– di Stefano Fabbri –
C’è qualcosa di peggio di morire, uccisi lontani da casa, mentre si lotta per una causa giusta come quella del popolo curdo? Sì, ed è il silenzio quasi assoluto nel quale gran parte del mondo istituzionale circonda il sacrificio di Lorenzo Orsetti, il poco più che trentenne fiorentino che ha scelto di battersi con le milizie democratiche curde dell’Ypg nello sforzo profuso per liberare dall’Isis l’ultimo fazzoletto di terra occupato in Siria dai tagliagole. “Orso”, come lo chiamavano nella sua Firenze, Tekoser il nome di battaglia che si era dato, è morto in un conflitto a fuoco con i nemici giurati di quel popolo che aveva deciso di difendere e che nel Rojawa, nella Siria del nord, ha dato vita ad una delle esperienze democratiche più interessanti e che lo aveva affascinato: un ruolo importante per le donne, forme di socialità del lavoro, la ricerca di uno sviluppo sostenibile e, soprattutto, la capacità di autodeterminarsi e di liberarsi prima di tutto dalla morsa di Daesh. Orso aveva fatto quella scelta consapevole un anno prima e si era preparato anche a non fare ritorno. Lo dice chiaro nel suo “testamento” video, con parole semplici e chiare, che indicano la serenità di una decisione difficile.
La sua morte, il 17 marzo, ha suscitato emozione in Italia e soprattutto nella sua Firenze. Ma appena un mese dopo a ricordarne il sacrificio sono rimaste solo le scritte tracciate sui muri del capoluogo toscano dai suo amici: dove non è arrivato l’oblio dettato dal pur breve tempo trascorso, ci ha pensato una campagna elettorale, nella quale distinguere i pensieri è sempre più difficile, a stendere il velo di silenzio. Le richieste di apporre lapidi, dedicargli una strada o qualcosa di pubblico sono tutte rinviate a data da destinarsi, quando la morte di un giovane che ha scelto una strada concreta per fare ciò che la politica spesso auspica con le parole, cioè liberarsi dall’Isis, non sarà più una pietra d’inciampo per il “politicamente corretto”. Unica, lodevole, eccezione quella del presidente del Consiglio regionale della Toscana Eugenio Giani che, forte del voto unanime dell’assemblea regionale, ha deciso di conferire il Gonfalone d’argento, la più alta onorificenza della Toscana, alla memoria di Orsetti e di tenere la cerimonia quando la salma rientrerà in Italia. Il sindaco di Firenze Dario Nardella ha proposto di tumularla nel cimitero delle Porte Sante, dove riposano anche diversi eroi della Resistenza. Ma a proposito di Resistenza, il 25 aprile, nel corso delle celebrazioni ufficiali fiorentine della Liberazione, cioè di quegli stessi valori per i quali si è battuto Orso, solo la rappresentante dell’Anpi ha ricordato il suo sacrificio. E l’unico sindaco che ha ritenuto di farlo, alla presenza dei genitori di Orsetti, è stato quello di Sesto Fiorentino, Lorenzo Falchi. Insomma: nonostante Orso abbia incarnato quei valori che, a parole, si dice di voler trasmettere ai giovani la sua testimonianza ha rappresentato un ingombrante assenza della festa della Liberazione. E non hanno sorte migliore i suoi compagni, altri giovani che hanno fatto la sua stessa scelta e sono tornati vivi dall’inferno siriano: per loro, come Orso andati a combattere il nemico numero uno delle democrazie mondiali e il pericolo più serio per la libertà di tutti nel terzo millennio, si è aperta la porta del tribunale. Avere impugnato le armi per una causa giusta, lontano da casa ma per difendere in modo lungimirante la casa di tutti, potrebbe costare loro il marchio della “pericolosità sociale”, con importanti ricadute negative sulle loro vite e sul loro lavoro. Perché così prevede il nostro ordinamento, senza distinzioni tra chi combatte per noi e chi combatte contro di noi.