– di Stefano Fabbri –
Di solito, come si dice, è sempre il colpevole che torna sul luogo del delitto. Enrico Letta è l’eccezione che conferma la regola
Anche se il suo ritorno non è da vittima, peraltro annunciata da quell’invito a stare sereno che ormai è entrato nel lessico comune come prodromo di una prossima fregatura. Letta torna ad avere un ruolo nel Pd, il più alto, quello lasciato vacante da Zingaretti, non ancora da vincitore ma sicuramente da salvatore. Tale lo considerano, almeno a parole, tutti i componenti delle varie tribù stanziali del Nazzareno. Anche gli (ex?) amici del “colpevole”. Pure i Dem più lontani dalle sue origini democristiane.
Senza contare gli stessi sostenitori del segretario dimissionario che, col suo gesto, nello stagno ha gettato non un sasso ma una pietra enorme che ha rischiato di essere tombale.
Letta e il suo avversario storico
Si’, perché se Letta avesse voluto davvero togliersi qualche peso dallo stomaco e avesse voluto “vendicarsi” avrebbe usato la tecnica del suo avversario storico, Matteo Renzi: si sarebbe riservato di decidere per poi all’ultimo minuto salutare la curva e dire che non c’erano le condizioni per la sua candidatura proprio per i dubbi ed i mugugni della componente del Pd più prossima alle posizioni dell’ex sindaco di Firenze, ex segretario, ex premier ed attuale capo politico di Italia Viva, lasciando così che quella pietra chiudesse la porta del sabba infernale che avrebbe potuto celebrarsi negli organismi dirigenti privi di guida e, soprattutto di prospettiva.
Invece no. Letta ha accettato la candidatura con una lieve correzione di tiro. Non più subordinandola all’unanimità ma alla verità. Sono proprio questi i termini che ha usato: “Non cerco l’unanimità ma la verità”. D’altra parte che salvatore sarebbe se non mettesse al primo posto la verità. Che poi, come si sa, morì fanciulla. Dunque non un’unanimità, anzi un unanimismo di facciata che magari potrebbe anche manifestarsi nel corso della sua elezione, ben sapendo che le differenze restano profonde.
Le “anime’ del PD
Tra i paletti che Letta aveva indicato era quello che non vi fossero tentazioni di celebrare un congresso del partito prima del 2023, ma probabilmente deve rinunciare a questo aut-aut poiché, indipendentemente dal voto nell’Assemblea nazionale del Pd, la componente di Base democratica, che che fa capo all’ex fedelissimo di Renzi Luca Lotti e al presidente dei senatori Andrea Marcucci, difficilmente potrà lasciare campo libero al neo-segretario per i prossimi due anni. Ne va della sopravvivenza della componente che fu la più renziana del partito.
I conti sono presto fatti
A febbraio 2022 c’è da eleggere il nuovo Presidente della Repubblica (carica per la quale tra i nomi che circolano non sono assenti quello dell’attuale capo del governo Mario Draghi e, fino ad ora, proprio quello di Letta jr).
Dopo, ogni momento è buono per le elezioni politiche ed il fatto che sia il Letta segretario a dire l’ultima parola sulla composizione delle liste del Pd non rassicura affatto coloro i quali siedono in Parlamento dopo che la stessa operazione venne fatta nel 2018 da un altro segretario, e cioè da Matteo Renzi (che poi soli li ha lasciati fondando un altro partito).
Anche perché lo strabismo politico e organizzativo del Pd risiede proprio in questo: gruppi parlamentari composti da eletti in grandissima parte designati da Renzi e organismi dirigenti del partito composti in maggioranza da chi è entrato nelle stanze dei bottoni del Nazzareno grazie a Zingaretti.
Letta dovrà decidere se seguire la linea tracciata da Zingaretti
Tuttavia la questione principale che Letta avrà di fronte è se seguire la linea tracciata da Zingaretti (guarda caso votata all’unanimità dalla direzione del Pd e poi abbandonata precipitosamente da Base democratica e non solo) di alleanza strategica con Leu e con il Movimento 5 stelle ora guidato proprio da Giuseppe Conte.
Il quale ha avuto gli stessi partiti come base della sua maggioranza mentre era al governo, oppure se guardare altrove, e cioè alla “gamba” più centrista di un’alleanza post-Draghi che comprenda Italia viva, il movimento di Calenda, + Europa e magari qualche spezzone di Forza Italia o vicino alle posizioni o nato da costole del partito di Berlusconi.
Le elezioni comunali di autunno, rinviate causa pandemia, saranno un primo banco di prova per le scelte che Letta intraprenderà nei prossimi mesi.
Ma qualsiasi sarà il loro esito è difficile pensare che il nuovo segretario accetti di legarvi il proprio destino: in mano vuole saldamente tenere quello dei parlamentari che dovranno giocarsi la rielezione alle politiche con un un tris di parametri non da poco.
In primo luogo dribblare il taglio secco del numero degli eleggibili varato, con poca lungimiranza, anche con i voti del Pd. In secondo luogo fare i conti con i mutati equilibri di chi deciderà la composizione delle liste con criteri molto probabilmente diversi da quelli utilizzati nel 2018. Infine con i sondaggi che finora non lasciano grandi spazi di miglioramento al Pd rispetto alle ultime elezioni e che difficilmente potranno sensibilmente cambiare nel corso della durata del governo Draghi che pare più aver rianimato le componenti di centrodestra del suo esecutivo.
La leadership di Conte una nuova opportunità
Quanto ai rapporti con gli altri partiti Letta dovrà invece fare i conti con un M5s che, a costo di pagare un prezzo elettorale che praticherà un forte sconto al 33% ottenuto alle ultime politiche, e che oggi è solo il ricordo di un biglietto della lotteria andato perduto, vede nella ledership di Conte una nuova opportunità e nell’accordo col Pd l’unica prospettiva strategica possibile per tentare di contare di nuovo in un governo che non sia quello di tutti (o quasi) varato in nome della lotta alla pandemia.
Sull’altro fronte il rapporto con i moderati c’è da giurare che sarà più fluido quello con alcuni spezzoni del centro e del centrodestra anziché con la forza politica fondata dall’uomo al quale, nel cambio della guardia a Palazzo Chigi, passò la campanella posando lo sguardo su qualsiasi altra cosa che non fosse lui: è verosimile, e non solo per puro guardonismo, che il sogno di molti cronisti politici sia quello di tramutarsi in una mosca per poter essere presenti, non visti, al primo incontro tra i due dopo quell’episodio.
Infine c’è il problema del Pd e della sua guida
E cioè quello per risolvere il quale Zingaretti si è dimesso e Letta ha accettato di succedergli. Il “salvatore” è un fondatore del partito, in nome e per conto della componente più moderata che proveniva dall’esperienza della Margherita e prima ancora della Dc.
E’ molto probabilmente l’uomo giusto per superare un momento nel quale gli stivali del partito sono prigionieri del terreno fangoso per uscire dal quale non si sa mai bene quale direzione prendere.
Ma la sua leadership risponderà pienamente a ciò che gli osservatori politici più accorti stanno rimproverando ai Dem, e cioè quello di continuare ad essere il partito dei quartieri alti e che ha perso il contatto con gli strati più popolari che, proprio a causa delle crisi economica dovuta alla pandemia, potrebbero prendere altre strade che conducono ad una opposta sponda del quadro politico?
C’è chi sostiene che al Pd servirebbe più sinistra anziché un’anima, seppur generosa, ma di origine moderata. Più probabilmente servirebbe solo più politica.