– di Massimo Giuseppe Bianchi –
Paul Bley, il simbolo. Il titolo del suo ultimo disco ‘Play Blue’ (ECM) non è semplicemente un anagramma ma una sigla del suo pensiero, Bley è uno che suona la malinconia, arpeggia sullo spleen: novello Leopardi, ragiona in versi. Sbagliato allora ascoltare le note, meglio concentrarsi sui silenzi, sulle attese.
Anni or sono presenziavo a un concerto di Wayne Shorter con il suo quartetto; era così emozionato che più di una volta fece il gesto di imbracciare il sax, per poi rinunciarvi: forse era il silenzio, in quei momenti, l’idea migliore? Quegli slanci, simili alla mano tremebonda di un assetato che fa cadere la ciotola d’acqua che gli restituirebbe la vita, erano più toccanti della musica stessa (che pure era formidabile).
Similmente, Bley ti cattura per la febbre della ricerca più che per lo splendore del risultato che, comunque, certo non manca. Questo ruvido ex bel ragazzo, originario di Montreal dove nacque nel 1932, è un innovatore, un grande, non inferiore a Bill Evans. Ascoltiamo il Jarrett odierno, nel suo splendore manierista, e ripeschiamo le incisioni di Bley degli anni sessanta. Sentite? Era già tutto lì.
I simboli non solo nascono e muoiono, si evolvono. Bley ha più volte rimosso e allargato i confini del proprio linguaggio. E’ l’emblema del musicista Sufi, misteriosofico, ermetico. Ad uno studente, che gli chiedeva consigli su come diventare jazzista et similia, sembra abbia risposto in assetto di guerra: ”Comincia a vendere il pianoforte”.
Lo amiamo dunque, Paul Bley, per la luce lunare, per il chiedere non ai sensi ma all’anima, per la capacità di tradurre ogni emozione in un ordine meramente logico. Da Charles Mingus fino al pantonalismo magico di Sun Ra passando per le atmosfere rarefatte del trio “bianco” di Jimmy Giuffre, il pianista non è mai stato un fatuo servitore delle mode. Non vuole piacere e sembra non voglia essere amato: eppure uno dei suoi dischi più belli, che nel piano solo jazz inaugurò addirittura una nuova maniera, si chiama proprio Open, to love (ECM).
L’ambiguità del simbolo è qui all’opera. Artista dal passo trattenuto, ieratico il fraseggio, in lui l’edonismo rinascimentale entra in conflitto con uno spirito penitenziale, controriformista. Non bara e accoglie il futuro inventandosi il passato. Canta piegando la musica, anche quella di più antica tradizione come il blues, alla propria grammatica scarnificata ma sconfinata. Il suo stile mette in luce l’estrema relatività del proprio statuto, suoni erratici spesso totalmente improvvisati come in un gioco dove la posta è altissima: il capolavoro, o nulla.
Manzonianamente, val più un pelo della sua barba che tutta quella della maggioranza degli apostoli della musica del consenso, cui manca il più lieve respiro di universalità. Un’arte che procede in senso opposto a quello della spettacolarizzazione, un prezioso dono. Time will tell.
Bravo M. G. Bianchi, ben fatto e ben detto. A dirla tutta bisognerebbe dire e ascoltare molto di più di P. Bley, un artista sempre dietro l’angolo, mai in primo piano, ma altamente seminale. Intraprendente personaggio poi, organizzatore, imprenditore, ma…
Non ho mai smesso di pensare che lui, Cecil Taylor, e chissà quanti altri che si dovrebbero citare, abbiano la stessa importanza di Keith Jarrett che tu sai bene quanto io abbia seguito. Non solo personalmente ma proprio in una prospettiva storica e analitica che è, anch’essa, finita dietro l’angolo. Quello dietro il televisore, vicino al ripostiglio delle scope…
E’ davvero grande il numero di musicisti che andrebbero rilanciati. Hai ragione! Essi non sono mai scomparsi né hanno cessato di operare. L’importanza di Keith Jarrett , che tu citi, è quella, inestimabile, di un grandissimo musicista che riesce a portare a un vasto pubblico la MUSICA. Ciò è innegabile. Tuttavia Bley, Taylor, ma anche il nostro D’Andrea ad esempio sono stati ancora più di lui portatori di nuova energia creativa. Non che si debba essere innovatori a forza, per carità… Sono lieto che la mia riflessione abbia contribuito nel suo piccolo a rinfrescare la memoria intorno al grande Paul…..
Massimo Giuseppe Bianchi, in poche parole hai saputo condensare la natura di un grande artista che, lette le parole spese per raccontarlo ed avendo goduto degli ascolti musicali che ben lo rappresentano in questa narrazione, vien voglia di conoscere un po’ di più! Grazie!!
Grazie, Margherita Sechi! Fortunato chi ancora non lo conosce, potremmo dire, così può ascoltarlo per la prima volta… La sua discografia è molto vasta e si può quasi cogliere “fior da fiore”: così, alla brava. I tre dischi da me indicati rappresentano comunque un ottimo punto di partenza. Consiglierei anche il cofanettazzo “The complete remastered recordongs on Black Saint & Soul Note” uscito mi pare nel 2013, a un prezzo più che ragionevole!
Grazie…prezioso consiglio che arricchisce il percorso!
E’ davvero grande il numero di musicisti che andrebbero rilanciati. Hai ragione! Essi non sono mai scomparsi né hanno cessato di operare. L’importanza di Keith Jarrett , che tu citi, è quella, inestimabile, di un grandissimo musicista che riesce a portare a un vasto pubblico la MUSICA. Ciò è innegabile. Tuttavia Bley, Taylor, ma anche il nostro D’Andrea ad esempio sono stati ancora più di lui portatori di nuova energia creativa. Non che si debba essere innovatori a forza, per carità… Sono lieto che la mia riflessione abbia contribuito nel suo piccolo a rinfrescare la memoria intorno al grande Paul…..