-di Giulia Tellini-
Il 14 luglio Natalia Ginzburg avrebbe compiuto cento anni. La sua lezione, oggi più di ieri, da amare e ammirare. Ce lo spiega Giulia Tellini
Di Natalia Ginzburg, oggi, quello che più induce all’ammirazione è la parsimonia. Parsimonia nell’uso delle parole, parsimonia nell’uso delle frasi, parsimonia nell’uso dello spazio sulla carta bianca. In un’epoca come l’odierna, nella quale tutti scrivono, tutti hanno un blog, tutti bazzicano le gazzette, tutti pubblicano un libro (quelli che hanno qualcosa da dire, quelli che hanno poco da dire e soprattutto quelli che non hanno niente da dire), la sua parsimonia, il suo voler occupare lo spazio necessario e non di più, la sua profonda pensosità, sono come l’acqua nel deserto del sale.
Di Natalia Ginzburg, oggi, quello che induce di più all’ammirazione è il rispetto per la verità, e l’asciuttezza con cui serve la verità e il suo mestiere. Quando si scrive una pagina, infatti, ci sono innumerevoli pericoli, dice: «c’è il pericolo di mettersi a un tratto a civettare e a cantare […]. E c’è il pericolo di truffare con parole che non esistono davvero in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che mettiamo insieme con destrezza perché siamo diventati piuttosto furbi. C’è il pericolo di fare i furbi e truffare».
La civetteria, l’esibizionismo, la furbizia, la disonestà: tutto ciò che la Ginzburg non ha e non è. E che invece dilaga ovunque, senza filtri, né vergogna. Di Natalia Ginzburg, oggi, quello che più induce all’ammirazione è l’umorismo, che nasce dall’ottica infantile da cui lei guarda la vita degli adulti, quasi non ne facesse e non ne avesse mai fatto parte, senza distinguere fra le cose futili e le cose importanti, con un’innocenza che non è ingenuità, e con una sapienza che non è saggezza.
«Delle mie cose, credo, scrivo da persona che ci ha molto pensato su», dice. E dice anche che cerca di conservare lo sguardo fresco e diretto «di chi vede il mondo sempre per la prima volta». Perciò, malgrado la tristezza che pervade i suoi scritti, la parola felicità ricorre così di frequente nelle sue pagine. Perché ogni volta è motivo di stupore. «Quando una persona è felice, non la smette mai di meravigliarsi della grande intelligenza del caso che l’ha portata alla felicità. E invece quando uno è infelice non si stupisce mica niente a guardare come il caso è stupido […]. Si vede che per la gente, l’infelicità è una cosa naturale, e non fa stupore», si legge nell’Inserzione, la più tragica delle sue commedie.
Mantiene un profilo basso, Natalia Ginzburg, scrive di sé con caratteri minuscoli, assecondando un senso dell’umorismo tipicamente ebraico e contribuendo volontariamente ad alimentare fra i suoi colleghi la leggenda della propria ottusità. Procede a piccoli passi, come un bolero. Piccoli passi che la portano molto lontano. Come se, rana nel pozzo, non conoscesse il grande mare ma conoscesse bene la profondità del pozzo. Eppure, Natalia Ginzburg (vedova a 28 anni con tre figli piccoli, una quarta figlia gravemente disabile dal secondo marito, e vedova di nuovo a 59 anni) conosceva bene anche il grande mare. «La Ginzburg mi pare una zietta simpatica, o una sorella che ha il coraggio di dire le cose in cui crede con forza; e se pure non si è d’accordo con lei, come rifiutarle la stima incondizionata?». Dice di lei Federico Fellini, che la considerava la sua scrittrice preferita.
Un’altra cosa che di Natalia Ginzburg oggi induce all’ammirazione è il suo orrore dell’autobiografia, la sua riluttanza, da un certo momento in poi, a gestire una narrazione in prima persona. Una riluttanza che la spinge, a metà degli anni Sessanta, a cominciare a scrivere commedie: «il non trovarmi nella necessità di scegliere fra un “io” autobiografico e prepotente e un “egli” nebbioso, lontano e frigido, rappresenta per me, in questo momento una liberazione», scrive nel 1967.
La lentezza artigianale dell’analisi coniugata alla cristallina lucidità della sintesi, una scrittura che riflette la fatica triste e fredda del pensiero, l’apparente semplicità, l’autodenigrazione come strategia di difesa e di captatio benevolentiae, una soggettività che non è mai autosufficiente ma che risponde sempre a una razionalità impersonale, l’empatia verso personaggi femminili che si piegano ma non si spezzano mai, gli stupori della felicità che costellano le sue pagine come epifanie improvvise.
Di tutte queste cose, in tempi come quelli attuali, nei quali i libri nascono a tavolino nelle scuole di scrittura, e nei quali ognuno pensa che il proprio vissuto sia la totalità del mondo, si sente tanto la mancanza.
E infine basta. Non aggiungo più niente sulla Ginzburg. A lei non piacerebbe stare troppo sotto i riflettori.