di Massimo G. Bianchi
È stata pubblicata, or non è molto e finalmente, una scatola contenente tutte le incisioni effettuate per Deutsche Grammophon dal pianista serbo Ivo Pogorelich. Nato a Belgrado nel 1958 è recentemente tornato sotto i riflettori dopo una lunga rarefazione delle sue apparizioni. Divenne improvvisamente famoso nel 1980 in seguito all’ eliminazione dal concorso Chopin di Varsavia. Tale esclusione provocò scompiglio, e la reazione sdegnata della giurata
Martha Argerich che se ne andò sbattendo la porta. L’agnizione da parte di mamma Martha del genio ‘in statu nascendi’ garantì al giovane (e bellissimo) rampollo l’avvenire. Superò presto in fama e celebrità il vincitore vero del concorso, un peraltro valente pianista vietnamita di nome Dang Thai Son. Già nell’80 erano evidenti le caratteristiche che ne delineano tuttora in modo inconfondibile il profilo: grande tecnica, ampio ventaglio di possibilità timbriche sullo strumento, dalla luce del ‘pianissimo’ più impalpabile fino alla durezza tagliente e quasi volutamente sgradevole di certi ‘fortissimo’, totale libertà esecutiva sino ai confini di un’ anarchia (forse) organizzata, tempi paradossali e/o terroristici, molte idee.
Su questi punti occorre forse fermarsi un poco a riflettere.Il testo musicale è l’anello che ci lega al compositore. Ma l’opera, infine, a chi appartiene? Al compositore stesso? Al suo tramite, ossia l’esecutore, oppure ad entrambi? E in quale misura? Che ruolo gioca, infine, il prisma costituito dall’ orecchio e dal cuore di chi ascolta?
Ci si potrebbe spingere più in là : quando è il compositore ad eseguire un proprio componimento, quella che ne scaturisce è la migliore versione possibile, al punto di inibire o tacitare tutte le altre?
A ciascuno appare chiaro come possano coesistere, e infatti coesistono, diverse versioni anche inconciliabili della medesima opera; se la più fedele al testo è sicuramente la più giusta in senso letterale, non sempre è detto che sia la più felice, anzi questo non è altro che uno dei tanti pregiudizi. Il medesimo compositore può fortunatamente prodursi in interpretazioni affatto diverse dei parti della propria immaginazione. Che significa, poi, interpretazione ‘fedele’? Forse che dove è scritto ‘f’ si deve suonare ‘forte’, mentre dove è scritto ‘legato’ si deve eseguire la linea melodica senza staccare le dita dai tasti, in apnea? Inezie. Prendiamo ad esempio Ivo Pogorelich, uno che, sovente, quando è scritto ‘ forte, e legato’ suona convintamente ’piano, e staccato’.
Funziona. Nel fluire del tempo musicale, che si vorrebbe equiparabile a una vita biologica, scandita da un ‘tactus’ del tutto analogo al battito cardiaco, non di rado il Nostro destabilizza questa – divina – entelechìa sostituendola con i palpiti oscillanti di un oscuro ‘nulla’ ( “..O Nada nostro, che sei nel Nada…”, così si chiude uno splendido racconto di Hemingway che mi torna alla mente ogni volta che mi imbatto nel ‘Gnomus’ di Mussorgsky nella geniale versione di Pogorelich). Il pianista intralcia con gli zoppìi ritmici di Satanasso l’incedere placido dei Serafini, compulsa pause e silenzi là dove il discorso non li prevederebbe, inventa e manipola gli spazi con spaventosa coerenza, spacca tutto, (si) vuole stupire.
A me gli occhi, please.
Perché? Premesso che a un artista tanto serio,va tributata gratitudine, non ostilità, la chiave dell’enigma sta forse in quella parola: ‘deve’. . questo ‘si deve’ suonare così…quell’ altro, cosà…Chi lo stabilisce? Anni fa, presenziavo a un suo concerto. L’esecuzione del terzo tempo della Sonata opera 58 di Chopin, il ‘Largo’, stava arrivando a sfiorare i 20 minuti contro gli usuali sette, otto. In quel mentre, contai 12 persone alzarsi e uscire. Qualcuno biascicò qualcosa, un’imprecazione che non mi sento di ripetere, verrei censurato dalla redazione. Una signora scrollava la testa, avesse potuto sputare per terra, cioè metaforicamente sul pianista, sono certo che l’avrebbe fatto. Sdegno puro e semplice. Quest’ultimo non sentiva, infatti, il ‘dovere’ morale di suonare quella musica così come è scritta e come si suona abitualmente, per compiacere: sembrava invece intento a cercare una unificazione con le vibrazioni del proprio ‘io’. La musica, in quel momento, era Ivo, era lui che la stava componendo, non più il caro Fryderyk: un amico lontano, un ricordo, forse, soltanto. Ci sovviene un verso di Ungaretti: ” Da quella solitudine di stella/ A quella solitudine di stella”.
Di solitudini, di analoghe irrequietezze sono permeate tutte le incisioni, da Chopin a Bach, da Mozart a Prokofiev, presenti in questo cofanetto. Talora mi entusiasmano (il succitato Mussorgsky, Ravel, Scarlatti), tal altra mi giungono lontane (Mozart, Brahms): sempre mi interessano e mi interrogano. Quando paiono meno convincenti? A mio personale giudizio, quando l’artista non ‘osa’ fino in fondo, fermandosi allo strato più superficiale della provocazione estetizzante, categoria del resto sempre imprescindibile dal suo stile.
Proprio le esecuzioni più ‘osé’ potranno talora risultare le meno scavate, per strano che possa sembrare: è il caso, a mio modo di vedere, della Polacca op. 44 di Chopin.
Mi ricorda, Ivo, il compianto Carmelo Bene, l’ affabulatore presente-assente che, attraverso le più varie manipolazioni tecniche, del linguaggio e della forma scenica, osava superare la dimensione linguistico-comunicativa del Teatro. Con erudizione, disarticolandone gli aspetti di rito borghese senza rinunciare all’auto-compiacimento dell’attore. Anche Pogorelich, come Bene, sente il bisogno di smembrare il testo per ridefinirne il significato e il significante. Anche Pogorelich, come Bene, può risultare a qualcuno arbitrario, persino volgare. È il prezzo da pagare, questi artisti coraggiosi ben lo sapevano, e lo sanno.
Sembra io abbia scritto un inno a ‘Pogo’. Non è così. La musica non è relativismo. Giusta lo spirito delle proprie leggi, perfezionate attraverso i secoli, essa ha una propria chimica, non può venire strattonata ‘ad libitum’ senza che le qualità organolettiche ne risultino adulterate o compromesse. Non di rado le violenze pogorelichiàne possono (debbono? vogliono?) suscitare fiera opposizione: non sempre il gioco regge. L’aspetto geniale dell’architettura di tutto il Palazzo, però, è che non è possibile identificare con certezza dove, perché, quando esso regga. Ivo Pogorelich è un iconoclasta ‘olistico’, capace di rendere pluasibili tutti i punti di osservazione, di qualsivoglia provenienza e orientamento. Ma la conciliazione non è il suo scopo. Il suo pianismo è una sfida, di quelle di cui vale la pena raccogliere il guanto.
in apertura foto di Lionel Bonaventure