Cos’è una missione di pace? E com’è la vita in quei sei mesi lontano da casa? A marzo di quest’anno Giuseppe Cabras è andato in Libano coi nostri militari e ce lo racconta con le sue parole, ma soprattutto con la forza delle sue immagini.
IN LIBANO LA PAROLA “PACE” SI SCRIVE IN ITALIANO. Più di mille soldati italiani impegnati nella missione “Leonte”
La pace in Medio Oriente passa per i peacekeepers italiani in Libano. I millecento soldati del nostro Paese schierati nel quartier generale di Shama (Simeone in arabo, non a caso è la città dove è sepolto il santo profeta della Bibbia) e in altre vicine, infatti, presidiano la Blue Line: la linea di demarcazione tra Libano e Israele realizzata per garantire la coabitazione pacifica tra i due paesi in guerra praticamente dalla fine degli anni quaranta. Un contingente internazionale enorme, più di mille militari da undici paesi, una logistica da fare invidia alla Nasa. E proprio nel compound di Shama vivono e combattono, quando necessario, gli uomini dell’operazione “Leonte”. All’inizio del 2015 le frizioni con Israele si sono riacutizzate fino a concretizzarsi in uno scambio di colpi con Hezbollah, che sono costate la vita ad un casco blu spagnolo.
E’ solo in questa base che si può comprendere come sia complesso guidare una operazione di pacificazione internazionale, efficiente e utile a mantenere la pace in un paese del Medio Oriente che non vuole assoggettarsi a una logica di scontri, divisioni e violenza, dove il fanatismo religioso non ha fatto breccia e la popolazione, dopo 66 anni di guerre, ha solo voglia di esistere e prosperare.
La base di Shama si affaccia sul mare da una collina, l’alzabandiera risveglia le attività anche se le pattuglie che percorrono la Blue Line, confine conteso con Israele e strettamente sorvegliato da entrambe le parti, entrano ed escono dai cancelli senza sosta.
Permettere al ricostituito esercito libanese di schierarsi a difesa dei confini e vigilare affinché nuovi incidenti non portino ad una escalation con Israele fa parte della risoluzione 1701 dell’ONU che nel 2006 ha generato la missione. La stessa dovrebbe ultimarsi solo quando venisse completata la posa dei “blue pillars” – piloni di cemento dipinti di azzurro che marcano i confini – e l’esercito libanese – ricostituito e formato dalle nostre professionalità – tornasse autosufficiente ed in grado da solo di mantenere il controllo dei confini e delle problematiche interne legate a Hezbollah.
Il recente episodio del 28 gennaio 2015, che è costato la vita a un soldato dell’Onu di pattuglia nella zona controllata dai militari spagnoli, ha causato un innalzamento del livello di allerta, anche se al quartier generale italiano il comandante, generale di brigata Del Col, si augura che si sia trattato solo di un tragico incidente. Per questo i giornalisti e i fotoreporters “embedded”, come gli operatori televisivi, si muovono sempre scortati, a bordo di mezzi blindati: dai famosi Lince, ai meno noti ma rassicuranti carri armati su ruote, i Blindo-Centauro; e le opportunità di vedere cosa c’è fuori dalla base non sono tante. E’ così che diventa attrattiva ed interessante la vita degli uomini in missione e l’opportunità di fotografare i momenti intimi della loro giornata non va sprecata. Cento diverse professionalità sono a disposizione dei media: militari operativi, logisti, amministratori, medici, esperti di relazioni e tecnici di qualunque settore che trascorrono le loro missioni semestrali tra turni di lavoro e meritato riposo.
La presenza del contingente italiano è importante anche per la popolazione che vive nei pressi della base: sono molti i libanesi che si presentano ai cancelli per ottenere assistenza medica. A loro non fa fronte il sistema sanitario nazionale, che è privato come quello americano e che quindi non garantisce i più disagiati. Nella base di Al-Mansouri, pochi tornanti più in basso dell’ Headquarter UNIFIL di Shama, i medici affrontano ogni giorno emergenze prevalentemente scaturite da incidenti domestici e riforniscono di medicinali chi ne resta sprovvisto o non può acquistarli. Un colonnello medico originario della Puglia ci mostra sul telefonino le immagini che testimoniano i miglioramenti di una piccola gravemente ustionata tornata a una vita normale grazie a cure assidue e competenti che diversamente non avrebbe mai ricevuto. La gratitudine di chi riceve aiuto ripaga i medici militari e dai loro occhi e dalle loro parole trapela l’orgoglio di aver fatto del bene senza chiedere nulla, ottenendo in cambio affetto e sorrisi.
Tutti questi uomini (e donne) vivono a stretto contatto, lontani da casa per turni di sei mesi, motivati dallo spirito della missione e non solo, come sarebbe facile insinuare, da un’indennità di servizio adeguata all’incarico internazionale. Qui si avvicendano le èlite, ed è percepibile standoci in mezzo. Al termine di ogni giornata, dopo che il tricolore è calato dall’asta sempre incorniciato da tramonti imponenti, mentre le sentinelle del contingente armeno montano di guardia sulle torrette e in lontananza si sente il rombo dei motori di una pattuglia in partenza, il personale della base si rilassa, la mensa si riempie, così come i bar, le palestre e tutti gli ambienti comuni. Mariti, mogli, fidanzati, figli: chi chiama casa su skype, chi ripone la divisa e si rilassa in camerata, chi finalmente si dedica a un po’ di attività sportiva, chi addirittura guarda in tv una partita di calcio della squadra del cuore seduto in branda insieme al cane da esplosivi che lo accompagna in servizio. Una casa lontano da casa, sensazione corroborata dall’appartenenza di questo contingente alla stessa brigata, la “Pinerolo”, di stanza a Bari e attualmente impegnata nell’operazione Leonte XVII. Chi ne fa parte sa che senza l’impegno profuso dalle forze ONU il paese sarebbe preda di violenze e ingerenze, e la popolazione ne soffrirebbe ancora, di nuovo e chissà per quanto tempo.
La comune percezione di precarietà induce a considerare cosa sarebbe di questo paese se i caschi blu di UNIFIL non presidiassero la fragile tregua libanese.