INTERVISTA ESCLUSIVA ALLO SCENOGRAFO LUIGI MARCHIONE
-di Tommaso Tronconi-
Classe 1957, Luigi Marchione è una delle punte di diamante del cinema e del teatro italiano. Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata fiume in cui ripercorre i momenti più significativi della sua carriera.
Scenografo, production designer e art director per cinema, televisione e teatro da oltre trent’anni, Luigi Marchione è senza dubbio uno dei fiori all’occhiello del panorama artistico italiano. Stretto collaboratore di Gianni Quaranta in varie produzioni cinematografiche (The day Christ died, Dancers, Benvenuto Cellini) e di Franco Zeffirelli in numerose opere teatrali (fra cui Maria Stuarda, Il lago dei Cigni, Tosca, Turandot, Don Giovanni), ha poi lavorato un po’ con tutti, da Alessandro D’Alatri a Carlo Verdone, da Ermanno Olmi a Francesca Archibugi. E per il teatro anche con l’indimenticabile Luca Ronconi.
Un importante bagaglio di vita ed esperienze che Luigi Marchione ha voluto gentilmente condividere con i lettori di Words in Freedom. Il risultato è come aprire lo scrigno dei ricordi e una finestra su un mestiere, quello dello scenografo, che troppo spesso leggiamo di sfuggita nei titoli di coda di un film o sul materiale di sala di uno spettacolo teatrale.
Il tuo esordio nel mondo del cinema risale al 1979 con La luna di Bernardo Bertolucci. Qual è stato il tuo percorso formativo, come ti sei avviato al mestiere di scenografo?
Tramite la pittura, tramite i miei disegni. Quando stavo dando gli esami del primo anno all’Accademia di Belle Arti a Frosinone, un mio professore vide i miei progetti e mi chiese espressamente se volevo lavorare nel cinema. Quindi cominciai lavorando nel Caligola di Tinto Brass come pittore, poi iniziai a fare bozzetti per una persona o per un’altra, e intorno ai diciotto anni ho avuto modo di conoscere Gianni Quaranta, scenografo di Camera con vista. Quaranta era lo scenografo di Zeffirelli.
Quindi ti sei trovato subito al centro del cinema…
Sì, e il disegno mi ha aiutato molto. Frequentando Quaranta ho cominciato a frequentare Zeffirelli, e ho fatto tutti i lavori teatrali di Zeffirelli fino al Don Giovanni del ’91. Tra le altre cose, ho fatto la prima Turandot di Zeffirelli, quella fatta a La Scala nel gennaio dell’85.
Zeffirelli è un amante del disegno, che ha appreso da Lila De Nobili, che è la scenografa con cui Visconti fece La Traviata alla Scala. Lei è stata la maestra di Zeffirelli, Piero Tosi, Danilo Donati, Anna Anni. Tutti hanno imparato da Lila De Nobili.
Con Zeffirelli ti sei trovato bene, dunque…
Benissimo! Con lui ho cominciato con un film-opera, che era Cavalleria Rusticana e Pagliacci, poi ho fatto La Traviata, anch’esso film-opera. Così sono diventato di casa per Zeffirelli. È stata una scuola incredibile. Zeffirelli mi ha insegnato la “teoria del francobollo”, ovvero disegnare un francobollo con quello che è il colpo d’occhio, poi quando si passa all’ingrandimento della scena devi conservare quanto hai disegnato nel francobollo.
Poi è accaduto che tramite Quaranta ho lavorato anche con Ronconi…
Che ricordo hai di questo gigante del teatro, venuto a mancare circa un anno fa?
Con Ronconi ho rimesso in discussione tutto, era l’esatto opposto di Zeffirelli, però pure lì mi si è aperto un mondo. Ronconi era una persona coltissima. Aveva un modo di citare i riferimenti totalmente differente da Zeffirelli. Zeffirelli ti diceva l’autore e tutto il resto, Ronconi invece cominciava con “mi ricordo che c’era uno che faceva…”. La cosa bella di Ronconi, che gli ho letteralmente rubato, è ciò che si chiama “l’altro punto di vista”. Per Ronconi la prospettiva frontale era banale, una cosa dovevi sempre vederla dall’alto, dal basso, ecc. Con Ronconi tutto era possibile. Tanto che nel disegno ho assunto un taglio ronconiano. Lui mi ha insegnato a vedere in astratto, col colpo d’occhio.
Nella tua carriera tanti film in costume ma anche tanti film d’ambientazione contemporanea. Da dove si parte per realizzare le scene di un film?
È sempre un’esperienza diversa, però c’è un metodo. Io un metodo mio ce l’ho. Io preparo un blocco di carta poco buona, proprio per non essere inibito, e me lo porto sempre dietro insieme ad un matitone. È un po’ quanto ho imparato dalla scuola di Lila De Nobili…
Possiamo dire che il tuo punto di partenza è il disegno a mano libera, ma molto libero…
Sì, molto libero, spesso sono scarabocchi che capisco solo io. La sintesi è centrale, fissare l’idea, fissare quando ti viene un’ispirazione. Ecco io visualizzo tutto, come uno story-board.
La mattina quando ti alzi, senti proprio che il cuore sale perché hai trovato una bella idea. Verso le dieci e mezzo magari prendi un caffè, stacchi e ti scordi tutto. Cioè perdi quell’intensità, quella parte emotiva, e non la ritrovi più. Invece se hai buttato giù uno schizzetto a penna su un pezzo di carta, te lo ricordi. Subito, cotto e mangiato. Col computer ora è più facile e immediato, e fai certe cose che non faresti mai a mano…
Particolarmente importante per te è stata l’esperienza con Ermanno Olmi, col quale hai lavorato per Il mestiere delle armi (2001) e Cantando dietro i paraventi (2003), che ti sono valsi due Nastri d’Argento e due David di Donatello per la migliore scenografia. Com’è stato lavorare per questo grande maestro del cinema italiano?
Quando ho conosciuto Olmi, la faccenda è andato così: il film lo doveva fare un’altra persona, poi non poteva più e hanno chiesto a me. Non conoscevo Olmi, che mi dice: “Dopodomani partiamo per la Bulgaria”. E io: “Ma dovrò leggere il copione prima…”. E Olmi: “Non si preoccupi, partiamo!”. E sono partito senza leggere il copione. La sera buttavo giù dei disegni e Olmi mi diceva: “Ancora più semplice, togliere, togliere, togliere”. Quando sono tornato a Roma gli ho mandato via fax tutto il prospetto della fornace del Mestiere delle armi e lui mi ha riposto: “Ci siamo capiti!”. Quando Olmi è arrivato in Bulgaria era tutto pronto, ma non aveva visto niente prima. Però mi sentivo sereno, ero sicurissimo di quanto avevo fatto. Quando abbiamo fatto il giro in jeep, ad un certo punto lui scende e ironicamente mi dice: “Non mi piace niente…”. Era una battuta, scherzava ovviamente…
Pur essendo il 2000, era ancora un’epoca in cui si faceva sentire con forza l’artigianalità del mestiere e il computer si usava poco per ritoccare le immagini…
Non c’era dimestichezza, non c’era la rilassatezza di oggi col computer. Per Cantando dietro i paraventi avevamo fatto i modellini per le navi e mi è servita molto l’esperienza teatrale. Abbiamo costruito tre sagome di scafi con nove intercambiabilità, così costruivamo direttamente nove navi. Portavamo poi l’oggetto dove c’erano i disegnatori, quelli prendevano le misure e disegnavano la nave. Invece oggi si fa il contrario: tu disegni la nave e poi costruisci il modellino. Noi, forti dell’esperienza teatrale, facevamo l’opposto.
Negli ultimi anni, però, hai lavorato anche per grosse produzioni straniere. Sei stato art director per Exodus – Dei e re (2014) di Ridley Scott e Dracula Untold (2014) di Gary Shore. Meglio lavorare in Italia o all’estero?
All’estero si lavora meglio che in Italia. In Inghilterra ho lavorato anche con Guy Ritchie per il suo King Arthur. Là la visualizzazione in un film è una cosa importantissima, cosa che in Italia non si fa. In Inghilterra io ho trovato solo gente più brava di me, con all’età di 30 anni un’esperienza che uno scenografo a 60 anni in Italia non è detto che ce l’abbia. Ho conosciuto persone che hanno lavorato ad Harry Potter per 8 anni. In Inghilterra devi essere bravo. Là il 3D lo usano tutti, è come imparare a scrivere là. In Italia siamo rimasti indietro…
Quindi anche la vicina Inghilterra è tutto un altro mondo rispetto all’Italia…
Sì, è tutto un altro mondo, è il centro del mondo. Vengono dall’America a fare film in Inghilterra. Però l’Italia non ti abbandona, ti insegue.
Guardiamo al futuro e alle nuove generazioni: che consiglio daresti ad un ragazzo che vuole diventare scenografo?
Di imparare il digitale. A novembre ho fatto un film con un regista americano, che si faceva passare tutto il materiale in digitale, sul portatile. Era bravissimo, riusciva a portare dentro delle immagini, a montarci il volto dell’attrice, a dare effetti di luce, tutto col digitale. È un alfabeto da imparare. E poi l’inglese, con la lingua inglese riesci a entrare in comunicazione con tutto il mondo.
E adesso a cosa stai lavorando? Cosa hai in ponte per i prossimi mesi?
Adesso sto facendo un progetto mio, un Orlando Furioso, ma totalmente reinterpretato. Il progetto è per farci un film, un’ispirazione per teatro, un libro, una mostra, ma principalmente vorrei farci un film. È chiaro che non c’è la sceneggiatura ancora, però c’è una parte visiva che in Italia è nuova, perché ho quest’esperienza acquisita all’estero. Quello che ho imparato in questi anni all’estero, in Italia non lo fa nessuno, proprio perché ancora ci manca quell’alfabeto.
Qui di seguito una gallery di bozzetti realizzati negli anni da Luigi Marchione e da lui gentilmente concessi a Words in Freedom.