INTERVISTA ESCLUSIVA AL REGISTA MARCO PONTECORVO
-di Tommaso Tronconi-
12 ottobre 2006. A dieci anni dalla scomparsa del grande Gillo Pontecorvo, il figlio Marco, anch’egli regista e noto direttore della fotografia di tanto cinema, in esclusiva a Words in Freedom racconta del suo rapporto col papà, tra ricordi e insegnamenti di vita.
Leone d’oro nel 1966 alla Mostra del Cinema di Venezia e Nastro d’Argento nel 1967 per La battaglia di Algeri, David di Donatello come miglior regista nel 1970 per Queimada e nel 1980 per Ogro. Gillo Pontecorvo è stato uno dei più noti registi italiani di sempre, dirigendo attori del calibro di Marlon Brando, Gian Maria Volonté e Yves Montand. Un maestro del cinema che ha trasmesso la sua arte al figlio Marco, giovane e apprezzato regista degli anni Duemila giunto alle luci della ribalta con il sorprendente Pa-ra-da nel 2008. E proprio Marco Pontecorvo, in esclusiva per Words in Freedom, apre lo scrigno dei ricordi e degli insegnamenti, concedendoci un prezioso sguardo più intimo dentro la vita e l’indole di papà Gillo. Ma non solo. Ci parla anche dei suoi progetti futuri e di come vede il cinema italiano di oggi. Ecco cosa ci ha raccontato.
Direttore della fotografia, regista e sceneggiatore. Partiamo con la domanda più banale ma forse anche la più complessa: cos’è per te il cinema?
Il cinema oramai è sovrapposto alla mia vita, perché ho iniziato a fare cinema che avevo sedici anni, andavo ancora a scuola e durante l’estate facevo l’aiuto volontario caricando i magazzini della macchina da presa. È un’enorme passione che si è sviluppata in differenti forme, per questo anche riesco a passare dalla regia alla fotografia, che sono in parte sovrapponibili per quanto riguarda il racconto per immagini. Il cinema è un mezzo per esprimersi, ma è anche un lavoro. Questo io l’ho imparato durante la gavetta, perché ho fatto tutta la gavetta. È un lavoro che adesso mi dà la possibilità di raccontare ed esprimermi, sia con la luce sia con una storia e la direzione degli attori. La cosa fondamentale è cercare di trasmettere emozioni ed emozionarsi.
Parlavi dei tuoi inizi a sedici anni. Come è stato crescere e avviarsi al cinema con papà Gillo, uno dei registi italiani più noti di sempre anche a livello internazionale?
Conoscere il cinema attraverso lui è stato difficile. Noi abbiamo fatto poche cose insieme perché lui ha fatto poco, solo cinque film. Insieme abbiamo fatto un suo cortometraggio, poi qualche pubblicità quando facevo l’assistente operatore, poi il documentario “Ritorno ad Algeri”.
C’è un suo insegnamento che applichi ancora sui tuoi set?
Una delle cose principali che lui c’ha insegnato è il rispetto per quello che tu stai raccontando. È una delle cose più importanti quando ti accosti ad una storia, cioè devi conoscere il tema, andare ad approfondirlo. Mi ricordo che papà diceva spessissimo che prima di scrivere una riga passano sei mesi studiando solo il tema. Ora questa serietà è più rara, quasi non esiste più, anche perché oggi è un altro mondo, che va ad un’altra velocità.
Poi ce ne ha insegnate davvero tante. Anche l’amore per un certo tipo di cinema, di soggetti, per qualcosa che può innescare un dialogo o evidenziare qualcosa che può servire all’accrescimento della società.
E come uomo, non come regista, qual è l’insegnamento che porti ancora con te di tuo padre?
La semplicità.
Lui era una persona semplice…
Assolutamente. Semplice nel senso più nobile del termine. Persino troppo semplice. Ci ha educato, a tutti e tre i figli, con una semplicità quasi non adatta a questa società.
E hai un ricordo che leghi indissolubilmente a tuo padre e al cinema? Ad esempio quando tornava a casa dopo aver fatto un film…
No, al cinema nulla in particolare se non la visita sul set di Ogro che mi colpì particolarmente. Noi abbiamo fatto tante cose insieme, da piantare le piante che era un amore viscerale che lui aveva a tantissimi sport. L’amore per la natura è un’altra cosa che ci ha insegnato, anche l’amore per la vita. Un’altra cosa bellissima era la leggerezza che aveva nell’affrontare tante cose.
Quando hai capito che il cinema era il tuo mestiere, che avresti seguito le orme di tuo padre? È stato un colpo di fulmine o lo hai capito negli anni?
Subito. Mi è sempre piaciuto tantissimo. Un dubbio l’ho avuto all’inizio del primo film, ma già alla fine era sparito, perché facevo l’aiuto operatore e quello che facevi era pulire le cassette, caricare la pellicola, ecc. E allora mi ponevo la domanda se era proprio questo che volevo fare. Ma la risposta, come dicevo, è arrivata verso la seconda metà del film e allora ho incominciato ad amare anche quello, perché faceva parte di un meccanismo più grande dove ognuno, come in un orologio, ha un compito preciso.
Sei stato direttore della fotografia di tanto cinema, ma anche di tante produzioni televisive, molte anche all’estero. Penso su tutte a Il Trono di Spade (Game of Thrones). Cosa pensi delle serie tv? Pensi che siano il nuovo cinema e che il cinema stia “traslocando” sul piccolo schermo?
No, io penso che le due cose siano separate. Però penso anche che tantissimi progetti che non potrebbero prendere vita per qualsiasi motivo, ad esempio economico, perché i film a medio budget sono spariti anche in America, hanno la possibilità di essere raccontati in televisione con dignità e grande professionalità. Nella televisione buona ci sono tanti prodotti veramente belli, raccontati meglio di alcuni film. Penso che bisognerebbe cercare di mirare sempre di più in quella direzione e che il cinema faccia un suo percorso parallelo come ha sempre fatto, raccontando storie che solo lì possono essere raccontate. Io sono nato nel cinema e voto cinema, ma è stupido sparare contro la televisione quando fa dei prodotti oramai bellissimi.
Tempo instabile con probabili schiarite è il titolo del tuo ultimo film. Vedi la stessa situazione metereologica anche sul cinema italiano di oggi? C’è anche una ripresa del cinema di genere che sembra essere entrata in atto…
Mi pare ci sia un grosso risveglio, ancora troppo legato a dei casi sporadici per chiamarsi una vera industria funzionante, ma di sicuro qualcosa di molto positivo si sta muovendo. Perché prima si parlava di uno o due titoli, uno o due registi che facevano bel cinema, ora ne conti sette, otto, nove, una volta tocca a uno una volta tocca a un altro. Da questo ad arrivare a quello che era il cinema degli anni Sessanta e Settanta ce ne passa, però mi sembra una notizia molto buona. Ogni mese e mezzo c’è un film che viene visto, altri che non vengono visti ma sono interessanti, e che lasciano un segno, chi per un verso, perché ha successo di pubblico, chi per un altro, perché dice delle cose interessanti e magari vince un festival. Insomma, mi pare ci sia una buona ripresa.
E in questo panorama tu fai una scelta molto particolare perché all’ultimo Festival di Cannes hai presentato il progetto del film Fatima. Ci sarà un cast internazionale, girando però in Italia. Cosa puoi anticiparci su questo tuo nuovo film?
È un progetto americano per il cinema, non è un progetto italiano. La sfida sarà parlare a tutti. Credo che abbiano scelto me anche perché, avendo una visione piuttosto laica, probabilmente riesco a parlare ad un pubblico ampio. La sfida è trovare il canale per non parlare solo ai credenti, e trovare, e credo che ci sia, un forte messaggio in quella vicenda a prescindere dall’essere credenti o meno.