Denis Duval, soprano francese che fu la prima interprete, nel 1947, de Les mamelles de Tiresias, scatenato apologo sul femminismo di Francis Poulenc, è mancata il 25 gennaio 2016. Un divertito e divertente omaggio a lei e a Poulenc, di cui fu vera musa, con questo scritto di Cesare Orselli che ci racconta la folle, surrealista opera che Poulenc musicò dal testo di Guillame Apollinaire
-di Cesare Orselli-
Nel 1958, durante la composizione de La voix humaine, lungo monologo di una donna innamorata al telefono, Francis Poulenc scriveva all’amico baritono Pierre Bernac “Io sono decisamente un uomo di teatro”: imprevedibile dichiarazione di un autore di molta musica sinfonica e da camera, ma che, al momento, aveva al suo attivo appena due titoli operistici e il famoso balletto Les biches. Ma Poulenc, giunto tardi all’opera, forse aveva in mente i suoi stravaganti esordi teatrali, quando le sue Cocardes, ‘tre canzoni popolari’ di Jean Cocteau, erano state inserite in un curioso spettacolo che presentava anche il Fox-trot di Georges Auric e Le boeuf sur le toit di Darius Milhaud, con la partecipazione – addirittura “scandalosa” per una serata di musica colta – dei celebri clowns Fratellini del circo Medrano.
Quel 21 febbraio 1920, alla Comédie des Champs-Elysées, era stata la prima manifestazione di una nuova estetica, teorizzata da Cocteau nell’opuscolo Le coq et l’arlequin (1918), che intendeva chiudere con le nebbie e gli smarrimenti dell’impressionismo debussiano, con il rifiuto totale di ogni ideologia (niente grandeur francese, né tanto meno superomismo wagneriano), recuperando una grande chiarezza di mezzi espressivi, una predilezione per le forme meno nobili dello spettacolo (cabaret, circo, fiera, music-hall) che diceva addio, in primis, all’opera lirica tradizionale. Si costituiva così – cementato dall’intellettualismo sottile di Cocteau e sotto l’alto patronato del geniale Erik Satie – quel «Gruppo dei Sei» che negli anni Venti, a Parigi, sarà la formazione di punta dell’avanguardia musicale: un’avanguardia intesa a ripristinare i diritti dell’ espressione tradizionale, a rifondare un’arte “facile” rivolta al più largo uditorio possibile. Rifuggendo dalle lacerazioni dell’Espressionismo viennese come dalle raggelate compostezze di un certo Stravinskij neoclassico, assumendo polemicamente le forme dimesse dei piccoli complessi, e mutuando dalla musica leggera le melodie accattivanti, i martellanti ritmi squadrati, “moderni”, carichi di vita e di ottimismo, nasceva una provocatoria produzione di «banalité».
In questo clima, Poulenc aveva composto le musiche di scena (molto ammirate da Milhaud) per la “commedia buffa” Le Gendarme incompris di Cocteau-Radiguet-Mallarmé, destinate a un’altra divertente sortita collettiva del “Gruppo dei Sei”, come il successivo contributo al balletto Les mariés de la Tour Eiffel che nel 1921 avrebbe scandalizzato ancora il Théàtre des Champs-Elysées.

Francis Poulenc con Denise Duval, per cui creò i ruoli di Thérèse/Tirésias In ‘Les Mamelles de Tirésias’ e Blanche in ‘Dialogues des Carmélites’ (http://www.theartsdesk.com/classical-music/bbcso-morlot-barbican)
Tra queste scanzonate creazioni sceniche della giovinezza e la prima opera di teatro tutta di Poulenc, Les mamelles de Tirésias, iniziata quasi vent’anni dopo [1], è teso un solido filo rosso di continuità, rafforzata dalla tragicomica “cantata profana” del 1932 Le bal masqué, su testi di Max Jacob – l’amico dei cubisti, di Picasso e di Apollinaire -, e neppure intaccata da quella improvvisa riconversione al cristianesimo del nostro Francis che, pochi anni dopo, apre la porta a un’intensa parentesi di musica sacra. Poulenc aveva assistito il 24 giugno 1917, al teatro Maubel di Montmartre (scene di Serge Férat, musiche di scena di Germaine-Albert Birot) alla recita de Les mamelles de Tirésias, un “drame surréaliste” che il giovane Guillaume Apollinaire aveva iniziato nel lontano 1903: pubblico e stampa avevano gridato allo scandalo, e i pittori cubisti erano infuriati per le pesanti allusioni nei loro riguardi. Poulenc invece rimase affascinato dalla musicalità del testo, sottolineata dall’adozione di versi liberi, dalle gustose rime, dalle frequenti allitterazioni, e soprattutto dalla grottesca e fantasiosa immaginazione del soggetto, con il quale Apollinaire aveva gettato le basi, sette anni prima del manifesto ufficiale di André Bréton, di uno dei più importanti movimenti del Novecento: il surrealismo. Curiosamente, Erik Satie, alla première, aveva declinato l’invito di Apollinaire a scrivere le musiche per Les mamelles de Tirésias; così, fin dagli anni Trenta Poulenc aveva progettato di farlo lui; ma l’idea resterà a lungo nel suo cassetto, e ne verrà fuori in un momento a dir poco sconcertante per la storia politica della Francia: nel 1944[2], durante gli anni della occupazione tedesca; quasi che Poulenc, con questa imprevedibile scelta, volesse prendere le distanze dalla tragedia del quotidiano rituffandosi nell’antica dimensione del divertissement puro, o quasi; un salutare bagno di chiarezza, una serena divagazione in un clima umanamente teso e desolato.

Invito (http://www.nouvellefribourg.com/archives/le-corps-hybride-sur-la-scene-dapollinaire-les-mamelles-de-tiresias/)
Apollinaire, ancor più di Cocteau, era stato il poeta prediletto delle mélodies di Poulenc (“E’ con Apollinaire che io penso di aver trovato il mio vero stile melodico”[3] dichiarerà nel 1964); così, dopo aver posto in musica i suoi Montparnasse, Le bestiaire, Calligrammes, Banalités e Sept chansons per coro, Poulenc ritorna al clima della sua giovinezza recuperando quel dramma paradossale ispirato (ma con quali feroci trasformazioni, di gusto, appunto, surrealista) a un personaggio della mitologia greca, l’indovino Tiresia, emblema dell’androginia. Un esilarante apologo sul femminismo modernista e su un tipico problema della società francese di quegli anni: il calo della natalità, per il quale il governo aveva addirittura stabilito licenze speciali per i soldati in guerra affinché potessero ricongiungersi regolarmente con le proprie mogli.
Come in un’opera barocca (e magari nei Pagliacci), nel Prologo, in “ton familier” il direttore del teatro espone al pubblico e al suo “bon sens” l’assunto dell’opéra bouffe: “Reformer les moeurs” (ma attraverso scene divertenti), e rivolge alle famiglie francesi l’invito fondamentale: “faites des enfants/ vous qui n’en faisiez guère”, una frase che ritornerà più volte, concludendo trionfalmente le Mamelles de Tirésias. I due brevi atti sono ambientati da Apollinaire a Zanzibar, per sottolineare l’ assurdo del soggetto; ma Poulenc sposta l’azione sulla Costa Azzurra, regione privilegiata del giuoco (d’azzardo), sbarazzandosi dell’elemento esotico, così come di scene e costumi di ispirazione cubista.
Protagonista è Teresa che, insofferente della sua condizione di donna succube del marito, rinuncia agli attributi della sua femminilità: due seni, rosso e blu, che scoppiano in aria, mentre le crescono barba e baffi. E’ la prima scena, chiave di tutta l’opera, un vero capolavoro musicale, in cui Poulenc riveste le aspirazioni della femminista Teresa a nuove professioni (il soldato, il medico, il telegrafista, il presidente della Repubblica…) con gustosi effetti onomatopeici, risate stilizzate, abbandoni sensuali su ritmo di valzer, e uno scatenato finale in “passo spagnolo”, quando Teresa sogna di fare il torero (Toréador, si ricordi, era stata la prima lirica di Poulenc, su testo di Cocteau), e davanti allo stupito marito si trasforma in maschio, assumendo il nome di Tiresia e tirando dalla finestra vaso da notte, orinale, violino.
Come in una vecchia opera barocca, un intermezzo buffo – che diverrà tragicomico – presenta due personaggi ubriachi, Presto e Lacouf, che escono da un caffè su uno scatenato ritmo di polka litigando tra loro (uno ha perso ai dadi, al gioco dello “zanzi” [la zara]: siamo o no a Zanzibar?): ne nasce un divertentissimo duetto in cui spira un’aura da operetta molto offenbachiana e che richiama molto il “Duo de la Chartreuse verte” ne L’Etoile di Chabrier[4]; poi, i due si sparano e si uccidono a vicenda. Gli abitanti di Zanzibar, leggendo il giornale, apprendono la notizia e cantano un patetico requiem ai due amici: una pagina in stile di corale che lo stesso Poulenc riteneva potesse essere “riciclata” come musica sacra[5]. Il Marito, legato da Teresa, viene scambiato per una ragazza da un poliziotto che gli fa la corte, e decide che se la donna rinuncia alla sua condizione, dovrà essere l’uomo a fare figli. Presto e Lacouf rinascono e in pattini si uniscono al coro degli Zanzibariens per celebrare la nuova natalità maschile e l’inversione dei ruoli sessuali (come non pensare all’omosessualità diffusa fra gli intellettuali nella Parigi primo Novecento?). E’ una grande scena concertata in cui gli ammiccamenti all’opera romantica s’intrecciano (nel finale), con una scrittura contrappuntistica di gusto barocco, mentre la vena tenera e malinconica del più tipico Poulenc emerge, curiosamente, anche negli episodi più buffi relativi al Marito, che canta ormai con toni flebili e quasi femminei.
Nel II atto, si è compiuto il miracolo: il Marito ha messo alla luce in una sola volta 40.049 bambini, che lo apostrofano “Papà” (come i figli presunti del barone Ochs nel Rosenkavalier); a un giornalista che lo intervista mostra quali grandi ricchezze ha già ottenuto da due figli, un “accaparratore di latte cagliato” e un romanziere, e sogna che gli altri divengano personaggi importanti, anche se uno, già di 18 anni, lo ricatta con pretese di denaro. Interviene ancora il poliziotto, preoccupato che la nazione debba sfamare tutti quei bambini. Sono rapide scene in cui la vena spiritosa di Poulenc continua a sostenere la balorda azione, ma senza i vertici esilaranti raggiunti nel primo atto, anche se la voce continua a svolgere in modo eccellente, con continue trovate, il suo compito di trasmissione dell’esilarante messaggio poetico di Apollinaire. Il Marito suggerisce allora di chiedere consiglio a una cartomante, che entra in scena con un fascinoso vocalizzo cromatico: è Tiresia-Teresa che si riconcilia finalmente col Marito, danzando un “amoroso” (scrive Poulenc) valzer sentimentale: “Il faut s’aimer”, ed invita il popolo a fare figli: uno scatenato finale, che ha qualcosa di un ballo da rivista, in cui tutti si trovano festosamente d’accordo.
[1] I primi abbozzi risalgono al 1939, anche se Poulenc scrive in calce alla partitura “Maggio-Ottobre 1944”.
[2] Ma l’opera giunse sulla scena all’Opéra-Comique di Parigi il 3 giugno 1947: interprete, la spiritosa e affascinante Denise Duval, che Poulenc vorrà ancora per i suoi Dialogues des Carmélites e per La voix humaine. Una straordinaria intesa, su cui si può leggere B. BERENGUER, Denise Duval, Symétrie, Parigi 2004.
[3] F. POULENC, Journal de mes mélodies, Grasset, Paris 1964, p. 24.
[4] M. HARRISON, Fruits bizarres d’une imagination fertile, booklet del CD Philips Les mamelles de Tirésias, dir. S. Ozawa.
[5] Cfr. R. MACHART, Poulenc, Seuil, Parigi 1995, p. 148.
Immagine di copertina: Mireille Asselin (Thérèse) in Les mamelles de Tirésias, Wolf Trap Opera (photo by Teddy Wolff)