norma riscoperta da Muti a partire dall’edizione revisionata sull’autografo di Howard Chandler Robbins Landon, e il giorno dopo la prima Muti e Robbins Landon, affiancati in questo dialogo con il pubblico dal grande Leonardo Pinzauti , che ci ha lasciati da poco, ne spiegarono le novità, fra cui anche la restituzione del ruolo di Adalgisa al soprano (Margherita Rinaldi). Ma la visione di Ronconi la ricordiamo perfettamente coerente a quella del direttore, e gli scatti di Silvia Lelli, che non arrivano allo spettacolo in scena ma si fermano alle prove, rinverdiscono comunque nella memoria una regìa scabra e monumentale, limpida ed efficace, liberata dal bric-à-brac druidico e ricondotta ad un più intimo e profondo gioco di sentimenti, con le motivate e non arbitrarie allusioni alle ambientazioni private del tempo di Bellini, come il tavolo e i divani degli interni. Com’è noto, la collaborazione Muti – Ronconi continuò alla Scala e altrove. Fra le tante cose fatte insieme da Muti e Ronconi voglio ricordare almeno, per averla vista, L’Europa Riconosciuta di Antonio Salieri, opera inaugurale della Scala nel 1778 riproposta dal 7 dicembre 2004 per la riapertura dopo i lavori di ristrutturazione del teatro del Piermarini.
Toccanti le foto scattate durante le prove a Renata Scotto. Ricordiamo benissimo come la sua prestazione divise il pubblico, in gran parte ancora tenacemente legato alla visione scavata e tragica e alla vocalità inimitabile di Maria Callas. Ma più passa il tempo, e più ci rendiamo conto che in un’epoca difficile per le post-callasiane, com’era quella, prima che il revival belcantistico e le acutezze filologiche spianassero definitivamente la strada ad altre Norme, come quella di Cecilia Bartoli, allora Renata Scotto fu forse la sola che riuscì a dare una visione completa e alternativa a quella della Callas a personaggi come Violetta e Norma, trovando una chiave personale e unica. La sua Norma intima e antieroica ma a suo modo non meno vibrante è già nel suo viso, in queste foto scattate durante le prove.
Oggi Ronconi non c’è più e Muti, che in questi decenni nel suo lavoro in Italia ha visto la china discendente dei finanziamenti e della progettualità nel mondo dell’opera in Italia (ultimo episodio la fine del suo rapporto con l’Opera di Roma), dichiara che non ne può più degli arbitri delle regie di oggi e che preferisce fare le opere in forma scenica. Ci auguriamo che cambi idea perché le opere sono nate per andare in scena. Ma anche che i registi vogliano far propria la riflessione di Ronconi raccolta da Mara Cantoni: “Gli schemi del teatro d’opera sono fortissimi e vanno rispettati. Non bisogna cercare di farlo diventare una cosa apparentemente più ricca, mettendoci degli elementi che gli sono completamente estranei.”
In mancanza di testimonianze live di questa Norma, ecco I Vespri Siciliani, “Mercè, dilette amiche” (Bolero), Elena – RENATA SCOTTO, Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, RICCARDO MUTI. Live, Teatro Comunale di Firenze, 13/05/1978 41° Festival del Maggio Musicale Fiorentino