Mi lascio scivolare stanco sul divano. Oggi è mercoledì, e alle molte sedute si è aggiunto un incontro di gruppo che si è protratto per ore.
In casa dormono tutti. Prendo silenziosamente la cena dalla cucina e la porto in soggiorno. Così mentre mangio guardo un po’ di televisione.
Di solito mi soffermo sul telegiornale o su qualche documentario, raramente guardo uno spezzone di film.
Inizio lo zapping…
Qualche istante di tg… il solito vuoto della politica. La cronaca viene dopo. Nel frattempo allungo il tiro verso altri canali. Niente d’interessante. Passo sul satellite.
Film ormai cominciati da troppo tempo, trasmissioni sui lavori sporchi, ricette di cucina e avventure varie. Troppo impegnativi. Io adoro i documentari di animali, o quelli in cui si vede il mare blu, o la storia dell’universo.
E’ tardi, consumo la cena… ma c’è qualcosa… come un segnale che arriva da lontano. Che non mi lascia in pace.
Mi fermo in ascolto.
Poi lentamente comincio a ricordare. Oggi è il 27 gennaio!
Ero un ragazzo di sedici anni. Vivevo con la mia famiglia nel rione alto della città, la Civitella. Al sabato sera avevo il permesso di restare fuori fino a mezzanotte. Così potevo frequentare gli amici, giocare a scacchi al circolo ENAL o guardare la televisione nella grande sala pubblica dello stesso circolo ricreativo.
Ma l’ENAL accoglieva anche altre sale e altre attività: il biliardo, una biblioteca, delle salette per giocare a carte, un bar… un cinema.
Quella sera d’autunno uscii dopo cena alla nebbia soffusa. Era un sabato di novembre e andai in cerca degli amici, ma non li trovai. Feci un giro nella sala TV ma non c’era niente d’interessante, così tornai fuori e m’incamminai sul viale che dalla Piazza della Trinità porta verso la Villa Comunale, il viale dei tigli. Fu allora che mi cadde lo sguardo sul cartellone della programmazione cinematografica. Veniva proposto un documentario di guerra. Su quella che avevo vissuto da bambino e le cui conseguenze avevo patito per anni. La guerra che mio padre aveva fatto da cima a fondo, compresi gli anni di prigionia in Germania.
Quella volta non c’era la televisione digitale e gli schermi televisivi erano piccoli e in bianco e nero. C’era un unico canale che trasmetteva al pomeriggio e alla sera. I documentari erano una rarità, perciò fui immediatamente attratto da quel documentario al cinema.
Era l’autunno del 1959. La guerra era finita appena tredici anni prima. Frequentavo la terza geometri e avevo il cuore colmo di sogni. Quella volta si usava molto sognare e progettare. Perché c’era ancora la speranza. Esisteva il futuro.
Frugai le tasche della giacca e dei pantaloni per mettere insieme i soldini per il biglietto del cinema. Ed entrai.
Il film era già cominciato. Mi sistemai in una fila in fondo alla sala, lontano dallo schermo. E subito cominciai a spaventarmi per quelle scene così crude e orrende.
Il documentario di guerra, di fatto, era interamente dedicato allo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Per tutto il tempo della proiezione restai incollato alla poltrona senza muovermi, quasi senza respirare.
Avevo già sentito parlare dell’olocausto, ma fino a quella sera non avevo mai visto una sola immagine dello scempio.
Il film a colori enfatizzava tutto l’orrore della narrazione, che mi arrivò senza filtri. In modo crudo e violento, senza veli né censure.
Vidi cose che non mi aspettavo di vedere. Persone ridotte allo scheletro che vagavano per il campo senza meta, uomini che se ne stavano seduti per terra armeggiando con poveri oggetti sporchi e laceri. Esseri umani coperti a mala pena da qualche camicia logora e pantaloni diventati troppo larghi. Senza più la capacità di percepire il freddo, la neve, il gelo…
Ho visto bambini seduti su una panca con l’espressione allarmata e lo sguardo attento ai movimenti degli aguzzini che di lì a poco avrebbero inflitto loro ogni sorta di sevizia e di mutilazione, in nome di orribili esperimenti ‘scientifici’ e ‘medici’.
Lunghi treni con vagoni per il trasporto del bestiame sbarcavano continuamente persone ancora dotate di sembianze umane. Che venivano smistate all’arrivo e avviate verso l’orrore, a volte senza che nemmeno ne avessero coscienza.
Le donne… i vecchi… mio Dio…
Dio mio…
Donne ridotte pelle e ossa costrette a lavorare fino allo stremo o a darsi agli aguzzini per un comando ricevuto o per un tozzo di pane lanciato per terra come si farebbe con gli animali…
Ero pietrificato.
Davanti a quelle immagini di assurda violenza la mia coscienza di giovane ragazzo si ribellò, la mia mente e la mia sensibilità urlarono forte.
Non poteva essere vero che degli esseri umani avessero fatto quelle cose ad altri esseri umani… no! Non poteva essere vero. Io stesso ero un essere umano come quelli che subivano, come quelli che infliggevano.
Alla fine arrivarono i russi liberatori che increduli filmavano i reticolati prima di entrare nello spazio della morte. Filmavano quegli orrori per documentare vicende spaventose. Tutto venne filmato, documentato, visto e toccato con mani pietose. Eppure ancora oggi, davanti a quei documenti, alle baracche e ai forni crematori ancora in piedi, c’è chi ha il coraggio di negare che tutto questo sia avvenuto!
Avevo sedici anni e mi sentivo già grande, come usava allora. Ma quel documentario mi fece diventare più serio, cupo, e preoccupato della vita.
Da allora sono trascorsi molti anni. Ma non ho dimenticato. E spesso ripenso, ancora oggi, alla ferita che quelle immagini hanno aperto nella mia mente.
Io ero molto amato da tutti: nonni, parenti, genitori, fratelli, zii, cugini, vicini di casa, conoscenti e amici… e ricordo che il giorno successivo a quella proiezione osservai a lungo le persone del mio mondo. La gente, i compagni di scuola, i conoscenti, i passanti… ma soprattutto i miei familiari, i miei cari. E mille volte ho provato a immaginare una sequenza che vedeva me e loro nella situazione di quei poveri deportati.
Ho provato a immaginare di essere prelevato nel cuore della notte, sradicato e stipato in un freddo vagone per trasporto animali per essere portato nell’orrore della schiavitù più crudele e inumana. Ogni volta ho dovuto interrompere quel terribile pensiero, perché la sofferenza era troppo grande e intollerabile. E si trattava solo di una fantasia…
Spesso mi sono interrogato se i miei comportamenti siano più simili a quelli delle vittime o a quelli degli aguzzini. E con molta onestà ho dovuto rispondermi che spesso, forse troppo spesso, la mia vita è impastata di egoismo e crudeltà. Mettendomi così dalla parte dei carcerieri.
Solo quando riesco ad essere altruista, quando aiuto qualcuno a portare il carico della vita, quando piango per l’altrui dolore, quando ho pietà e provo amore. Solo quando credo nella forza della solidarietà. Quando prego quel Dio che è unico per tutti i popoli… solo quando ripenso a quella sera d’autunno con commozione… solo in questi casi mi schiero dalla parte dei sofferenti. Degli innocenti che hanno sofferto l’accanimento di altri uomini.
È di qualche tempo fa la notizia che molti giovani tedeschi percepiscono minacce alla pace provenire più dallo stato d’Israele che da altri stati! E’ colpa della politica. Perché la politica è manipolazione.
Io penso che la politica generi odio. La mia nonna contadina diceva che la politica serve per ingrassare i politici.
Propongo dunque di abolire la politica! E di marciare tutti uniti verso la crescita delle coscienze, utilizzando l’affetto come arma, piuttosto che le fredde e inutili regole dell’egoismo che stanno alla base della politica.
La politica fabbrica guerre e baionette, bombe e cannoni e carri armati.
Ma la stessa politica genera anche gli aeroplani da guerra. E io quelli li ho pilotati.
Credo perciò che continuerò a interrogarmi per tutta la vita sul significato di questa mia contraddizione. Odio la politica, ma se c’è da salire su un aeroplano militare corro di volata…
Sono diventato ufficiale pilota osservatore dell’aviazione dell’esercito per colpire il nemico. Quello che fin da bambino ho identificato col nazista che con i suoi carichi di morte veniva a bombardare la mia famiglia e la mia terra. Lo stesso che ha torturato e ucciso un popolo intero. In nome della crudeltà.
Così non ho porto l’altra guancia. Non ne sono stato capace.
Dio! dammi la forza di perdonare. E di perdonare me stesso per tutte le volte in cui ho tradito la promessa di essere buono e di non rispondere alla violenza con la violenza.
Mario, sapessi come capisco questo tuo tormento. Io stessa mi sono interrogata tante volte su come mi sarei comportata in certe situazioni, e non riesco a darmi una risposta
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grazie direttore per questo tuo commento!
il male è banale… perciò non dovrebbe esistere.
ma è ingenuo credere che un giorno possa finire.
il bene, come il male, accompagna perennemente l’umanità e la sua condizione esistenziale.
perciò dobbiamo attrezzarci, e attrezzare i nostri figli, per fronteggiare al meglio la catastrofe.
per restare in piedi anche quando la tempesta della stupidità infuria pazzamente.
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“Quella volta si usava molto sognare e progettare. Perché c’era ancora la speranza. Esisteva il futuro.”… E oggi?… Tutti gli indizi convergono verso una futura umanità intrisa di stupidità e superficialità. Forse si può sperare in un miracolo, ma mi sambra più utile rendersi conto che vinceranno l’ignoranza ed il male e che, chi ne ha la possibilità, farà bene a trovare il modo di sopravvivere.
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per vivere in ambiente ostile bisogna diventare partigiani della vita, dell’amore, del sacrificio di sé…
grazie Alessandra!
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Ci sto arrivando a capirlo: non sono l’isolamento e il rifiuto del mondo la soluzione, ma tentare di sentire l’altro, tentare di andare avanti nonostante tutto difendendo la vita. Provare ad accettare e provare ad amare. Provare a lottare quando possibile. Cercare il contenuto, riconoscere le chimere. Perchè la vita, appunto, non è un tappeto di rose.
Grazie a lei dottore!
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ci vuole coraggio per vivere e per crescere.
altrimenti s’invecchia senza vivere, e senza crescere.!
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Proprio così.