-di Nadia Pastorcich – “Solo orecchie per ascoltare, cogliere i gemiti e trascriverli”. Monica Guerritore lo ha fatto. Fin dalle prime pagine del libro “Quel che so di lei. Donne prigioniere di amori straordinari” (Longanesi, 2019) si è aperta all’ascolto, lasciandosi guidare dalla percezione e dalla sensibilità per dare voce a una donna che in qualche modo è entrata nella sua vita: Giulia Trigona, dama di corte della regina Elena di Savoia, moglie del conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia, nonché zia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Perché Giulia? La figura di questa donna incarna un’universalità che ancora oggi ci lega.
Monica Guerritore si è seduta ad osservarla, attraverso lo sguardo di altre donne che l’hanno accompagnata sul palcoscenico. Ognuna comincia a muoversi sfiorando il confine dell’altra per confluire in un unico dramma. Il tutto intrecciato con la vita della stessa Guerritore con quella capacità di trasmettere emozioni e sensazioni in grado di accogliere il lettore in un viaggio mentale e fisico, dove ogni pensiero consolidato si sgretola, lasciando lo spazio a nuovi interrogativi. Interrogativi che lei stessa si pone cercando di avvicinarsi a Giulia.
Era il 26 dicembre 1908, il giorno prima del terremoto di Messina. Poi, nella vita di Giulia, tutto è cambiato, fino a condurla, il 2 marzo 1911, ad una brutale fine in un albergo squallido vicino alla stazione Termini di Roma. Viene spontaneo chiedersi – lo fa la stessa Guerritore – cosa si aspettasse Giulia da quell’ultimo incontro con il suo amante, il suo carnefice. Cosa porta le donne a consegnarsi al proprio assassino, reale o metaforico.
Il fantasma dei personaggi che ha interpretato Monica Guerritore si fa forte, esplicito, vivo durante il susseguirsi narrativo
Sono le sue donne sceniche a parlare assieme a lei, a farci riflettere, a farci abbandonare certe ideologie e ad accostarci a Giulia. A capire che non è solo il gesto finale del suo carnefice ad ucciderla ma tutta una serie di piccole sfumature, a volte impercettibili. Un camminare senza la piena consapevolezza della tragica conclusione.
Teatro e letteratura. Vita e morte
In Giulia c’è il tradimento da parte del marito come in Marianne in “Scene da un matrimonio” di Bergman. «Il dolore dell’abbandono – scrive Monica Guerritore – non nasce solo dalla perdita del proprio compagno, dal tradimento del patto. […] È dolore per la perdita dell’immagine di te stessa». C’è pure la perdita e il cambiamento come avviene nella vita di Ljubov’ Andreevna ne “Il giardino dei ciliegi” di Čechov: «una enorme, profondissima malinconia per le cose perdute mentre, distratti, si attraversa la vita». Tutto ciò che fino ad allora ci ha sostenute si sgretola e i ricordi non hanno più significato. C’è solo il nulla. Ma Giulia ha anche la passione di Gnà Pina ne “La lupa” di Verga. «Il corpo, l’amore carnale che vada a riempire fisicamente un vuoto interiore, una sete che non si placa mai».
E cade come “La signorina Giulia” di Strindberg
« […] Attorno a lei c’è morte: i cadaveri del terremoto, macerie del suo mondo, l’aristocrazia, la sorella. E alghe come braccia a ghermirla dal fondo». Un continuo sbattere contro la gabbia in cui si è state rinchiuse, come Emma Bovary. «[…] la sua gabbia è proprio la sequenza di immagini a cui Emma si abbandona, nell’illusione di una vita altrove». Le stesse illusioni di Giulia bambina che gioca nel giardino con le sorelle. Fino a quando non giunge un momento in cui il sogno infantile scompare e tutto muta.
E poi ci sono loro: Carmen e Oriana Fallaci, “donne sgarbate”, forti, che sbattono il “no” in faccia al mondo degli uomini, spezzando le memorie ottocentesche in cui Giulia si trovava avvolta. Ma compare anche l’audacia di Giulia, a quell’ultimo appuntamento, nel voler lasciare il suo carnefice.
Il lungo viaggio di Monica Guerritore, attraverso diverse figure femminili, termina con “Mariti e mogli” di Woody Allen, trovando “quiete, sorriso e amore, per inventarsi lievi”.
«Giulia – conclude l’autrice – mi ha mostrato il cammino disordinato della sua ricerca di indipendenza e autonomia». Ed è proprio da questa indipendenza ed autonomia che dovremmo partire, per scrivere nuove storie.