Matteo Bini: “Siamo tutti Arlecchino”

NICE USA 2015 MENZIONE SPECIALE DEL PUBBLICO. INTERVISTA ESCLUSIVA AL REGISTA MATTEO BINI

-di Tommaso Tronconi-

 Abbiamo incontrato Matteo Bini per parlare del suo film, degli italiani all’estero e del rapporto che intratteniamo con le nostre basi culturali.

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Il regista Matteo Bini

Classe 1983, bergamasco, Matteo Bini è tra i più giovani esordienti al lungometraggio del cinema italiano. Dopo anni di studio e lavoro in Italia, ora abita all’estero, a Londra, ma per il suo debutto alla regia è tornato in Italia. Io, Arlecchino, diretto a quattro mani con l’attore Giorgio Pasotti (Distretto di polizia, L’ultimo bacio, Dopo mezzanotte), dietro un tormentato ma amorevole rapporto padre-figlio nasconde una riflessione importante sulla cultura, sull’odi et amo che ci riguarda tutti quando ci voltiamo verso le nostre origini culturali e artistiche, in questo caso la Commedia dell’Arte.
Protagonista del film è Paolo (Giorgio Pasotti), noto conduttore di un talk show televisivo, che viene raggiunto a Roma da una telefonata inaspettata: suo padre, Giovanni (Roberto Herlitzka), è gravemente ammalato ed è stato ricoverato in ospedale. Costretto a tornare nel piccolo villaggio medievale di Cornello del Tasso, nella provincia di Bergamo, Paolo scopre una realtà distante dal suo mestiere di show man: la Commedia dell’Arte, di cui suo padre è un famoso Arlecchino. Il ritorno a casa è l’inizio di una riscoperta delle sue, anzi delle nostre, origini culturali.
Abbiamo incontrato Matteo Bini in occasione della presentazione del suo film a Firenze il 20 ottobre scorso. Ecco cosa ci ha raccontato.

Prenderei le mosse dal titolo di questo tuo film d’esordio Io, Arlecchino. Partiamo da quell’ Io. Chi è Matteo Bini? Come ti sei avviato al cinema?

Vengo da una formazione di montatore cinematografico. Ho studiato alle Scuole Civiche di Milano, ho fatto un corso di montaggio subito dopo le scuole superiori e da lì ho iniziato a lavorare in televisione. Sono passato per Sky, Mediaset, Rai, La7.

Di cosa ti occupavi?

Ho montato gli highlights delle partite del campionato per la Rai, ho fatto una piccolissima parentesi a Striscia la Notizia, qualcosa con Chiambretti su La7. Facevo un montaggio che non era un montaggio narrativo e cinematografico. Quindi ho capito che la televisione non era il mio ambiente. Ho deciso di smettere e intraprendere la carriera del libero professionista e ho iniziato a montare con Officina della Comunicazione, che poi produrrà Io, Arlecchino. Con loro ho fatto vari documentari diretti da Salvatore Nocita, che è ancora un grandissimo regista, che ha lavorato nella Rai degli anni d’oro, suoi gli sceneggiati I Promessi Sposi con Alberto Sordi o Ligabue con Flavio Bucci. Con lui ho fatto un documentario su Papa Giovanni, uno su Leonardo da Vinci, e lì ho cominciato a capire chi è il montatore, che in un documentario è partecipe alla scrittura del film. Nel frattempo ho fondato una casa di produzione a Bergamo, la Oki Doki Film, che tutt’ora è attiva e si occupa di produzioni televisive. L’ho lasciata nel 2010 quando ho deciso di partire per Londra, dove ora vivo. A Londra mi hanno preso alla National Film and Television School, dove ho approfondito ulteriormente il montaggio cinematografico e mi si è aperto un mondo che non conoscevo.

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Giorgio Pasotti e Matteo Bini sul set di “Io, Arlecchino”

Questa esperienza ti ha aperto alla regia di Io, Arlecchino?

Paradossalmente i produttori, con cui sono sempre rimasto in contatto, mi hanno chiamato dicendo che stavano lavorando su un film e mi chiedono se voglio metterci mano come sceneggiatore e regista. Sapevano che a Londra stavo facendo un percorso interessante. C’era un soggetto scritto da Elisabetta Sola dove c’erano alcuni elementi che poi sono rimasti, come la storia padre-figlio e l’idea del ritorno nel villaggio.

L’incontro con Giorgio Pasotti come è avvenuto?

Anche lui aveva diretto delle piccole cose, come corti o videoclip. Anche lui sentiva questo attaccamento a questa storia. All’inizio si era ventilata l’idea di darla a qualcuno di grande e di famoso, poi invece ci siamo detti: “Siamo due debuttanti, forse non pronti a fare il passo da soli, ma magari insieme ci completiamo a vicenda”.

Come si fa a dirigere un film in due? Ci si pesta un po’ i piedi l’un l’altro?

All’inizio ero scettico, è un po’ come guidare una macchina ed essere in due al volante: ti schianti contro un muro. La fortuna invece è stata quella che avevamo chiaro che tipo di film volevamo fare, un film dai toni delicati, con un sapore da favola…

Quindi pur non conoscendovi prima vi siete trovati d’accordo…

Sì sì, ovviamente capisci che c’è un’unità d’intenti. Il fatto di avere la stessa sensibilità ha favorito il dialogo. Si pianificava molto tutto.

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Roberto Herlitzka in una scena di “Io, Arlecchino”

La commedia dell’arte era teatro d’attore. Come è stato lavorare con Roberto Herlitzka, gigante del teatro e del cinema italiano?

Roberto Herlitzka è un attore eccezionale e un uomo ancora più eccezionale. Lui è arrivato dicendo: “Io non ho mai fatto Arlecchino ma sono pronto ad impararlo”. Perciò grazie a Eugenio De Giorgi, che è un vero commediante dell’arte, ha fatto un training di vari giorni. Roberto ha la modestia dei grandi attori.

Come è nata l’dea di affiancare il mondo della televisione alla commedia dell’arte?

Io ho lavorato in Inghilterra su un documentario, Girlfriend in a Coma, sull’Italia vista dall’estero, e lì c’era una parentesi sulla televisione. Giunti a fare Io, Arlecchino ci siamo detti che sarebbe stato bello che il protagonista fosse un presentatore tv di un programma becero. Perché c’era un po’ l’idea di guardare all’Italia degli ultimi vent’anni, che è stata governata da un uomo proprietario delle televisioni. L’immagine in sé ha un potere fortissimo nel pretendere di darti il senso delle cose. Perciò l’idea di avere un protagonista che fosse di quel mondo di primi piani, di sorrisi che si spacciano per veri e autentici quando invece sono un mondo di maschere nel senso negativo del termine era un’idea che mi stimolava molto. Dall’altra, invece, le maschere della commedia dell’arte che sono degli ingressi che ti aprono ad una dimensione di identità universale. Perciò mi piaceva avere un personaggio come Paolo (interpretato da Giorgio Pasotti) che vive della sua immagine, padrone della diretta televisiva e del tempo, e che con una maschera scopre che forse la vita e la cultura non sono l’ “io”, ma siamo un po’ tutti noi Arlecchino. C’è la responsabilità di ognuno nel custodire i tesori che sono della nostra cultura. E Paolo scopre anche una nuova dimensione del tempo, che si apre ad un discorso di generazioni, e questo è un discorso puramente culturale.

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Giorgio Pasotti con la maschera di Arlecchino

La cultura ci salverà?

Abbiamo una responsabilità. Arlecchino vivrà se c’è un pubblico che andrà a vederlo, se c’è qualcuno che ne scriverà. La cultura non sopravvivrà da sola, si salverà se c’è qualcuno che se ne prende cura. Ovviamente quando parliamo di cultura l’ottica dello share e del “quanto vende” è un approccio sbagliato. È ovvio che all’inizio dobbiamo essere disposti a perdere qualcosa…

Proviamo ora a passare a Matteo Bini “Arlecchino”. Arlecchino va da Bergamo al mondo, tu da Bergamo, dove sei nato, a Londra. Quanto ti senti Arlecchino? Come ti senti da italiano all’estero?

Quando sono all’estero mi rendo conto che noi Italiani siamo degli Arlecchino, anche semplicemente nel modo in cui usiamo il nostro corpo, credo sia un retaggio della Commedia dell’Arte. Parliamo con il corpo, con i gesti.

Le tue radici comunque le senti italiane?

Assolutamente sì. Anzi credo che a Londra l’Italiano ancora viene visto, soprattutto in campo cinematografico, come una persona di grande talento, che ha una grande storia cinematografica, una grande sensibilità. Ci sono tanti amici, montatori italiani che hanno studiato dove ho studiato io, che stanno facendo strada, che stanno lavorando con Ridley Scott, Stephen Frears, che adesso sono diventati dei punti di riferimento nel cinema non solo inglese ma internazionale.

Con questo tuo occhio estero e dall’estero, come ti pare che ci relazioniamo con le nostre basi culturali? Ne abbiamo paura, ci vergogniamo a metterle in scena?

Se Arlecchino fosse stato americano probabilmente ci sarebbe già un cartone animato, una serie tv e un film. Molte volte noi magari non siamo capaci di credere nei grandi tesori che abbiamo e che sono lì, sono la nostra storia, e non li sfruttiamo pienamente.

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Una scena di “Io, Arlecchino”

Il tuo film non ha avuto molta fortuna in Italia, ma dei buonissimi riscontri da parte di chi l’ha visto…

L’impressione che abbiamo avuto ogni volta che abbiamo presentato Io, Arlecchino, per i pochi che hanno avuto la fortuna di vederlo, è che fosse un film che poteva creare una sorta di passaparola. Però se a un film non gli dai gli strumenti per far crescere questo passaparola è logico che non va da nessuna parte.

Pensi che in Italia non siamo capaci di valorizzare quanto creiamo?

Mi rimprovero che non abbiamo creduto che questo film potesse avere una piccola chance. Non stiamo parlando di essere distribuiti in 700 copie, ma anche solo in 100 copie, con un minimo di investimento nella pubblicità, magari questo film avrebbe riservato delle sorprese.

Cosa hai in serbo per il futuro? Un nuovo film di “stampo culturale”?

C’è una storia su cui ho deciso di lavorare. Una storia che ho in testa da diversi anni, molto diversa da Io, Arlecchino. Una storia che mi porterebbe in Israele, che ha come base un discorso di memoria, di tradizioni, di due memorie che si trovano a scontrarsi. Un film che vorrebbe parlare di cos’è la verità. Parlerebbe di tematiche grandi, come una terra lacerata da un conflitto oramai centenario, ma raccontate attraverso la storia di due personaggi. Questa è una delle storie su cui vorrò lavorare per il cinema. E mi piacerebbe che fosse un film coprodotto con Officina della Comunicazione, ma girato con una produzione magari inglese partendo già con un’ottica di distribuzione internazionale.

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