Come nasce, cresce e finisce una crisi economica

-di Daniele Milazzo –

Fallimento delle banche commerciali e di credito, calo dei mutui immobiliari, stretta del credito, chiusura di piccole e medie imprese; aumento dei prezzi e deflazione della valuta perché troppo stabile, salari rigidi, inoccupazione crescente. Poi aumento esponenziale del debito pubblico, rendimento dei titoli statali aumentato per cercare di rastrellare credito e obbligazioni statali pagate in ritardo; e ancora, politica fiscale inefficiente, crisi di liquidità. Sembra un riassunto della situazione attuale, ma è quanto accaduto a Firenze a metà del ‘300.

Anche allora la crisi parte dall’estero: il fallimento delle spedizioni inglesi contro la Francia, nello specifico, e l’insolvibilità di Edoardo III verso i banchieri fiorentini sono un punto d’inizio. La crisi inglese implicava meno lana per l’esportazione a Firenze, che a sua volta

Edward III (Cassell's History of England - Century Edition)

Edward III (Cassell’s History of England – Century Edition)

avrebbe avuto una minore quantità di pannilana da rivendere nei mercati delle Fiandre. I pagamenti per le compagnie mercenarie assoldate da Firenze nella guerra contro gli scaligeri (1336-38) e Lucca (1341-43) avevano innalzato il debito pubblico da circa 50mila a oltre 600mila fiorini. La scelta politica di scostarsi dal tradizionale campo guelfo provocò tensioni con il campione del guelfismo, re Roberto di Napoli, e la corsa al ritiro dei depositi monetari dei possidenti napoletani nelle filiali bancarie fiorentine.

Nel 1341 falliscono le banche degli Acciaiuoli, dei Corsini, dei Bonaccorsi, dei Cocchi, degli Antellesi, dei Da Uzzano e dei Perendoli. A subire la crisi, oltre ai banchieri, è il popolo comune: artigiani e operai perdono lavori, le piccole imprese chiudono battenti in assenza di credito, i prezzi aumentano. Le banche cercano di rientrare dagli investimenti rischiosi e prestano denaro solo con garanzie sempre più alte.

Lotte e tensioni tra i par

titi tradizionali vedono sempre più larghe fasce della città ad auspicare un governo terzo, non di breve durata, con un uomo forte che rimetta le cose a posto; i precedenti amministratori sono troppo spesso invischiati in casi di corruzioni, favoritismi e inettitudine per essere considerati una scelta affidabile.

Nel 1342 è chiamato al governo della città Gautier de Brienne, all’italiana Gualtieri VI di Brienne: una scelta per rappacificare i rapporti con Napoli, in quanto vedovo di Margherita, nipote del re Roberto, e per affidare il governo a un podestà che fosse esterno al mondo dei partiti. Ricordato anche come Duca d’Atene, aumentò la pressione fiscale per cercare di coprire la voragine finanziaria, riuscendo a inimicarsi banchieri e popolino con le prestanze, ovvero prelievi forzosi dai conti bancari dei privati dalla dubbia futura restituzione. Per i cattivi raccolti il prezzo del grano salì a 20 soldi per staio, causando malcontento nel popolo, che iniziò a protestare per le piazze. Come sia finita lo ricorda chi passa per via de’ Calzaiuoli, dove si vede ancora infissa al muro una targa che nomina Gualtieri e la sua “mala ambizione”.

Andrea Orcagna, la cacciata del duca d'atene, affersco staccato dal carcere delle stinche

Andrea Orcagna, la cacciata del duca d’atene, affersco staccato dal carcere delle stinche

Per dare liquidità alle casse comunali viene dichiarata le negoziabilità dei titoli di debito pubblico, che possono così essere messi sul mercato e acquistati da banche e privati, ma lo scarso interesse all’acquisto ne fa crollare il valore, aggravando la situazione. Il rincaro dell’argento rispetto all’oro comportava la scomparsa delle monete, fuse e portate nei mercati del Levante per essere scambiate in oro a un rapporto più favorevole, ma causando una deflazione localmente; inoltre, se i grandi mercanti si facevano pagare in fiorini d’oro, gli operai erano pagati in quattrini d’argento. Per avere un’idea di come funzionasse il meccanismo del bimetallismo oro-argento basta citare uno slogan di qualche anno fa: “salari in lire, prezzi in euro”.

Nel 1343 fallisce la banca dei Bardi e nel 1346 quella dei Peruzzi, le principali della città, con un crack complessivo di oltre un milione e mezzo di fiorini – e al peso di 3,5 grammi in oro per moneta, significa un valore di cinque tonnellate e duecentocinquanta quintali del biondo metallo. Il 22 febbraio 1345 il comune annuncia che «non est possibile restituere predicti creditoribus ea que recipere debent»: è la dichiarazione ufficiale di bancarotta della città.

Ricordate lo scambio di battute di Frankenstein Junior? «Potrebbe andare peggio». «E come?» «Potrebbe piovere». E in effetti piovve. Continuamente. Così tanto da causare inondazioni e rendere impossibile la semina e dare il peggior raccolto del secolo, «e sarebbe il popolo morto di fame, se non fosse la larga e buona provedenza fatta per lo Comune» che inasprì le tasse e fece ulteriori debiti per importare granaglie da Sicilia, Sardegna, Algeria e Tunisia, non toccate dalla carestia, causando tensioni con Pisa e Genova, che trattenevano nei porti grano e orzo acquistati da Firenze per riempire i loro granai, e per «paura che non mancasse la vittuaglia» i fiorentini «mandarono in Romagna a farne venire con gran costo e interesso del nostro Comune». Il rincaro dei prezzi fu immediato e continuo. Uno staio di grano passò in pochi mesi da 30 soldi a un fiorino, ovvero a 62 soldi.

Potrebbe andare peggio di così? Si. Nel 1347 arrivò la peste nera. Nella Firenze indebolita dalla carestia la popolazione della città passo da circa 90.000 a meno di 45mila abitanti nell’agosto del 1348. Come ha fatto la città a riprendersi?

Cinismo malthusiano: dimezzare gli abitanti significa dimezzare il numero di bocche da sfamare. A fine anno il prezzo del grano scese a venti soldi lo staio. Altrettanto cinicamente, il reddito pro capite, dimezzandosi la popolazione, era raddoppiato. Alcune delle grandi famiglie erano scomparse completamente, e i loro beni ereditati da rami collaterali, incamerati dal comune o dai monasteri. Il prezzo degli immobili e degli affitti, già calato del 50% durante la crisi, scese ulteriormente: meno abitanti voleva dire meno case occupate. Meno case, più spazio: le abitazioni, specie quelle vicino alle mura, furono abbattute e altre vennero ricostruite più larghe. La scarsità della popolazione costrinse le aziende a pagare salari più alti per mantenere gli operai, soprattutto quelli specializzati, e a investire nella meccanizzazione, ora più remunerativa del lavoro manuale. Le corporazioni ammisero nuovi membri per rimpolpare le loro fila. I sopravvissuti iniziarono a spendere le loro sostanze favorendo bottegai e commercianti delle Arti Minori, mentre i rappresentanti del grande commercio, arricchitisi durante la crisi, vedevano i loro affari languire. La fuga durante la peste di notabili, dottori, insegnanti, medici, giudici spinse molti nuovi ricchi a studiare e istruirsi, potendone sopportare i costi, aprendo carriere che fino a pochi anni prima sarebbero state improbabili.

Sono i semi del Rinascimento. A secoli di distanza, sapendo come sono andate a finire le cose, la peste è stata quasi una soluzione drastica alla crisi. Quasi, appunto. Se peggio di così non si può andare, del resto, tocca invertire la tendenza. Ma chi auspicherebbe oggi una peste nella speranza di risolvere la crisi?

 

Consigli per approfondire l’argomento:

per la parte storico-finanziaria:
Carlo M. Cipolla, Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel 1300, Bologna 2013 (1982).
Bernardino Barbadoro, Le finanze della Repubblica fiorentina, imposta diretta e debito pubblico fino alla istituzione del Monte, Firenze 1929.
Edwin S. Hunt, The Medieval Super-Companies: A Study of the Peruzzi Company of Florence, Cambridge 2002.
per la parte storica:
Giovanni Villani, Nuova Chronica, ed. cr. a cura di Giovanni Porta, Parma, 1991.

 

Immagine di copertina: particolare de Gli usurai di Marinus van Reymerswaele

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