Lino Guanciale: Considerazioni sulla società di oggi

-di Nadia Pastorcich – 

Nobile d’animo, devoto al palcoscenico, affascinato dalla televisione, Lino Guanciale sarà a Trieste, domani sera, al Politeama Rossetti per la finale de “La porta rossa 2”, la fiction diretta da Carmine Elia, girata in una Trieste insolita, con quella punta di mistero che non lascia indifferente chi la guarda. Non solo un sold-out dei biglietti per assistere alla tanto attesa serata, ma anche per lo spettacolo “Ragazzi di vita” al Teatro Verdi di Pordenone, andato in scena la scorsa settimana, dopo la tappa al Teatro Nuovo Giovanni da Udine.
In “Ragazzi di vita”, il regista Massimo Popolizio regala al pubblico la possibilità di partecipare non tanto all’immedesimazione emotiva, quanto alla narrazione del testo pasoliniano. La scenografia è molto essenziale, capace di lasciare lo spazio a un linguaggio a volte crudo, espressivo, mai banale. Le scene raccontate da Pasolini vengono servite in episodi. Un po’ come se lo spettatore si trovasse di fronte ad un libro da leggere. A far da Virgilio, in questo viaggio tra le strade di Roma, è Lino Guanciale. Osservatore indiscreto, narratore attento. I “ragazzi di vita” di Pasolini sono il chiaro esempio di una generazione che pian piano si allontana dalle borgate per arrivare a toccare il progresso del boom, dimenticando però quei valori umani, che ancora oggi dovremmo ricordare. In uno spettacolo come questo, che attinge da un romanzo «intriso di musica, anzi di canto e di canzoni» – così definisce Popolizio l’opera pasoliniana –, la voce di Claudio Villa sembra una scelta naturale per descrivere un’epoca non così lontana dai “ragazzi di vita” dei nostri giorni. Lino Guanciale si fa corifèo di un’Italia che cambia, di un’Italia che fa parte di noi.

Lino Guanciale, nello spettacolo “Ragazzi di vita” perché si è scelto di lasciare la terza persona, come accade nel libro di Pasolini?

Questo modo di portare i romanzi in scena è già stato praticato prima di Massimo Popolizio, soprattutto negli ultimi trent’anni della storia del nostro teatro, da Luca Ronconi. Lui non è stato l’unico, ma si può però dire che è stato un po’ l’iniziatore di questa strada. “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, allestito da Ronconi con Popolizio tra i protagonisti, al Teatro Argentina di Roma, negli anni ’90, è rimasto indelebile nella memoria di chi lo ha visto. In quel caso Ronconi ha voluto portare in scena il romanzo così com’era, ovviamente tagliandolo, e mantenendo la terza persona, gli snodi narrativi, per fare un’esperienza rifondativa, ovvero usare la terza persona e recitarla talora come fosse una terza, ma fondamentalmente come se fosse una prima. Ciò manifesta costantemente agli spettatori l’artificio teatrale. Brechtianamente questo vuol dire da un lato mantenere il distacco, ma dall’altro fondare un patto più forte, di quello della drammaturgia convenzionale. È come se a quel punto si chiamasse ancor più in causa lo spettatore e la sua immaginazione per costruire ciò di cui si sta parlando: il modo, gli spazi, i tempi, gli scenari che gli attori evocano con le proprie parole, un po’ come accade nel teatro elisabettiano. Non trovano riscontro in dati scenografici. È un teatro affidato interamente alla parola nel senso radicale. Questo dà metà della responsabilità della buona riuscita dello spettacolo agli attori, e l’altra metà agli spettatori.

È una sorta di lettura a leggio che però fa lo spettatore.

Giustissimo, perché noi non facciamo altro che far emergere, il più vividamente possibile fuori dalla pagina, attraverso l’azione del palcoscenico, le parole che poi devono risuonare e aprirsi spazialmente nell’immaginario degli spettatori.

Voi, nello spettacolo, usate un linguaggio abbastanza pulito, nel libro invece ci sono molte più parolacce, utilizzate dai ragazzi di borgata. Da persone che stanno ai margini della società ci si può aspettare un certo tipo di linguaggio, crudo, un po’ spinto. Oggi invece anche quelle più colte e istruite lo adoperano…

Sì, è un po’ il segno dei tempi. C’è un imbastardimento del linguaggio medio a vari livelli. È vero che all’epoca era molto segnata la provenienza della parolaccia, del turpiloquio. “Ragazzi di vita”, in realtà è stato autocensurato ad opera dell’autore, per togliere molte delle maleparole che c’erano nelle prime bozze della versione autografa originale – anche se ne rimangono alcune nella stesura definitiva –, perché rischiavano di essere eccessivamente distraenti, scandalose, d’impatto – caratteristica del turpiloquio – sul lettore di allora, il quale era abituato ad una considerazione della parolaccia come un disvalore, cosa che oggi invece non è.
Nello spettacolo, Emanuele Trevi, il drammaturgo, ha attinto in parte dalle prime bozze – su volere e indicazione del regista Massimo Popolizio – , recuperando un po’ la crudezza di un certo linguaggio. Il turpiloquio si perde pian piano, ma nei primi minuti dello spettacolo ci sono molti “Li mortacci tua”, espressione ormai sdoganata, che non si usa più solo a Roma. Noi non abbiamo edulcorato nulla, semplicemente negli episodi selezionati già si era fatta una pulizia di linguaggio ad opera dell’autore, che non ha risparmiato quelli tematicamente più importanti: un esempio è il “frocio” scritto imitando la fonetica romana, ovvero “froscio”.

È stato fatto un grande lavoro a monte…

Questo lo si vede sia nell’attenzione di Pasolini che nella nostra nel recuperare un po’ la parola e il suo contesto con una certa ironia – come nel caso del froscio – sempre con l’intenzione di presentare i fatti e di non ricamarci troppo sopra.

“Ragazzi di vita”, ph Achille Le Pera

I “ragazzi di vita” vivono un periodo “analogico” rispetto ai ragazzi di oggi, figli di un’epoca digitale. Nel primo caso si lasciano alle spalle la Seconda Guerra Mondiale e pian piano iniziano a vedere un miglioramento, il boom economico. I ragazzi dei giorni nostri si trovano anche in una fase transitoria, però se quelli di un tempo avevano una speranza un po’ più concreta, quelli di oggi non sembra ce l’abbiano. Com’è questo futuro?

In realtà la speranza che avevano i “ragazzi di vita” di una volta era da un lato concreta e dall’altro effettivamente una specie di trappola – spiega Pasolini – perché lo sviluppo economico, il boom, offriva delle opportunità obiettive di salto rapidissimo nel benessere, rispetto invece alla miseria millenaria da cui venivano gli strati più popolari del sottoproletariato, non solo romano, ma italiano in generale. C’era una prospettiva a breve termine di grandissimo miglioramento, che hanno vissuto un po’ tante famiglie, compresa la mia. Mediamente quasi tutti noi italiani abbiamo fatto “un salto”. Diverse famiglie italiane l’hanno fatto in quell’epoca, un po’ com’è stato per questi “ragazzi di vita”. Quello che accade però – sempre pensando a Pasolini – è che la società dei consumi porta allo sviluppo materiale e all’inaridimento morale.

Ora ne paghiamo le conseguenze…

Siamo perfettamente lì dentro. Quello che accade oggi, se si guardano le periferie, è che non hanno più le fattezze delle borgate di una volta e soprattutto, spesso, non siamo noi italiani a starci dentro. I ragazzi poveri che vivono in condizioni più misere sono magari quelli che arrivano qui clandestinamente, da altri paesi. Loro vivono una condizione di miseria materiale, ma di ultra miseria morale, rispetto a questi “ragazzi di vita” che sono stati l’ultima pagina di un libro millenario di cultura popolare, abituata ad una condizione di quel tipo, che aveva sviluppato tutta una serie di codici morali e pre-morali – così definiti da Pasolini – per cui magari ci si accoppava tra consanguinei, però poi si rischiava la vita per salvare una rondine che stava affogando nel fiume. La società dei consumi non ammette quell’etica, ne propone un’altra basata sull’individualismo e l’interesse personale, tant’è che Riccetto, quando è più grande, non rischia la vita per salvare un ragazzino. Tutta l’architrave morale del libro sta in questo testacoda, inizio e fine. Oggi, se si parla di futuro, forse non abbiamo più davanti quella prospettiva rapidissima di miglioramento, ma piuttosto una prospettiva al contrario di un danneggiamento di classe. È anche vero però che siamo nella stessa o simile condizione di difficoltà e miseria, di inaridimento e codificazione morale in cui si trovavano i “ragazzi di vita” dentro il boom.

Osservando la gente, sembra si faccia fatica a scegliere. Pare che la scelta sia un indice di “povertà”. Si vuole tutto, non ci si accontenta mai, sia nei rapporti umani che nell’acquisto di beni. Si dovrebbe capire che nella vita non si può possedere ogni cosa. Bisognerebbe saper scegliere e saper scegliere porta responsabilità, che oggi è un po’ sconosciuta…

Verissimo, la società dei consumi ci abitua all’idea che si possa avere tutto. Questo ha delle ripercussioni morali, che ormai sono radicatissime, perché i “ragazzi di vita” appartengono ad un altro mondo e vengono buttati dentro a quello del boom, nel quale si perdono. Noi, che veniamo dopo di loro, ci nasciamo già dentro a questa realtà e nasciamo con una forma mentale occidentale, che ci fa pensare di poter avere tutto. È un’aberrazione. Anche tra di noi, della compagnia, ne parliamo. Pasolini effettivamente ti costringe a fare i conti con questi temi, perché attorno ad essi ha giocato, fin da “Ragazzi di vita”, tutta la sua partita, non solo poetica, ma anche politica e culturale. Quello che ci dicevamo è proprio che bisognerebbe trovare il modo per ridimensionarci. Credo però che non possiamo farlo mantenendo lo stesso sistema in cui siamo, ne serve un altro. Altrimenti la nostra mentalità, o meglio quella dei nostri figli, non cambia.

Lino Guanciale in “Ragazzi di vita”

Ai giovanissimi, figli di questo periodo, è chiaro che, per esempio, stare sui social, avere tutto, sia normale. Non avendo vissuto, personalmente o attraverso il racconto, un periodo in cui non si poteva avere ogni cosa, è difficile immaginarlo. Non è semplice pensare di vivere privandosi di certi privilegi. In poco più di mezzo secolo, tante cose sono cambiate in meglio, ma tutto ciò che per noi oggi può sembrare normale, domani potrebbe non esserlo più. Non ci si rende conto che l’acqua corrente, l’elettricità, non sono cose così scontate. Basta poco per guardarsi indietro e scoprire com’eravamo. E anche se c’era tanta povertà, quelle persone sono riuscite ad andare avanti.

Ognuno, in qualche modo, deve avere un’idea di quale sia il compito della sua generazione. La mia è stata la prima ad essere nata nella convinzione del continuo miglioramento, ma invece ha battuto la faccia sulla realtà del declino della crescita famigliare, innescata dal boom. Per le generazioni che vengono dopo è ancora più difficile.
Si arriva ad un punto in cui non si può crescere infinitamente, è per quello che viviamo in un’epoca di grande transizione, dove diventa difficile prevedere che cosa succederà. Sarebbe bene lavorare intanto sul preparare un’alternativa. Ci sono alcune cose attorno alle quali si gioca la partita dell’assetto futuro del mondo, che sono in qualche modo le politiche culturali e produttive. Una cosa importante per esempio è capire da dove prenderemo l’energia domani. I giovanissimi di oggi fanno benissimo a protestare – come è successo giorni fa – contro i cambiamenti climatici e per l’economia verde, perché si abbia più cura del pianeta terra. Ciò non significa soltanto non buttare le carte per terra, bensì trovare delle alternative.

Bisogna però sperare che i giovani abbiano la consapevolezza che per far stare meglio il pianeta, forse dovranno rinunciare a certe tecnologie o certi lussi. Per salvare la terra bisogna privarsi anche di alcune delle cose che ora ci sembrano indispensabili.

Esattamente. Sicuramente bisognerà prepararsi a delle rinunce. D’altra parte tutte le grandi utopie sono basate su un’idea di sacrificio, ne dico una: l’Unione Europea nasce sull’ipotesi che tutti gli stati rinuncino un po’ alla propria sovranità. Se non si riesce a portare fino in fondo il progetto è perché a nessuno piace questa cosa. Questo vale anche per i rapporti familiari, interpersonali, fino ai grandi sogni politico-ideologici. Bisognerebbe però essere disposti a fare questi cambiamenti. La generazione precedente a quella attuale che protesta, come la mia, dovrebbe chiarire a se stessa e poi agli altri che, per esempio, noi viviamo in una società in cui per stare bene, per poter studiare, per avere tutto, deve stare male qualcun altro dall’altra parte del mondo, che invece non può avere nulla. Perciò è necessario abituarsi – in primis noi 40enni – a rinunciare a qualche cosa e farlo prima che la storia ce lo insegni traumaticamente.

“Ragazzi di vita”, ph Achille Le Pera

La nostra società parla tanto di democrazia, che la stiamo perdendo, poi però, se uno la pensa diversamente da te, viene attaccato. Ma se uno crede nella democrazia dovrebbe ascoltare anche chi si discosta dal suo pensiero. È come se si soffrisse di bipolarismo politico. Per non parlare dei politici…

Da noi il percorso di una mentalità democratica non si è mai compiuto completamente. Abbiamo vissuto delle epoche d’oro in cui la nostra classe dirigente era capace di dialogo democratico. È successo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale con i padri costituenti e poi, nelle decadi successive, con alcune persone della politica di uno schieramento e dell’altro, capaci di agire democraticamente. Oggi effettivamente è difficile trovare personalità interne alla nostra classe dirigente che mostrino questa capacità d’uso della democrazia. Questo perché viviamo in un momento di completa reazione antipolitica, del tutto comprensibile, poiché questo non è un paese con una coscienza culturale sviluppatissima, quindi è normale che accada. È successo anche in paesi con coscienze culturali più sviluppate della nostra: in Inghilterra con la Brexit o in altri posti dove l’antipolitica è cresciuta moltissimo – per forza antipolitica intendo i populisti che ormai si vantano anche di essere populisti e sovranisti. Da noi è naturale che delle persone completamente deluse dalla politica della classe dirigente, distantissima da loro, reagiscano votando chi sentono più prossimi. Dal mio punto di vista, è un grande inganno.
Non metto in dubbio la buona fede di chi la pensa in maniera completamente diversa dalla mia, però rilevo che certe forze politiche, che sono cresciute moltissimo negli ultimi anni, si sono sviluppate sfruttando la paura della gente e mostrando alla fine, come sta accadendo, delle contraddittorietà insanabili. Sostanzialmente facendo la propria fortuna distraendo un po’ le persone dai problemi più urgenti e indicando i nemici di comodo. Se uno fa così è difficile dire che sia davvero democratico. La democrazia si basa su un patto: la possiamo vedere diversamente, ma io devo poter rispettare la tua opinione. Le opinioni basate su un gioco furbo, per la pesca al consenso, non sono rispettabili.

Marc Augé parla dell’idea di democrazia come un qualcosa di incompiuto, in continua conquista. Non c’è mai una democrazia effettiva, bisogna ricercarla, forse partendo dalle scuole…

L’idea di Augé è l’educazione per tutti. Va però capito che bisogna continuare ad imparare tutta la vita. La democrazia è una tensione continua. E tutti quanti devono avere accesso agli strumenti per poter interpretare la realtà o per poter capire come riuscire a fidarsi di chi li rappresenta. Noi viviamo in un mondo in cui tante persone non riescono a riconoscere una notizia falsa da una vera, perché non hanno gli strumenti per poterlo fare. Siamo un paese che non legge, un paese poco curioso. Marc Augé dice benissimo, quando spiega che c’è un legame fortissimo tra il futuro politico del mondo e la scommessa educativa che si fa, solo che bisogna non semplicemente insegnare a leggere e a scrivere, bensì ad imparare.

Infatti manca la mentalità elastica che ti aiuta a vivere nel quotidiano. Oltre l’intelligenza a livello nozionistico, dev’esserci anche un’intelligenza pratica, dell’azione, del fare…

Esatto! Da questo punto di vista il teatro può essere utilissimo: ti costringe a fare. Il teatro è sempre in azione. Quello che fai lo conosci facendolo.

“La porta rossa 2”, Gabriella Pession e Lino Guanciale

Passando ad un altro discorso, lei come vede la donna?

In primis il femminile è seduzione. Una seduzione a tutti i livelli. Seduzione che significa – come diceva Baudrillard – intelligenza, linguaggio, capacità di dialogo più raffinato rispetto al maschile, potere di convincimento. È per questo che secondo me le donne governano meglio degli uomini.

Però ci vogliono anche gli uomini, dev’esserci un equilibrio…

Assolutamente. Il punto è che, nel mondo in cui viviamo oggi, ci si può permettere di superare certi pregiudizi da “caverna”, su cui si è fondato un equilibrio millenario, che ha poi generato tutti quanti i pregiudizi di genere e gli abusi che conosciamo. Siccome viviamo in un’epoca che se lo può concedere, è chiaro che entrambi i generi vanno ricodificati culturalmente.
Quello che è radicalmente femminile, appartiene anche al lato femminile degli uomini, lì dove gli uomini sono a loro volta seduttivi, capaci di costruire un linguaggio del convincimento e dell’apertura. Di per sé il maschile risponde ad altri principi, di base più aggressivi. È come se il maschile fosse una specie di principio di conquista e il femminile fosse invece un principio di governo. Detto ciò, la donna ha una grande fortuna e opportunità. Secondo me, se riuscissimo ad avere in Italia una classe dirigente fortemente femminile, risolveremmo parte dei nostri problemi di ogni giorno. Inoltre si avrebbero inevitabilmente delle ripercussioni sulla mentalità del paese.

Oggi si parla di pari opportunità, di uguaglianza tra uomini e donne. Bisognerebbe parlare di pari opportunità come diritti, però ricordando che l’uomo e la donna sono diversi.

Siamo diversi e rispondiamo a principi diversi. Credo che le donne, dagli anni ’60 in poi, abbiano sviluppato una cultura e coscienza di comunità di genere molto forte, un percorso che gli uomini non hanno fatto. Gli uomini si affidano ad una certa idea di maschile che ormai è fuori corso. Per questo il maschio di oggi è disorientato. Più ancora che indagare su cosa sia il femminile, è necessario capire che paradigma di virilità abbiamo, perché, una volta capito questo, si deduce anche il rapporto di reciproco equilibrio e rispetto che deve esserci tra i due generi, per il proseguimento della specie, per il mantenimento civile del nostro vivere insieme.
Ci possono essere dei disequilibri da parte delle donne, non lo nego, ma dall’altra parte la situazione è ancora più grave. Il problema è che bisogna aiutare gli uomini – in questo le donne devono intervenire – per capire bene che maschio sia necessario al nostro tempo.

Penso che anche molte donne di oggi non lo sappiano, questo è il problema…

Nessuno lo sa, perché sostanzialmente è molto più semplice, nelle civiltà autocratiche, individuare i due generi. Poi c’è sempre un rapporto tra il regime politico e il rapporto di generi che ne consegue. La scommessa della contemporaneità, secondo me, è capire, con i confini più labili di oggi, che cosa è essere maschi e che cosa è essere femmine.

E lavorare assieme, altrimenti, proseguendo così, se l’uomo non ha un’identità precisa e non la riceve dalla donna, come si va avanti?

Esatto. Non si può soltanto distruggere: bisogna smantellare un paradigma di virilità becera che porta soltanto disastri, e gli uomini devono impegnarsi in questo. Dall’altra parte bisogna che, un po’ come uno stato nuovo che nasce, quello un po’ più consolidato, ovvero quello femminile, pur in un mondo ancora pieno di squilibri ai danni delle donne a livello di coscienza di sé, in qualche modo aiuti gli uomini a legittimare una nuova idea di maschio. Entrambi devono pensarci. Quello che c’era prima non va più bene.

Ma neanche quello che c’è adesso, va bene…

Senz’altro! Viviamo in un momento di stallo.

Lino Guanciale, “La porta rossa 2”

Ad un incontro con gli studenti a Trieste, lei aveva citato Gramsci: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”. Ci salverà questa volontà?

Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà è l’unica via. Bisogna essere lucidi nel giudicare quello che è l’esistente, ma poi volerlo cambiare. La lezione di Gramsci è quella che sta a cuore anche a Pasolini, così come a tutta quanta la cultura di sinistra più capace di realismo riformista, o anche di sogni rivoluzionari concreti. Secondo me, Gramsci, è ancora oggi l’unico punto di riferimento ideologico spendibile da sinistra.

Lino Guanciale ne “La porta rossa 2”, Trieste

Domani verrà a Trieste per l’ultima puntata de “La porta rossa 2”. Al pomeriggio sarà a Roma per poi presenziare alla serata dedicata alla serie girata a Trieste. Ci sarà più Cagliostro o Guanciale?

Ci sarà più Cagliostro, non credo che sarò molto in me (sorride). Sarà una serata emozionante! L’altra volta, per la conclusione della prima serie, eravamo al Cinema Ariston, che è stato delizioso nell’ospitarci. Questa volta c’è una specie di raduno di massa al Rossetti. Credo che sarà un’emozione forte. Mi manca molto la città, soprattutto quando non ci torno da un po’. I triestini li sento estremamente raccolti attorno a questa esperienza che è stata “La porta rossa”. Ciò mi fa piacere.

 

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“Ragazzi di vita” prosegue la tournée dal 21 al 24 marzo al Teatro delle Moline Arena del Sole a Bologna e dal 26 al 31 marzo al Teatro Bellini di Napoli.

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