-di Massimo Giuseppe Bianchi-
Sign o’ the times (1987): Prince e la moltiplicazione degli stili. Massimo Giuseppe Bianchi si immerge da par suo nella disamina di uno dei più importanti album di Price, alla ricerca del nucleo misterioso di un grande artista e attraversando i confini di un autore che i confini non li amava.
I nomi d’arte di Prince Roger Nelson, a partire del 1980:
Joey Coco.
Jamie Starr.
Alexander Nevermind.
Christopher
Tafkap (The Artist Formerly Known As Prince)
The Artist.)
La carne è una colpa per l’asceta? Per Prince, l’ostensione della propria personalità, l’edificazione del personaggio furono sempre vissute con disagio, ostacoli all’ elaborazione della sua nuova formula: rendere puro l’impuro. Non amò il successo più della musica.
Nascondersi, mimetizzarsi: non è del resto caratteristica peculiare dell’arte moderna quella di NON rendere, nella loro evidenza, le forme della realtà?
Per il suo stile, ammantato di mimetismo naturalistico urbano, si è usata forse malamente la definizione: cross-over. Miles Davis lo paragonò alla ‘musica della giungla’ di Duke Ellington, evidenziandone a un tempo il sincretismo e le qualità organolettiche. Qualcuno assai famoso fece acidamente notare che Prince non aveva il talento di Ellington: aggiungerei che non aveva neppure un Billy Strayhorn alle dipendenze. Del resto, il talento è sopravvalutato quasi quanto la politica. I risultati artistici sono il frutto di durissimo lavoro, sono sangue più che spirito.
Heiner Goebbles pronunziò molte frasi intonate a profonda ammirazione per il “genietto di Minneapolis”, lo giudicava un collega suo pari nella musica contemporanea. Di lui Sylvano Bussotti, che lo voleva alla Biennale, ebbe a dire:” Nel suo genere, non è meno bravo di Pollini e Abbado”.
La sua parabola, che potrebbe dirsi ispirata al Titano di Jean-Paul Richter, ci rammenta una battaglia combattuta su due fronti: quello della musica di matrice nera funky-ballabile-commerciale, elevata al rango di manufatto artistico ultramoderno sempre avanti sui tempi, e quello dell’industria discografica (storiche le diatribe con la Warner, approdate poi al divorzio e alla creazione di uno spazio personale on-line). Prima di diventare Testimone di Geova, fu anche cantore del sesso, argomento pericoloso ogniqualvolta si traduca lontano dal letto; e molti suoi brani sono di imbarazzante sensualità. Dopo la conversione, il Menestrello si auto-sublima in una versione angelica, altrettanto tendenziosa che la prima.
“Sign o’ the times”, uscito nel 1987, è forse il suo disco più rappresentativo, anche se tutti i suoi lavori sono da conoscere, inclusi gli ultimissimi.Esso rappresentò un duplice punto di svolta sia nei confronti della musica che dell’industria discografica, da quel momento in poi sempre più lontana dalle sperimentazioni dell’artista. Per lui, ormai, lo star-system stava diventando come la macchina da presa (il Cinema, per estensione) in quel famoso film di Fassbinder: la “Puttana Santa”, l’entità che, a un tempo, conduce alla perdizione e salva l’anima.
Più che canzoni, sono fantasticherìe che affascinano l’ascoltatore, spaesandolo. Tutte esprimono contraddizioni, nascondono uno struggente romanticismo ed esprimono sensualità e gioia di vivere. Sono “slanci” nel senso schumanniano e, ancora, l’aggettivo “romantico” si fa strada sulle labbra per definirli. Si parlava prima di sincretismo, di crossover… a me sembra che la genialità di Prince non sia tanto nell’ attraversare, o accostare, gli stili (ciò che fanno più o meno tutti) ma nel moltiplicarli: ogni canzone in questo disco è un progetto separato dalle altre, e ciascuna fonda le proprie basi su una diversa ipotesi sperimentale di linguaggio, che potrebbe benissimo stare alla base di un nuovo progetto ulteriore.
“Sign o’ the times”, la canzone di apertura, apre con una tensione palpabile, e fa appello al colore più che alla melodia: colori degni di un Hopper della banlieue, misteriosi e lividi.
La successiva “Play in the sunshine” la contrasta con un vitalismo chiassoso, dal sapore strano: il ritmo, quasi uno schiacciasassi, tradisce un ‘horror vacui’ che sembra volteggiare su se stesso come una marionetta impazzita. Ci si può sovvenir qui, naturalmente per lo spirito e non per il linguaggio, di certi pezzi “meccanici” dell’ultimo Rossini, felicemente maniacali.
Il rap responsoriale “Housequake” (terremoto) è ricco di elaborazioni ritmiche di stampo africano, un’aporìa per il genere. Non già infatti la solita raffica di uppercut verbali che abbrutiscono, ma un raffinato avvicendarsi di poliritmie e colori. Capriole indolori sull’asfalto, fari abbaglianti sparati negli occhi; tutto questo e altro ancora.
L’esplorazione dei generi, e la loro manipolazione, proseguono con uno dei momenti più intensi “The Ballad Dorothy Parker”, risposta di Prince alla canzone “raffinata” alla Donald Fagen o alla Stevie Wonder.. Anche qui con il solito canto moltiplicato, intraducibile, pieno di didascalie e jazzistiche ambiguità armoniche. Una tecnica che forse richiama e sviluppa, anche per mezzo della tecnologia, alcuni stilemi del canto sacro che trovasi alle origini della “black music”.
“It “ è un’ipnosi sessual-paranoide-compulsiva che starebbe bene in una fantasmagoria di Dalì. Così, potremmo dire, sarebbe uscita “Give me the ooh-la-la” di Cole Porter se questi fosse nato in una cantina del Bronx negli anni ’60, o in altro luogo similmente magnifico e infame. Un ritmo ossessivo l’accompagna, incarnando acusticamente l’essenza della vita moderna.
“Starfish and coffee” la contraddice immediatamente: sembra un quadretto pubblicitario girato da Ken Russell, con cascami di arpe giocattolo, e una letizia più falsa di una falsa moneta. Qui l’autore si dimostra maestro lieve di quell’arte del grottesco che pochissimi padroneggiano.
L’acerbo disprezzo di Prince per l’industria pop sembra incarnarsi invece in “U got the look”, parodia di canzone da classifica (ma in classifica ci entrò) che, nell’indistinto fluire del ritmo binario, assorbe una serie di deformazioni e inserti bizzarri, quasi stravinskiani (si ascolti cosa succede alle parole:”Ladies and gentleman, the dream..”)
“If I Was your Girlfriend” è una distonica pop-song sulla confusione tra i generi, cantata in virtuosistico falsetto: ci si ricorda qui come il Prince, o The Artist che nominar si voglia, abbia dato prova lungo tutta la carriera di un professionismo di rara qualità: cantante versatilissimo, versificatore mai banale senza cercare chissà quali preziosismi, virtuoso sonatore di chitarra capace di dar la birra agli strumentisti più celebrati. Nei diversi accenti della sua vocalità cercava, e sapeva trovare sempre, nuovi nascondigli.
“Strange Relationships” è un momento più ironico e bizzarro, con quel non so che di tontolone, di apparentemente facile che però non ti si stacca più di dosso. La canzoncina, coi suoi singulti, pare abbia il batticuore.
“ Could Never Take the place of your man” è un nuovo interessante cortocircuito semantico, rock’n roll vitalistico su un testo, però, un poco negativo e rinunciatario.
“The Cross” è il momento sacro, una processione stagliata contro un luminoso cielo grigio: la salvezza per il “ghetto”, arriverà, si tratta solo di aspettare. L’incedere è fermo come il profilo di una statua di marmo.
Con “It’s gonna be a beautiful night” si tocca uno dei momenti più belli. Registrata dal vivo, è l’altro, ma differente omaggio a Zappa: un funky fuorviante degno dei migliori esperimenti di quest’ultimo nel campo della deformazione dei generi, che l’italo-americano vedeva quali forme di manipolazione culturale delle masse. Questi musicisti, lo voglio ricordare qui a brevi parole, erano ricchi e adorati ma non viziati: in quanto artisti, cercavano di elevare il pubblico elevando la propria arte, utilizzando un linguaggio sì popolare, ma che tuttavia la maggioranza dei cosiddetti colleghi del ‘pop’ usa abitualmente in modo alimentare. Di tali personalità oggi si è quasi persa traccia, tutto essendo finito in mano ai consulenti dell’immagine, in un clima di epilessia popolare.
Conclude il viaggio la ballad “Adore”. Si magnificò qui l’apporto di Miles Davis, che non è dato però verificare in quanto non accreditato. Certo, è possibile che la tromba sia la sua, ma l’intervento non reca traccia della sua individualità. Si tratta comunque di un momento intenso, misteriosamente incline a una polifonia di nazionalità ignota e strano lignaggio. Il brano conclude il disco in maniera estatica.
Di certo questa è musica assai sentita più che escogitata. “Sign o’ the times” segna pertanto una tappa importante nella sua carriera quanto nel panorama del, definiamolo pure imprecisamente, rock.
Dovremmo – per l’appunto – arrabattarci a trovare una definizione, facendo riferimento a un sistema di etichettatura discografica che dopotutto Prince stesso ha contribuito a smantellare. Fermiamoci pertanto all’ascolto, colmi di gratitudine per un autore straripante, dedito come Alfred Jarry alla patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie, perfetta per l’arte.