Pierpaolo Spollon fra tecnologia e affetti. L’attore si racconta

– di Nadia Pastorcich –

Pierpaolo Spollon. Ph Nadia Pastorcich

Ironico, spontaneo, gentile. Pierpaolo Spollon, volto cinematografico e televisivo in fiction quali “L’allieva” e “La porta rossa” è stato uno degli attori che ha preso parte alla serata di beneficenza organizzata in favore di Every Child Is My Child, all’Salone degli Incanti di Trieste, domenica 16 settembre.

Partendo dal libro “Every Child Is My Child. Storie vere e magiche di piccola, grande felicità” dove vengono raccontati i ricordi d’infanzia, vorrei sapere se anche lei ne ha qualcuno legato alla sua infanzia a Padova?

Quando ho letto il libro, anch’io mi sono domandato cosa avrei raccontato, se me lo avessero chiesto. Una volta ho rubato una macchinina e ho vissuto come Raskolnikov in “Delitto e Castigo”: non sono stato castigato perché l’ho fatta franca.

Ha una macchinina sulla coscienza…

Sì, ho fatto una cosa bruttissima (sorride). Avevo rubato una macchinina a un bambino che veniva con me alla elementari alla scuola Moschini di Padova (metodo Montessori). Non ricordo esattamente perché gli avevo rubato quella macchinina, so solo che non era particolarmente bella, era un camioncino piccolino però aveva delle ruote che giravano alla velocità della luce, quando lo lanciavi era una meraviglia! Quel pomeriggio non ho resistito. È stato uno dei primi furti (ride), ma non sono un cleptomane! Ricordo che avevo portato a casa quella macchinina e al momento stesso in cui mi ci sono messo a giocare, lontano dal suo proprietario, sono stato assalito dai sensi di colpa e ho dovuto gettarla in fondo alla mia cesta dei giochi. Non avevo il coraggio di tornare a scuola e ammettere il furto. Cosa ho fatto allora? Il palazzo dove abitavo confinava con la scuola elementare. Stavo all’ultimo piano e sopra c’era una terrazza enorme da dove ho lanciato la macchinina. Speravo di poterla vedere il giorno dopo nel giardino della scuola e dire al mio amico di averla trovata. Ma questo non è successo. Dopo anni mi sono svegliato di notte e ho confessato ai miei genitori cosa avevo fatto. Appena sono tornato a letto, mi sono addormentato subito – prima non riuscivo a dormire.
Io ero una specie di surrogato di George, il bambino reale. Ero trattato così da mia madre; sono stato sempre principesco: alle elementari avevo i pantaloni alla zuava, le calze con le scarpette con gli occhietti, le camicette a scacchi, mentre gli altri portavano le Bull Boys, la felpa, la tuta e si rotolavano tranquillamente.

Elegantino…

Una meraviglia (sorride)! Ma pratico zero. Per fare un altro esempio, a Carnevale tutti a scuola si vestivano da cowboy e da pirata e giocavano a spararsi, mentre mia madre mi vestiva da Arlecchino, pensa che meraviglia (sorride)!
Mi ricordo che mia madre mi permetteva di mangiare poche merendine e dovevano essere cadenzate, un po’ come i regali: solo a Natale e per il compleanno, non si sforava, a parte per qualche vaccinazione (sorride). Un giorno è arrivata a casa una meravigliosa confezione di cioccolatini e mia madre l’ha aperta e l’ha messa sul tavolino di cristallo nel mezzo del salotto. Le ho chiesto il permesso di mangiarne uno. A me, che ero piccolo, piccolo, con i miei pantaloncini alla zuava e le scarpette con gli occhietti, dopo quel primo cioccolatino talmente buono, era venuta voglia di mangiarne un altro. Ho aspettato che mia madre andasse a fare la lavatrice e sono andato in salotto; ho preso dalla confezione un cioccolatino e mi sono spostato in cucina. Stavo attento che mia madre non arrivasse, però lei è sempre stata una faina. Si è avvicinata al salotto e non trovandomi è andata in cucina. Ero davanti alla pattumiera, che stava sotto al lavello, e stavo scartando da sotto il cioccolatino; con l’unghietta grattavo la cioccolata e me la mangiavo. Quando è arrivata, le ho detto: “Ma che roba è questa?”, e l’ho buttato sprezzante nella pattumiera. Il mio piano era quello di mangiare un po’ e di richiudere il cioccolatino. Insomma chi sarebbe andato a guardare la base del cioccolatino? (sorride).

Pierpaolo Spollon. Ph Nadia Pastorcich

Ha fratelli o sorelle?

Purtroppo sono figlio unico e mio padre ha sempre detto che avrebbe voluto avere una figlia. La mia situazione è questa: figlio unico e non voluto (scherza).

A casa c’era qualcuno appassionato di cinema o di teatro?

Nessuno. Mia madre ha molto gusto ma ha sempre visto pochissimi film, mio padre quasi nessuno: lui è un commissario, mentre mia madre lavora nell’esercito. Diciamo che la fantasia non era al potere, anche se l’unico mio aggancio – devo ammetterlo – è stata mia madre. Lei è molto rigida, una sorta di signorina Rottermeier, lei lavora con i militari, però è una donna estremamente fantasiosa che, secondo me, un po’ combatte con se stessa.

Quand’era piccolo giocavate insieme?

Sono cresciuto da solo, nel senso che mia madre c’era, ma i giochi li ho sempre fatti da solo. Sono campione del mondo di Lego: nella mia cameretta mi inventavo costruzioni, parlavo da solo, giocavo a piangere a stare in apnea e mi divertivo con le piste che facevo per le macchinine; ho cercato di coinvolgere anche mio padre, ma senza successo: lui non capiva il divertimento che provavo nel giocare con le macchinine. Una delusione tremenda (ride). Mi piaceva anche disegnare, disegnavo tantissimo perché mi rilassava. Avrei voluto fare il liceo artistico ma ho seguito la parte razionale di mia madre che mi ha portato a scegliere lo scientifico. Errore clamoroso!
Non sono stato per niente un bambino della generazione tecnologica: non avevo la PlayStation e il Game Boy è arrivato quando gli altri avevano la PlayStation. I giochi tecnologici non erano contemplati da mia madre. Da un lato la ringrazio, dall’altro no…(sorride).

Ci sono sempre dei pro e contro…

Esatto, però io, la mia fantasia, rispetto a mia madre, l’ho persa molto. Ci sono stati dei momenti in cui ho abbandonato un po’ la fantasia per pigrizia, forse quando ho iniziato ad appropriarmi di tutte quelle cose che mia madre mi aveva proibito (Game Boy, PlayStation, etc)…

Pierpaolo Spollon. Ph Nadia Pastorcich

Secondo lei che è giovane, com’è oggi il rapporto con la tecnologia?

È assolutamente inevitabile, quindi non bisogna combatterla, ma bisognerebbe avere delle forme diverse di utilizzo. Prima stavo leggendo un articolo proprio su questo tema. La tecnologia è una cosa che mi interessa molto, ma che anche mi preoccupa. Io non sono molto “social”, non riesco ad aggiornare i social frequentemente perché vivo ancora con molto contrasto questo fatto di far vedere un momento di me. Chi mi conosce sa che chiacchiero tanto e che non ho problemi a far vedere dei momenti della mia vita, ma è il mezzo che mi disturba: se uno mi scrive mi dispiace non rispondere, ma a volte mi si accumulano troppi messaggi e non riesco a starci dietro. Per indole risponderei a tutti…

Però la tecnologia ha anche dei lati positivi…

La tecnologia è positiva: nasce per aiutare a vivere meglio.

Bisognerebbe trovare un equilibrio…

Assolutamente! Bisogna essere educati all’utilizzo della tecnologia, non si può prendere dei ragazzi, dei figli o anche dei genitori e lasciarli da soli in pasto alla tecnologia, perché da semplice aiuto, quando oltrepassa un certo limite, può diventare qualcosa senza la quale non possiamo vivere. Questo a me fa paura. Una delle mie serie televsive preferite è “Black Mirror”, lì, tutto questo, viene spiegato perfettamente: vengono estremizzati quelli che potrebbero essere i danni della tecnologia che viene intesa come la tecnologia moderna che abbiamo adesso: oggi è difficile trovare una persona che non utilizzi lo smartphone…

Anche perché a volte si è un po’ obbligati…

Sì, perché se tu non stai al passo con la tecnologia sei un po’ un emarginato. Ma ripeto, non è una cosa assolutamente negativa, io la vedo come una grande svolta. Ad esempio, la tecnologia, offre a noi che facciamo cinema e televisione – io vorrei fare il regista – delle opportunità che una volta non c’erano. Ovviamente ci sono anche i lati negativi: la banalità è diventata “ultra-pop”.

Il web è un contenitore che ospita purtroppo tutto…

Esatto! Il problema di oggi sta nell’attenzione che noi poniamo alle cose. Tempo fa ho fatto dei video pubblicitari per alcune società e sono andato a studiare un po’ i livelli di attenzione della gente. Il nostro livello medio di attenzione è di 15 secondi. Ma che contenuto può esserci in 15 secondi? La generazione di oggi nasce attraverso una consumazione veloce di sentimenti, di conoscenza. È il corrispettivo intellettuale del fast food.

Pierpaolo Spollon. Ph Nadia Pastorcich

Il ’68 è l’anno simbolo, ma già nel corso degli anni ’60 i giovani hanno cominciato a non accettare il passato, i loro genitori, le tradizioni e hanno in qualche modo deciso di voler provare a cambiare qualcosa. Ma i giovani di oggi, che vengono cresciuti da genitori forse non sempre presenti, anche loro attaccati alla tecnologia, non potrebbero reagire come hanno fatto quelli di una volta?

Sono pessimista sull’umanità, però ho sempre un barlume di speranza: credo nella gente. La tecnologia di oggi, che è arrivata e ci ha stravolto la vita, è stata un taglio netto con il passato. Io prendo sempre come esempio Fosbury, un atleta di salto in alto che ha inventato un nuovo modo di saltare – lui saltava all’indietro. All’inizio i suo parametri erano medi ma poi ha iniziato a fare i record del mondo e così molti hanno cominciato a seguire la sua tecnica. Noi stiamo vivendo un periodo di gestazione in cui è giusto prendere delle misure, ma non si può restare fermi a fare gli eremiti. Non bisogna rifiutare i social, la sfida sta nel dare la giusta collocazione a questa tecnologia senza perdere il legame con le radici, con il passato, non combattere i nostri genitori, ma nemmeno abbracciare completamente tutto ciò che c’è stato. Ci vorrebbe una via di mezzo.
Non voglio né restare radicato nel passato né perdermi in illusioni future, ma apprezzo tantissimo e credo che la tradizione sia fondamentale, sono un po’ un nostalgico. La tecnologia è assolutamente democratica: apre più possibilità rispetto al passato, anche per chi – come me – si interessa di regia.

Permette di farsi conoscere più facilmente…

Sì, in più la tecnologia ha portato alle riprese digitali. Una volta un regista aveva una bobina che costava tanto e doveva stare attento, oggi non c’è questo limite e molti registi vengono alla ribalta grazie a YouTube. C’è una frase di Umberto Eco che adoro e che tra l’altro ho usato come battuta nel film “Che vuoi che sia”, ovvero che internet ha dato diritto di parola agli imbecilli; purtroppo questo è assolutamente vero ma almeno tutti hanno la possibilità di parlare, quindi, non resta che sfruttare questa possibilità in maniera intelligente, bisognerebbe però capire in che modo. Quello che un po’ mi turba è che si confonde spesso l’essere arrivato con l’aver un determinato seguito e capitalizzarlo economicamente. Ci sono dei personaggi che raggiungono una certa notorietà, fanno soldi, con prodotti dalla dubbissima qualità e che ostentano questa ricchezza raggiunta.
Rispetto al ’68, questi personaggi, che vengono presi come riferimento, non rappresentano però una rottura con il passato, non sono un “Fosbury”, perché abbracciano totalmente quella che è la politica di oggi: dimostrare, avere, arruffare il più possibile. Non è una rottura. È una finta rivoluzione. Siamo arrivati al punto che se una persona guadagna tanto è qualcuno.

Tutto è legato alle cifre, ai followers, è tutto un numero…

Esatto! È tutto una cifra. Cosa significa essere un influencer? Questo argomento mi sta molto a cuore. Con un mio collega, Dario Aita, più di una volta ho pensato di fare qualcosa su questo.

Pierpaolo Spollon. Ph Nadia Pastorcich

C’è qualche valore al quale è particolarmente legato e che crede sia fondamentale per questa società?

Per me ciò che è veramente un valore, nel senso che vale, è la mia famiglia alla quale sono legatissimo e penso che sia il mezzo in assoluto che ti consente di tramandare qualsiasi cosa. Nonostante sia andato via di casa a 19 anni e abbia un rapporto un po’ turbolento con mia madre (sorride), quello che io sono oggi è grazie a quella sfera familiare dove sono cresciuto. La famiglia per me è fondamentale. I valori del passato mutano con l’avanzare delle tecnologie, con l’apertura delle menti, individuarne qualcuno di assolutamente fondamentale è difficile. Quello che posso dire è che a casa mia hanno sempre insistito affinché si parlasse, si dialogasse; sono uno che appoggia il dialogo e in questo la tecnologia non aiuta…

Ho notato che alcuni giovani di oggi si trovano un po’ a disagio se devono parlare con una persona molto più grande di loro, invece credo che bisognerebbe qualche volta sforzarsi e ascoltare gli adulti. Questo non significa che poi uno debba fare esattamente quello che hanno fatto loro, però ti aiuta a fare tutta una serie di riflessione utili per la vita…

Assolutamente! Non bisogna rifiutarlo, è fondamentale perché è fonte di esperienza, si vive facendo esperienza in qualsiasi settore; non a caso si dice “esperienze di vita”. Sono quelle che ti fanno crescere come persona. Se parli con un adulto quello che dice non è certificato; a ragion di logica, chi è più grande di te ha vissuto in momenti diversi dai tuoi e ha fatto di conseguenza esperienze diverse. Ma questo è fonte di conoscenza dell’esperienza altrui che ti aiuta anche a prevenire momenti futuri; se non sai cosa c’è stato prima lo affronti, sì, però in maniera abbastanza inconsapevole. Io ascolto sempre tutti, poi è giusto ragionare con la propria testa. Sapere come vivevano prima, come viveva mio padre – io e lui abbiamo una differenza di trent’anni – mi piace tanto: mi diverte ascoltare i racconti della gioventù dei miei genitori e dei loro amici.

Che poi con il passare degli anni, i racconti a volte vengono un po’ romanzati…

Sono romanzati perché il loro mondo era diverso dal nostro. La differenza tra oggi e trent’anni fa è un abisso: alcune cose sono cambiate positivamente, altre negativamente. Le esperienze che mio padre mi racconta mi fanno capire quelli che sono stati gli errori, fatti in questi trent’anni, nell’utilizzo della tecnologia. È fondamentale saperlo per prevenire i prossimi sbagli. Mi ricollego a “Fosbury” citato da Baricco, lo stacco con il passato è già iniziato con la mia generazione: la mia infanzia era diversa da quella di mio padre, però c’era ancora qualcosa di simile, ma per i millennials, nati in pieno sviluppo tecnologico, non ci sono appigli con quello che c’era prima. Noi riusciamo a vedere quello che loro si stanno perdendo. Capisco le difficoltà che potranno avere nel vivere in un mondo nuovo. Non è facile…

Non ci sono riferimenti…

Esatto! Quello che puoi fare è ascoltare e parare il colpo, cercare di trasporre le esperienze del passato in quella che è la tua realtà. Non invidio per niente i ragazzini di oggi, da un lato sono avvantaggiati perché il mondo è nuovo per noi, loro ci vivono già, dall’altro avranno delle difficoltà per mancanza di guide. I giovanissimi hanno un rapporto intuitivo con la tecnologia; sono già stimolati dalla nascita. Bisogna semplicemente sperare che ci siano persone illuminate che ci guidino e utilizzare la testa.

Pierpaolo Spollon e Valentina Romani ne “La porta rossa”

La fiction “La porta rossa” ha investito molto sui social…

In generale sì, io sono un po’ meno presente sui social. Per fortuna ho dei colleghi bravissimi che fortunatamente fanno anche il mio lavoro (sorride), quindi grazie Andrea Bosca, Lino Guanciale, Gabriella Pession e tutti quanti…Continuate così! (ride).

Come è nata questa avventura ne “La porta rossa”?

Mi sono trovato per la prima volta a fare un provino con Carmine Elia (regista de “La porta rossa” n.d.r), ma era per un altro ruolo, non quello di Filip. C’era Valentina Romani che non conoscevo bene, però avevo avuto l’occasione di stare con lei durante le riprese di “Grand Hotel”; già si vedeva che era un gran bel talento e aveva un viso interessantissimo. Assieme abbiamo fatto il provino. Dopo un po’ mi è stato comunicato che il mio ruolo era stato cambiato e che avrei interpretato Filip, un ragazzino, la difficoltà c’è stata, ma per fortuna Filip è un po’ atipico, uno di quelli che ancora legge un sacco di libri…

Quindi ha potuto giocarci un po’ su?

Sì, per questo è stato più semplice, anche se tornare a un modo di pensare non da adulto, non è stato facile. Io mi sento ancora un po’ bambino e questo mi ha sicuramente agevolato (sorride), ma devo dire che Carmine Elia mi ha aiutato molto. Tante volte mi ha fatto notare che stavo reagendo da uomo. Grazie a lui spero che nella prima stagione si sia vista la parvenza di un ragazzino alle prime esperienze. Ho dovuto sedermi ad un tavolino con una musica in sottofondo e una tisana e ripensare, a volte ridendo ma anche con un po’ di malinconia, alle mie esperienze passate, come mi sentivo, come reagivo ai primi baci…

Pierpaolo Spollon e Jun Ichikawa ne “L’allieva”

Fra un po’ inizierà la seconda serie de “L’allieva”…

Anche in questo caso il mio personaggio cerca la sua strada, ma non è una cosa che lo identifica così tanto. Marco è un fotografo, un artista quindi conosco di più i suoi problemi e nell’interpretarlo sono stato più libero, anche dal punto di vista del carattere. Questo personaggio ha delle qualità come la dolcezza che dicono essermi proprie. Anche nel personaggio di Filip sono un po’ presenti, ma c’è un’energia diversa, più lontana dalla mia. Marco è già più vicino, quindi per me è stato più semplice interpretarlo. Mi sono divertito molto.
Entrambi sono due looser nel senso più positivo del termine. A me piacciono da morire! Sono dei finiti looser: sono sì, degli emarginati, dei perdenti, però alla fine è stato il mio personaggio a mettersi con Vanessa ne “La porta rossa” e non qualcun altro, così come Marco ne “L’allieva” si è messo con Yukino. Loro fanno della loro diversità il loro punto forte. C’è ancora qualcuno che apprezza questi personaggi. L’importante è lasciarsi stupire da persone che all’apparenza possono risultare strane, come ad esempio Filip. È così bello farsi stupire! Lo stupore è un’emozione meravigliosa.

Cosa le piace di Trieste?

Trieste è una città meravigliosa dove vivrei per sei mesi all’anno. Con la prima e la seconda stagione de “La porta rossa” ho conosciuto le due facce di Trieste e decisamente ho preferito la seconda (sorride). La prima serie l’abbiamo girata in inverno…

Con la bora…

Un po’ fastidiosa. A me il vento urta molto e penso che possa portare alla pazzia (ride). Come dicono i romani: “M’imbruttisce davvero!”. Girare per strada e avere sempre il vento contro non è il massimo, poi io sono gracile e ho sempre il dente del giudizio che s’infiamma con il vento (sorride). Quest’estate era una meraviglia, bellissima! Trieste è una città dove comprerei subito casa…se fossi il presidente degli Stati Uniti (ride), ma siccome non lo sono e posso permettermi soltanto una casa, credo che probabilmente la comprerò a Padova.

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