-di MASSIMO GIUSEPPE BIANCHI-
100 anni fa, il 19 dicembre 1915, nasceva a Parigi colei che sarebbe diventata un mito per la Francia canora e il mondo, l’usignolo Edith Piaf. Massimo Giuseppe Bianchi ci fa rivivere le tappe di una leggenda.
In una città luccicante come un paio di forbici affilate presero il via la vita e l’arte di Edith Piaf, nata Edith Giovanna Gassion, di origini livornesi.
Con un incantamento verso l’arte a scapito della vita. Sotto lo zaffiro del cielo parigino un’esile creatura, che da neonata pare succhiasse dal biberon al posto del latte il vino “per scacciare i microbi”, destinata negli anni a venire ad incarnare l’identità sovranazionale francese, iniziò una carriera costellata di dolori, un tentativo di suicidio, trionfi e qualche bassezza. Come quando tentò di boicottare la carriera di altre colleghe, magari più giovani, o quelle mezze bugie pronunciate per costruirsi l’immagine di eroina anti collaborazionista…
Umanamente, se non giustificare, la si può capire: ciò che aveva raggiunto se lo teneva stretto, patologicamente. La madre, cantante di strada, la sbolognò non ancora scolara alla nonna, tenutaria di un bordello. E se con alcune puttane la piccola Piaf parve instaurare un surrogato di amore materno, con la nonna, miserabile e trista figura, fu odio cordiale. Il padre, contorsionista di strada, finì col riprenderla ma sfruttandola, per ricattare sentimentalmente il pubblico con le evoluzioni canore già notevoli della bambina-prodigio.
Il marciapiede fu il primo palcoscenico della sua vita (si dice, ma è forse leggenda, che la madre l’abbia partorita in strada al 72 di Rue Belleville, dove oggi fa mostra di sé una targa commemorativa) e da lì partì tutto: il successo, la fama, la gloria.

Marlene Dietrich si congratula con Piaf dopo il suo concerto alla PlayHouse di New York 1947 (AP Photo,M.Zimmermann)
Il transito terreno di questa donna fu quindi un giorno luminoso che nacque non dalla promessa dell’alba, ma da una notte miserabile e fredda. La ricerca dell’amore fu la costante visione di una vita sofferta e sognata, e si trattò sempre di un amore mal sillabato; non seppe vedere chi avrebbe potuto amarla veramente, per contro aiutò chi non l’amava e non la meritava, in uno sporco rituale. Conobbe una gioia sonnambula, inconsapevole, presa nella giostra dell’idiozia gravitante intorno a una vita tanto ricca di onori quanto, forse, povera di conoscenza.
Famosa, anche se adulterata dalla stampa, la vicenda del tormentato rapporto con il pugile Marcel Cerdan, che morì in aereo volando a trovarla a Parigi (sull’apparecchio viaggiava anche il giovanissimo astro nascente violinistico di Francia, Ginette Neveu, già paragonata nientemeno che a Heifetz). La Piaf aveva chiesto all’uomo di anticipare il volo. Appresa la notizia,volle cantare il giorno stesso come stabilito, e collassò sul palcoscenico. Ai mass media necrofili e saprofiti piacque amplificare l’amour fou oltre ogni tollerabili decenze, ma fu dolore vero, squassante.
L’artrite reumatoide deformò molto, di lei, ma la voce rimase intatta fino alla fine. Che giunse il 10 ottobre 1963 su un’Autoambulanza. La strada ancora, sinistra quinta di palcoscenico come all’inizio dei suoi giorni, era lì pronta ad accoglierla. L’aspettava.
Jean Cocteau, che scrisse per lei l’orazione funebre, morì di un colpo apoplettico poche ore dopo avere appreso la notizia.
Esistono due Piaf, almeno. L’essere umano e il mito. Il mito a sua volta, è doppio.
C’è il mito alimentare, oleografico, che fa da corredo a bigiotteria, ristorantini, bistrot e c’è il mito artistico, portatore di energia creativa.
La Piaf abbraccia tutto questo non per la bellezza muliebre, poiché bella non era, non per la sottigliezza interpretativa poiché in fondo – mi perdonino gli irriducibili – fu straordinaria per forza, qualità e potenza più che per varietà d’accento.
L’ “usignolo” è mito per la sua voce, dono di natura.
Lì ella vive, come la Gioconda leonardesca nel sorriso.
Il principio sconosciuto di questa voce va forse indagato in ciò che essa non è.
Essa non può dirsi bella in senso classico perché non cerca né esprime armonia bensì inquietudine; non risulta accademicamente levigata poiché la scuola per lei fu il gelido bordo di una strada, non l’aula surriscaldata di un conservatorio; non cerca sfumature poiché spinta da una costante, brutale urgenza, da un desiderio incontenibile di venire al mondo; non cerca attrattiva poiché riflette il lato tragico dell’esistenza e va letta oltre gli immediati dati dei sensi.
Galileo insegna che un corpo scuro può, in certe condizioni, apparire molto luminoso.
Ascoltare Edith Piaf è, parafrasando Jünger, un piacere stereoscopico. Ogni dato musicale è come inghiottito da un canto che trascende la “canzone”, nobilitandola da manufatto a preziosa arte, a parte di noi. Pervasi da quei suoni non ascoltiamo più strofe musicate ma, ridotti a un unico organo di senso, cogliamo l’interno e l’esterno delle cose, gratificati dalla sensualità di una diafana bellezza del reale. In quell’ istante si è contemporaneamente dentro e fuori, sopra e sotto. Soprattutto, ci tocca l’impressione forte che simile voce provenga dalle viscere di un essere umano, una sincerità che non mi pare di cogliere nella maggior parte delle cantanti odierne, incerte rabdomanti che provano ad affondare, entro sottilissima superficie cerebrale, fragili antenne percettrici, subito infrante.
La Piaf è anche la Francia, lo dicevamo: quella lingua così “aromatica”, quel certo modo di cantare per l’abbondanza del cuore, i testi disperati, di cui spesso era l’autrice, appena tinteggiati di dostojevskijana disperazione e molto diretti. Ma il regalo più grande suo è il più paradossale: quando le canzoni di repertorio si odono sublimate nelle lusinghe del suo canto, paradosso ineffabile, ammaliandoci creano nel nostro cuore un silenzio, grazie al quale serbiamo in noi la vita, e tutte le cose che non possiamo scambiare a parole.
Può la musica portare al silenzio? L’asteroide Piaf 3772 della fascia principale, scoperto nel 1982, è forse la più perfetta metafora di ciò che è stata: un “io” poetico singolare che si libra sullo sfondo di paesaggi inventati e osserva oggi, ancora, la minerale desertificazione del Mondo.