L’inconsueta estrosità di Emanuele Barbella. Intervista al violista Simone Laghi

Nel tricentenario della nascita del compositore napoletano
 
di Attilio Cantore e Chiara Lijoi
 

Fidato informatore dello storiografo britannico Charles Burney, Emanuele Barbella fu violinista, compositore e convinto tartiniano. Figlio del violinista Francesco Barbella e nipote del compositore Michele Cavallone (o Gabellone), nasce a Napoli nel 1718. Gli elementi disegnativi della sua biografia vengono delineandosi grazie ai riferimenti di importanti voci del mondo musicale dell’epoca – da Padre Martini a Leopold e Wolfgang Mozart, sino a Farinelli – e del tessuto diplomatico inglese gravitante attorno alle magnetiche figure di Lord Hamilton e Lord Fortrose. L’intricato panorama didattico dei conservatorî napoletani, le quattro «celebri scuole» famose in tutta Europa, non permette di ricostruire compiutamente la formazione di un musicista; ad ogni modo, anche Barbella concluse senza dubbio in seno a tale eccellenza la propria educazione musicale, che in passato era stata talvolta erroneamente sovrapposta e confusa con la carriera del padre Francesco, professore di violino presso il Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana e di Santa Maria di Loreto. A partire dall’inizio della seconda metà XVIII secolo Barbella ottiene gli incarichi più prestigiosi: violinista nell’orchestra del Teatro Nuovo, poi della Cappella Reale e del Regio Teatro di San Carlo. Tra gli anni Sessanta e Settanta si collocano invece le diverse pubblicazioni della sua musica, sempre a Londra o a Parigi, dedicate interamente al repertorio da camera. Per converso, questi sono gli anni che corrispondono anche a certe lacune biografiche, prima di arrivare al luminoso 1770, anno in cui la sua presenza a Napoli è testimoniata tanto dal reportage di Burney quanto dagli appunti dei Mozart nei rispettivi viaggi in Italia.
Il tricentenario della nascita di Emanuele Barbella quest’anno è stato variamente celebrato: particolarmente prezioso risulta il progetto discografico A due viole, pubblicato dall’etichetta belga Passacaille. Abbiamo intervistato il violista emiliano Simone Laghi (fondatore dell’Ensemble Symposium) che, insieme al suo affezionato maestro Stefano Marcocchi, ha “dato voce” ai sei duetti accolti nel disco.

 

Come è nata l’idea del progetto A due viole?

«Da qualche anno sto lavorando su vari compositori della scuola di Giuseppe Tartini, dapprima concentrandomi sul repertorio italiano per quartetto d’archi (oggetto del mio dottorato), poi allargando ad altro repertorio da camera. Mi interessava in Barbella l’incrocio fra la tradizione napoletana e quella tartiniana (per via del suo maestro Pasqualino Bini, allievo di Tartini). Per quanto riguarda Barbella, mi sono imbattuto nei suoi duetti un po’ per caso, come spesso accade, durante delle ricerche incrociate. Dato che si avvicinava l’anno del trecentesimo anniversario della nascita, tutte le tessere hanno preso il loro posto ed è nato questo progetto».

A tal proposito, Andrea Zanzotto diceva che «l’irruzione dell’inatteso è fenomeno inevitabile». Il progetto nasce dunque per virtù di serendipità: ciò rappresenta in qualche maniera il «quid di fortuna» riservato a chi si dedica alla ricerca.

«Mi ritengo una persona fortunata ad aver avuto la possibilità di gettare una nuova luce anche su lavori di musicisti che vengono purtroppo definiti “minori” anche negli ambienti specializzati. Potrei dare mille spiegazioni, ma la verità è che questa ricerca mi appassiona: cercare un manoscritto o una stampa silenziosi per poi tradurli in gesto ed infine in musica è qualcosa che mi diverte ed emoziona, che dà un significato al mio lavoro di musicista. Se dovessi ripetere sempre lo stesso repertorio, mi annoierei da morire. Fortunatamente col tempo ho imparato a circondarmi di colleghi che condividono questa filosofia. Stefano Marcocchi è stato il mio insegnante (e lo sarà sempre, perché si ha sempre da imparare qualcosa da persone come lui) ed è anche il “colpevole” di questa mia mania per la ricerca: non avrei potuto incidere A due viole che con lui ed infatti sia le prove che la registrazione sono state quasi un viaggio di piacere, non un lavoro».

I Sei duetti a due viole accolti nel disco sono una trascrizione settecentesca dei duetti per due violini op. 3 di Barbella. Possiamo considerarla una testimonianza della fortuna di un compositore che, pur non appartenendo a quella che Dahlhaus chiamava “cultura dell’emigrazione”, riuscì a far apprezzare la sua musica anche al di là delle Alpi?

«L’Emigrantenkultur è piuttosto un fatto socio-economico, non filosofico o estetico. Dahlhaus propose questa teoria, venendo da una tradizione musicologica che stabiliva un canone essenzialmente germanico e fece tutto il possibile per denigrare la musica italiana. La teoria della Emigrantenkultur presuppone infatti un decadimento della musica strumentale italiana nel corso del Settecento, affermando che i compositori erano quasi costretti ad emigrare. Ora, non vorrei essere frainteso, ma credo che in un certo senso il delirio nazionalistico di Torrefranca avesse un motivo d’essere: l’Italia durante il XVIII secolo era il Paese della Musica. Dall’Inghilterra mandavano a prendere compositori, cantanti, musicisti e spartiti dall’Italia. Proprio in questi mesi una ricerca condotta dalla Hochschule der Künste di Berna ed intitolata Creating the Neapolitan Canon sta definendo l’entità del saccheggio musicale operato dalle truppe napoleoniche sul territorio italiano. Certo, gli italiani emigravano perché all’estero c’erano più soldi, ma anche perché in Italia c’erano troppi musicisti e troppa concorrenza, insieme a condizioni di lavoro insoddisfacenti. Facciamo un paragone con l’Italia di oggi. Io vivo nel Regno Unito da cinque anni. Qui arrivano regolarmente miei coetanei italiani altamente specializzati, più o meno fra i 25 e i 35 anni: ingegneri, farmacisti, architetti, cuochi, medici. Stanno emigrando perché in questi campi l’Italia sta decadendo? Non credo. Sono tutti morti di fame o disperati? Nemmeno. Spesso avevano già un lavoro in Italia. Credo piuttosto che il motivo sia che è sempre più difficile trovare una realizzazione personale nel nostro Paese. Quindi pensiamo a un Felice Giardini che arriva a Londra nel 1751, viene coperto di denaro, ha la possibilità di riformare l’orchestra del King’s Theatre, di lavorare sotto il mantello della casa reale, di organizzare concerti e stampare musica. In Italia avrebbe potuto fare tutto ciò? Probabilmente no».

Charles Burney non considerava certo Barbella un virtuoso del violino; tuttavia, scorgeva nelle sue composizioni, ricche di fantasia, «una impronta per nulla sgradevole di inconsueta estrosità». Questa not disagreeable madness sembra essere in effetti un suo tratto caratteristico. In quali punti dei Sei duetti è maggiormente riscontrabile?

«Su questo sono pienamente d’accordo. Barbella non era un virtuoso, probabilmente non era nemmeno un violinista eccelso. Vi sono dei tratti di «inconsueta estrosità» nei duetti, che tenderei ad indicare nell’Allegro Assai del Duetto n. 3 e nel Rondò del Duetto n. 5 descritto come al Gusto Inglese nel manoscritto (in pratica, una contraddanza, termine derivato dall’inglese country dance). Anche l’Andantino Compassionevole dello stesso Duetto mi pare quasi una parodia dell’incessante lamentoso dialogo fra due mendicanti nei vicoli di Napoli».

Lo storiografo britannico nella sua General History of Music ci informa inoltre che il carattere di Barbella «è dolce come il suono del suo violino». Dunque, in lui una inconsueta estrosità si fonde sublimemente a una amorosa affettuosità.

«Certo! La dolcezza, la cantabilità del musicista era una delle caratteristiche più ricercate in Inghilterra, e alcuni critici (fra i quali Burney) erano molto negativi nei confronti del virtuosismo fine a sé stesso. Poi arrivò Paganini, e tutto cambiò».

Dal 14 maggio al 25 giugno del 1770, Leopold e Wolfgang Mozart sono a Napoli. Lì incontreranno il «sig. barbella. Profeßore di Violino». Ne sarebbe testimone, probabilmente, anche un dipinto di Pietro Fabris, Salone dell’appartamento napoletano di Lord Fortrose con un gruppo di musici, conservato alla Scottish National Portrait Gallery di Edimburgo.

 

«Non sono un esperto di iconografia, ma pare proprio che non sia Mozart quello ritratto da Fabris. Però il nostro Barbella è presente (il violinista a destra nel quadro): fra l’altro quel dipinto rassomiglia anche all’unica stampa che abbiamo con il suo profilo. Ecco, com’è facile relativizzare tutto al grande nome! Piuttosto, bisognerebbe soffermarsi a pensare a quanto Mozart ha raccolto e rielaborato durante quei viaggi in Italia».

Dopo trecento anni, cosa ci racconta la musica di Barbella?

«Bella domanda. La musica di Barbella ci racconta che la maggior parte della musica da camera era nata per essere un divertimento domestico, un intrattenimento. È quasi impossibile al giorno d’oggi trovare qualcuno che voglia passare tempo a leggere musica per gioco, per il gusto di farlo, senza l’ansia da concerto. La musica di Barbella ci racconta che la bellezza non è solo epica (la gloria, il tormento ed amori non corrisposti), ma è anche una serata passata a guardare il mare con una buona bottiglia di vino. L’importanza dell’otium».

Quali sono i prossimi progetti con l’Ensemble Symposium?

«A marzo faremo una piccola tournée in trio d’archi con un programma dedicato ad autori italiani: Boccherini, Cambini, Cirri ed altre chicche deliziose. In ambito discografico, ultimamente mi ritrovo fra le mani sempre un certo Haydn, ma è ancora tutto in alto mare. Mi ha detto un produttore che bisognerebbe incidere solamente Mozart o Vivaldi, perché tanto non si vende nient’altro. Ma io sono molto testardo».

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