-di Tommaso Chimenti-
Quando si parla di Etruschi (al netto dei preziosi reperti venduti al British, all’Hermitage e al Louvre) vengono alla mente Tarquinia e Vetulonia quando Chiusi ha uno dei maggiori patrimoni su questo ancora misterioso popolo. Già nell’Ottocento Chiusi era meta del Gran Tour degli aristocratici tedeschi, francesi e inglesi che scendevano in Italia per visitare e studiare appunto l’età etrusca, quella romana, la Magna Grecia e il Rinascimento. Qui da diciassette anni, dopo varie vicissitudini di cambi di direzione, il Festival Orizzonti è tornato (sotto la direzione di Gianni Poliziani) a portare la gente a teatro con proposte popolari. Un piccolo paese (neanche 7.000 abitanti) che ha riempito con entusiasmo il Teatro Mascagni come la funzionale tensostruttura San Francesco. Ma Chiusi è anche una serie infinita di cortili, piazzette, parchi, sbocchi dove poter pensare, per il futuro, a piccoli spettacoli di narrazione, un territorio che ben si presta alla nicchia, al racconto, alla vicinanza, alla comunità, al sentirsi parte di un unico grande progetto. Se la cittadina è un piccolo fiore all’occhiello, nei dintorni la bellezza si amplifica con il Lago omonimo popolato da anatre, fiori di loto e canottieri (dall’altra parte della riva si apre l’Umbria), e le tombe etrusche (scrivevano da destra a sinistra come gli arabi, da loro arriva la C aspirata dei toscani moderni) ben conservate: quella della Pellegrina, quella della Scimmia e quella del Leone: un vero tuffo tra argilla e sabbia arenaria dove si respira la Storia. Una guida racconta che “Chiusi è come il formaggio Emmental: tutta buchi”. Ed ha ragione visto che sotto la chiesa come sotto il campanile (nato come fortificazione e successivamente cambiato d’uso) scorrono centinaia di metri sotterranei di cunicoli e grotte che gli Etruschi usavano come rete idrica con un sistema di pozzi e cisterne per raccogliere l’acqua piovana e pulirla dalle impurità. Chiusi è una scoperta fuori, a cielo aperto, come nella sua pancia, così anche nella versione artistica; Chiusi città aperta. Anche qui, come la tradizione del campanile vuole, il borgo è diviso in “fazioni”, in spicchi, in quartieri, in rioni, per scontrarsi in giochi, abilità, nel Palio dei Terzieri (Santa Maria, Sant’Angelo e San Silvestro) che si giocano il primato cittadino, fino all’anno successivo, con il tiro con l’arco. Ma non solo perché le sfide continuano con la Palla al bracciale, nel Palio delle Torri e nel Palio delle Rotoballe. Luoghi da vedere e conoscere.
In questo intreccio di Storia e tradizioni, il teatro, vicino, tangibile, concreto di “Orizzonti” (da 7 all’11 agosto; il tema portante era #Donna), ha espresso tutto il suo potenziale con scelte azzeccate, lungimiranti, precise. Non poteva non colpire, positivamente, “Quin”, di Laura Fatini, con una sublime e tenace Valentina Bischi immersa in un monologo, che ha fatto proprio, intenso per tematica, nei cambi di ritmo come nei ribaltamenti di registro. Appena qualche settimana fa abbiamo visto la Bischi nel non riuscitissimo “Il cartografo” ad “Inequilibrio” a Castiglioncello dove, in un quadro leggermente confusionario si sommavano troppi piani narrativi, era comunque riuscita a donare pathos e forza alle sue parole. “Quin” racconta la parabola discendente di una ragazza di provincia che, forte della sua bellezza, entra nel mondo dello show business con l’aspettativa di fare il grande salto nella televisione o nel cinema e che poi si ritrova, purtroppo, invischiata nelle “cene eleganti” e in quel giro di prostituzione che ha i contorni della bella vita ma che dietro la facciata luccicante ha i contorni dello squallido, del meschino, ripugnante e viscido. Proprio il titolo, scritto come la pronuncia di Regina in inglese, ci dà il senso e il polso della situazione, misura il termometro tra le ambizioni da star e l’intorno piccolo borghese se non periferico. La Bischi gira come una bambola da carillon, è avvincente e ammiccante, ha tenerezza e sensualità, intenzione e la sua voce è ora malinconica, adesso voluttuosa, nostalgica e tremendamente triste nel descrivere, a flash back ruvidi, tutto quello che poteva essere e che invece non è stato. E’ intensa nel passarci i sogni infranti, ha fascino e talento, usa e dosa il corpo sulla scena dove campeggiano una matrioska, un vetro spezzato, un piano in bilico, in discesa dove è facile scivolare prima e cadere dopo. E’ convincente e commovente e credibile, ha grande carica ed emotiva lucidità, è una potente sirena senza mai cedere all’essere sirenetta, ha il pathos di una madonna seicentesca e lo sguardo che scardina delle donne fotografate da McCurry. E’ Pinocchio quando si accorge che si diventa somari una volta entrati nel Paese dei Balocchi.
Uno spettacolo che invece ha un paio di stagioni sulle spalle (vincendo anche il Premio In-box) è quello, sempre attuale, di Controcanto Collettivo, sei sedie spaiate, come le storie che raccontano tutte declinate al mondo del lavoro, della “fatica”, del lavorare per vivere o del vivere per lavorare. “Sempre domenica” è una tracigommedia all’italiana, amarissima, senza riscatto, dove i giovani (guardano seduti frontali il pubblico) studiano e non trovano un impiego decoroso rispetto agli anni dedicati ai libri, mandano curriculum e fanno colloqui ma gli unici posti disponibili sono i call center, i fattorini, le reception, dove le fabbriche dismettono e devi firmare le peggiori condizioni possibili senza rete, senza paracadute, senza certezze, senza protezione (come in “11 minuti” di Stefano Massini). Si ride e ci si stringe il cuore in questo romano strascicato che porta il sorriso e quel sapore d’asfalto di borgata, di rassegnazione stantia, di orizzonti che passo dopo passo si chiudono come gli occhi davanti alla stanchezza di giorni tutti uguali, che li sfinisce, li tritura, li comprime nella monotonia del “dover fare”, del “dover andare avanti”, un continuo salire la china senza mai arrivare, senza ricompensa.
La domenica, quando arriva, si è talmente stanchi per potersela godere, si è preoccupati perché il lavoro che oggi ci distrugge potrebbe non esserci più, per le spese che aumentano, si è svuotati perché è una privazione, una costrizione, una schiavitù. Le voci si sommano, si accavallano, si intrecciano i piani e le frustrazioni, e la felicità è quella luce, sempre più flebile, in fondo al tunnel, una grotta che allunga la sua ombra nera a macchia d’olio. Da una parte un lavoro che non piace, che non hai scelto e che senti come una punizione, senza gratificazioni morali né tanto meno monetarie, dall’altra un tempo libero che si assottiglia e che ti lascia giusto lo spazio per la spesa al centro commerciale, tutti annoiati, tutti insoddisfatti, tutti che hanno rimesso i loro sogni in naftalina e si spengono, si svuotano, si prosciugano tra sacrifici che non porteranno a nessun scatto di carriera: “E’ come se fossi sempre fuori posto”. Una vita impossibile e non felice corredata da infiniti “Non ce la faccio più”, da un sonno che non riposa, che non ristora.
Produzione di punta del festival è “La stazione” di Umberto Marino (sceneggiatore di “Italia-Germania 4-3” come drammaturgo di “Roger” con Emilio Solfrizzi; Sergio Rubini ne fece un film) per la regia di Manfredi Rutelli, direttore artistico del Teatro degli Astrusi e del “Festival FerMENTIinFesta” a Montalcino (dal 5 all’8 settembre) del Teatro Caos a Chianciano e da quest’anno, dopo l’affiancamento della scorsa edizione, regista dello spettacolo del Teatro Povero di Monticchiello. La stazione è un luogo non-luogo, uno di quegli spazi che esistono in quanto funzione. La stazione è attese e partenze, lacrime e fazzoletti, è tempi morti per poi scattare, lasciare luoghi al passato, verso nuove direzioni. La stazione è sempre un “Ci scusiamo per il disagio”. Chiedere agli Omini. La stazione ci ricorda “Una pura formalità”, pellicola di Tornatore con Rubini (ancora) e Depardieu, luogo sospeso dentro una parentesi, una bolla esistenziale tra la realtà e il visionario, sogno e incubo. Piove, e spesso sono lacrime che scendono. Grandi gocce vengono proiettate e all’improvviso sembra di essere all’interno della scena cult di “Psycho”, noi catapultati, insieme con la piece, dentro quella placida e tranquilla e normale doccia in attesa che qualcosa accada. E qualcosa necessariamente avviene nell’ufficio di questo capostazione timido, insicuro, ossessionato dal tempo, preciso e maniacale. Il suo studio, nel retro della piccola stazione di provincia, è una parentesi dove tutto scorre noioso, sempre uguale a se stesso. Ma stanotte è una notte diversa. Il testo di Marino fa piombare in questo quadro da impiegato ligio e meticoloso una donna, aristocratica, ben vestita. Il tenue castello di sabbia costruito negli anni dal capostazione, di solitudine accettata e consapevole, si sfalda in pochi minuti: lei cerca protezione dal suo compagno, arrogante, ricco e pure violento. Vuole un biglietto del treno per andarsene lontano, fuggire. Ma il prossimo treno utile parte la mattina, dopo molte ore. La titubanza tenera del ferroviere (Alessandro Waldergan, una carica woodyalleniana ben allenata e pronta) trova la sua sponda nella signora abituata a ben altri palcoscenici sociali (Silvia Frasson, in forma) e tra i due scatta solidarietà, vicinanza, unione. La vita piatta e rinunciataria dell’uno con la borghesitudine dell’altra si coalizzano per respingere il nemico alla porta, arrogante e irascibile (Gianni Poliziani usa la sua fisicità per dare la giusta e credibile cattiveria al suo ruolo; ha ricordato Massimo Ghini in “Compagni di scuola” di Verdone). Ma, anche se i primi round vedono i nostri asserragliati indietreggiare e accusare il colpo, incassare all’angolo, anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano. La rivincita, la rivolta e la rivoluzione sono nell’aria proprio quando tutto sembra perduto. Anche il miglior uomo del mondo, se messo nelle condizioni di non avere nessun’altra scelta, può diventare una scheggia impazzita. Che adesso lo spettacolo non muoia dopo una replica, sarebbe veramente un ulteriore spreco in quest’Italia dove lo sport preferito è buttare via il bambino con l’acqua, anche quando non è sporca.