–di Tommaso Chimenti-
La poetica di Andrea Kaemmerle è legata indissolubilmente a due condizioni che si aggrovigliano come fili di dna su un unico perno, l’esistenza. L’uno è propedeutico all’altro, l’uno è la soluzione, che non porta sollievo, all’altra circostanza ma anzi si alimentano, si rinfocolano, continuano ad accendersi come i fuochi di Bolsonaro nella foresta amazzonica: ecco il viaggio altra faccia della medaglia della nostalgia. Si parte per cercare altro perché quel che abbiamo non ci basta e inevitabilmente quella che era “casa”, qualunque essa fosse, diventa metro di giudizio e paragone inattaccabile, punto di riferimento contro il quale cozzano tutte le altre visioni e deformazioni e deviazioni del concetto stesso. La nostalgia ci tiene legati a ciò che eravamo, a ciò che avevamo ma ci tiene anche sospesi in un limbo dove non riusciamo a ben decifrare il presente, dove è il passato, con la sua carica emotiva di perfezione (proprio perché è passato e quindi ripulito dalle “sporcizie” della quotidianità e filtrato dalla memoria che scansa, come il miglior regista, i dettagli negativi), a farla da padrone. Due binari, e si ritorna al viaggio. Con Kaemmerle si viaggia anche rimanendo fermi. Si viaggia con “I vagoni vaganti” verso la Transiberiana, si sgomma con “L’uomo tigre” su e giù per le autostrade tra liscio, balere e autogrill, si salpa con “Lisciami” tra onde immobili, si veleggia con “Odore di mare” tra porti, navi e donne troppo lontane.
Dall'”Odore di mare” all'”Odore di Marsiglia” il passo è breve. Stesso incipit, stesso fondale, stessa spiaggia, stesso mare. Un nuovo up grade però, evoluzione drammaturgica che parte da questo marinaio abbandonato alla deriva della sua vita e dall’armatore che lo costringe a non abbandonare la nave, praticamente sceglie di restarne sequestrato, per non perdere i suoi emolumenti raggiunti. Un uomo allo sbando, spiaggiato come i leoni di mare, che vede la sua vita riflessa sui finestrini delle cabine-loculi delle meganavi che gli passano accanto quotidianamente, quella settimana fintamente lussuosa dei crocieristi, le mille attività per tenerli impigliati, invischiati in un tempo noioso che non scorre infarcito da momenti trash che ti saresti volentieri evitato e risparmiato. Da una parte i finti ricchi reclusi, dall’altra lui che si sostenta grazie alla generosità di altri marinai che, solidarmente, gli passano gli avanzi proprio delle grandi navi: tramezzini ammezzati, champagne sgasato e aperto al buffet, tartine smozzicate; un party continuo ma senza invitati, senza festa, senza brindisi. Quale allegria, chiedeva Lucio Dalla. Come è profondo il mare (continuando sull’asse bolognese) visto da una banchina galleggiante, da una ferraglia dondolante, da un ammasso di acciaio (come i muscoli del capitano) che si arrugginisce.
Marsiglia non è soltanto una città: è un sapore, è un way of life. Marsiglia, proprio nel giorno della presentazione della Fiorentina di Frank Ribery, lui cresciuto tra le viuzze che tanto ricordano Genova, Napoli o il Magreb. Le grandi navi fanno venire alla mente le polemiche annuali a Venezia con il loro passaggio che, prima o poi, la distruggeranno affondandola. Qualche mese fa l’artista Banksy, come sempre resosi irriconoscibile e camuffato, trasformatosi in pittore ambulante (poi allontanato dai solerti vigili urbani), volendo raffigurare la bellezza di Venezia, dei suoi canali, di San Marco, della laguna, ha beffardamente, ironicamente, causticamente, iconoclasticamente, dipinto queste big boat che con le loro pance, la loro arroganza, il loro volume di decine di piani slanciati verso il sole, occupano tutto il panorama, tutto lo spazio visivo dell’orizzonte, occludendo Venezia, oscurando Venezia, uccidendo Venezia. Terribilmente geniale, metaforicamente diretto. Le crociere riportano sempre alla mente David Foster Wallace e il suo reportage, esilarante quanto serio e geniale, e per questo involontariamente ironico, “Una cosa divertente che non farò mai più“, da leggere, rileggere e farlo ancora, per sentirsi un po’ meglio, per non cadere nelle tentazioni del diavolo consumismo. Resistere come resiste il personaggio tratteggiato, con l’amore e il cinismo dei suoi pennelli, da Kaemmerle, drappeggiato tra De Andrè e Gian Maria Testa. Gente di mare che in questa occasione non se ne va. Sta.
L’amarezza si abbraccia con la solitudine nel suo incedere di giorni sempre uguali (come quelli dei crocieristi d’altro canto) in questa Disneyland forgiata per non farti pensare, dove la finzione e la realtà si confondono con l’intento di appiattire tutto in una pappa di mucillagine e alghe melmose dalle quali se ne emerge menefreghisti, incattiviti ma anche svuotati, ammosciati, senza energie per protestare. E’ la perfetta essenza del capitalismo, renderti consumatori talmente impigriti da desiderare solo ciò che ci dicono di voler volere. Il nostro marinaio-Kaemmerle (“ma come fanno i marinai a riconoscere le stelle sempre uguali sempre quelle, a baciarsi tra di loro a rimanere veri uomini però“) è ispirato, poetico, debordante, commovente come un fazzoletto sventolato prima di pa(r)tire. Chi pensa che Marsiglia sia un sapone non ha capito niente della vita.
Marsiglia dovrebbe dare la cittadinanza onoraria ad Andrea Kaemmerle. Ha fatto più lui per la città della Francia del Sud che qualsiasi ufficio del turismo. Lunga vita a Kaemmerle capace di farci sognare disegnando mondi, odori, strade con la sola imposizione (pacifica) delle sue parole che ti abbracciano con la tenerezza di un amico di vecchia data.