-di Daniele Milazzo-
Perché una leader femminista porta un velo. Perché una casa di moda italiana lancia una collezione di abiti tradizionalisti con velo. Perché una tradizione si trasforma in simbolo religioso da difendere per affermarsi come propria radice culturale.
È il 7 ottobre 2011. Tawakkul Karman ha 32 anni. È yemenita, è la prima donna araba e la persona più giovane a ricevere il Premio Nobel per la Pace «per la sua battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace». E porta un velo.

48th Munich Security Conference 2012: Tawakkul Karman, Nobel per la pace 2011, giornalista, durante il suo intervento
Dei giornalisti le hanno chiesto perché. Come mai lei, colta, istruita, leader di un movimento femminile che ha lottato contro una dittatura, soprannominata “madre della rivoluzione” e “donna di ferro”, indossa un velo che le copre il capo? «Gli uomini nei loro primi giorni erano seminudi» ha risposto «e con l’evoluzione hanno iniziato a vestirsi. Chi sono io oggi e ciò che indosso rappresenta il più alto livello di pensiero e civiltà che l’uomo ha raggiunto, non è una regressione. È la rimozione di un vestito che fa regredire gli uomini ai tempi passati».
È il primo febbraio 2012. Nazma Khan, nata in Bangladesh e emigrata a New York a undici anni, lancia il primo World Hijab Day. Un giorno in cui invitare donne non musulmane a provare ad indossare l’hijab almeno una volta, per dimostrare che il velo è una libera scelta. «Una donna non dovrebbe essere criticata o vista in modo diverso per ciò che sceglie di indossare» ha detto Nazma «Sono cresciuta nel Bronx, a New York, e ho sperimentato sulla mia pelle la discriminazione. A scuola mi chiamavano “batman” o “ninja”. Quando sono entrata all’università, dopo l’11 settembre, mi chiamavano “Osama bin Laden” o “terrorista”. Era terribile».
È la prima settimana di gennaio 2016. Dolce & Gabbana lancia su Vogue l’Abaya collection: abiti lunghi, neri, con un velo per coprire il capo. “La mossa più intelligente degli ultimi anni” secondo il magazine Forbes : D&G ha già 13 negozi solo negli Emirati arabi, nel 2015 le vendite per beni di lusso personali nel medio oriente hanno raggiunto la quota di 8,7 miliardi di dollari e la Thomson Reuters stima in 500 miliardi di dollari la spesa per la moda nel mondo musulmano nel 2019.
Come è stata accolta la mossa di D&G? Bene e male. Bene dai media occidentali, che lodano la capacità di trarre profitto da un mercato. Male dalle (numerose) fashion blogger e case di moda musulmane, e non solo perché vedono un concorrente. Un esempio su tutte è la reazione di Dina Torkia, fashion blogger musulmana e britannica: «Sognavo il giorno in cui una casa di moda ci riconoscesse e creasse dei prodotti per noi. Ma il mio sogno non era una linea di abaya tradizionali ricamati e sciarpe da abbinare, qualcosa con la quale sono cresciuta e che le donne musulmane conoscono fin troppo bene. Sognavo di poter vedere dei capi di haute couture, e se con questa collezione D&G riconosce la nostra esistenza, è riuscita anche ad escluderci».
Se il velo non è una imposizione religiosa o familiare, se è un elemento culturale e sociale, perché sempre più donne musulmane che vivono in paesi occidentali scelgono di indossarlo? C’è una risposta: per noi occidentali.
Sconsigliato in Egitto dal 1899, proibito in Turchia insieme al fez nel 1921, reso illegale in Iran sotto lo shah nel 1936, scoraggiato in Marocco dal 1947, proibito nei luoghi pubblici in Tunisia dal 1956: a metà anni ’60 il velo era indossato solo da una parte minoritaria delle donne musulmane. Insieme alle idee nazionali negli anni ’20 e ’30 prende piede nei paesi arabi il movimento al-Sufūr, “svelamento”, in cui si incoraggiavano le donne a “occidentalizzarsi” per prendere parte ai movimenti nazionali. Con una contraddizione. I movimenti nazionali mediorientali non possono che essere anticoloniali: e visto che i colonialisti siamo noi, i movimenti nazionali erano contrari alla tafarnaja, l’“europeanizzazione”.
Cosa è cambiato da allora? C’è stata rivoluzione islamica in Iran.
Franco Cardini racconta le reazioni degli studenti quando nel febbraio 1979 insegnava a Parigi e Khomeini, in ottimo francese, arringava la folla prima di ritornare dal suo esilio. Per alcuni era un uomo di sinistra, per altri un reazionario, ma nessuno sapeva che era un allievo di Ali Shariati. Quest’ultimo era un sociologo di formazione marxista, laureatosi alla Sorbona, amico di Sartre, che ha unito il tradizionalismo rurale sciita alla lotta per la decolonizzazione e la giustizia sociale. La lotta al gharbzadegi, l’“intossicazione da occidentalizzazione” unisce l’idea socialista della lotta di classe per l’appropriazione della produttività economica al rifiuto delle mode e dei vestiti occidentali, visti come prodotti-spazzatura creati dall’occidente per essere venduti nel resto del mondo. Con un’occhio al ruolo femminile nella nuova società rivoluzionaria islamica: la donna, per Shariati, è stata vista finora come merce sessuale che passa dal padrone padre al nuovo padrone cui il padre la vende; la donna modernista che imita il modello occidentale cade in un mimetismo caricaturale che la rende schiava di un modello esterno alla propria cultura, alienandola; le nuove donne musulmane dovranno costruirsi una identità propria attraverso la riscoperta delle proprie radici. Il modello indicato da Shariati è Fatima, la figlia del profeta Maometto, pensata secondo il motto «Fatima è Fatima, non è “figlia di” o “moglie di” o “madre di”: è solo Fatima».
Alla fine del 1979 l’Afghanistan è invaso dalle truppe sovietiche. Gli Stati Uniti non possono appoggiare i militanti sciiti, legati all’Iran rivoluzionario che ha ancora in ostaggio i membri dell’ambasciata USA a Teheran, quindi decidono di sostenere i mujaheddin sunniti con l’appoggio di Pakistan e Arabia Saudita. È così che è stato finanziato il movimento wahhabita, in precedenza limitato ad alcune zone di Arabia Saudita e Yemen e ora largamente diffuso. Il wahhabismo segue una interpretazione bigotta e letterale del Corano, ed è alla base del fondamentalismo islamico.
Il velo torna a essere di moda. Da una parte risponde a un desiderio diffuso di ritorno alla purezza originaria della propria religione, dall’altro diventa un rifiuto della globalizzazione occidentalizzante.
«Meglio velate che veline»: leggere forum, discussioni e commenti di ragazze musulmane in Italia è interessante. Si elencano le discriminazioni cui si viene sottoposte dagli italiani, si depreca l’attitudine di tv e giornali a mostrare le donne come oggetti di mercificazione sessuale. Si commenta il fatto che nessuno chieda che alle suore sia vietato l’uso del velo con «Due pesi e due misure. Come al solito». Ci si chiede come mai le loro amiche «nella loro arroganza di donne occidentali (od occidentalizzate), debbano pensare, guardandoci velate, che ciò che non piace a loro debba per forza non piacere neppure a noi». Nei video su youtube in cui queste ragazze parlano della loro scelta di indossare l’hijab – in alcuni casi avversata da “genitori modernisti” – i commenti razzisti e xenofobi da parte degli italiani sono la maggioranza. Leggerli è umiliante. Si va dalle citazioni di Oriana Fallaci agli insulti come “musulcani”, dalle accuse di terrorismo a “tu non puoi dirti italiana”.
Quest’ultima accusa è il motivo per cui molte scelgono di indossare un velo. È un misto di orgoglio ferito, di lotta contro una cultura che si sente esterna alle proprie tradizioni, vere o presunte che siano, di voler mostrare il loro diritto a essere differenti in un mondo in cui questo diritto è tutelato.
C’è un’altra donna premiata con il Nobel per la Pace. È Shirin ʿEbādi, iraniana, che lo ha ricevuto nel 2003 per la sua lotta in favore dei diritti umani e delle donne vittime di abusi. Intervistata in Italia nel 2015 sul fatto che molte ragazze nate in paesi occidentali scelgono di portare il velo, ha detto che «le nuove generazioni di immigrati fanno di tutto per conservare e valorizzare le loro radici. Questa rigidità è conseguenza del fatto che queste donne non si sentono accettate nella società occidentale e cercano un’identità nelle loro comunità d’origine. Ne può derivare una chiusura verso il mondo in cui vivono. Una condizione che diventa terreno fertile per il radicalismo e forme di odio più estreme».
Foto di copertina: Dina Torkia (http://www.daysofdoll.com/)