-di Silvia Poletti –
Helena Waldmann denuncia attraverso la nobile tradizione della danza Kathak, la schiavitù del lavoro nelle industrie tessili in Bangladesh. Prima che l’orribile strage di Dacca ci facesse rammentare anche questo (alcune vittime erano imprenditori nel tessile), ma dopo il terrificante crollo del Rana Plaza, edificio commerciale che conteneva alcune fabbriche di abbigliamento: 1.129 morti.
E’ proprio degli artisti catturare lo spirito dei tempi, percepirne gli umori, anticiparne gli accadimenti. Inconsapevolmente, magari. E simbolicamente. Ma quando le cronache irrompono con le loro tragedie, gli spettacoli che in qualche modo le hanno percepite e insinuate negli sguardi degli spettatori diventano una ulteriore chiave di lettura per comprendere gli incomprensibili perché.
Come si può leggere ora Made in Bangladesh, spettacolo in prima nazionale al Festival Bolzano Danza il 20 luglio? Firmato da Helena Waldmann un’autrice cresciuta con Heiner Mueller e George Tabori, Bob Wilson e Gerhard Bohner Made in Bangladesh è un atto di denuncia fatto attraverso la più antica e nobile tradizione di danza indiana, la Kathak, delle condizioni di lavoro delle industrie tessili che popolano il Paese.
Lo sguardo di un’europea, da sempre attenta alle problematiche sociali del mondo globalizzato e allo stesso tempo estremizzato ideologicamente, irrompe come un urlo sordo ad appena poche settimane dalla tragedia dell’assalto terroristico di Dacca: “Una tragedia che colpisce noi occidentali e ci lascia sgomenti. Ma già nel 2013 a Dakka un’altra tragedia apriva la voragine sul divario tra l’occidente e lo sfruttamento di quella popolazione, per lo più costretta a lavorare in condizioni inumane. Il crollo della fabbrica tessile e la morte di oltre mille e cento persone ci mise di fronte ad una situazione parossistica.”
In verità Helena aveva iniziato il suo lavoro di drammaturgia già nel 2010 intervistando decine di lavoratori delle industrie pachistane: “ ero rimasta impressionata dal lavoro di questi operai. Dai luoghi dove lavorano. Palazzi scuri e altissimi, con finestre mai aperte. Sembrava di essere nel film di Fritz Lang Metropolis, Alveari umani. Mi ha subito attratto l’idea di capire cosa pensassero quelle persone costrette a lavorare in quel modo”.

La Torre di Babele, Metropolis, film di Fritz LangLang Metropolis.
E la risposta a tratti è risultata a tutta prima incredibile: “ alcuni hanno mostrato il loro orgoglio nel far parte del mondo della moda. Alcune donne hanno confermato la loro soddisfazione nell’essere indipendenti economicamente e per il fatto che possono vivere in città e non nei villaggi, sotto la supervisione della famiglia. Non dimentichiamo che il Bangladesh è un paese islamico. Eppure le donne stanno mostrando una volontà di emanciparsi. Con i pochi soldi che guadagnano al lavoro possono garantire un’istruzione ai propri figli. Tante sarte – racconta ancora la Waldmann- mi hanno detto che non vogliono che le loro figlie si trovino un giorno a lavorare nelle loro condizioni.”
Di quelle ‘farfalle’, come le ha chiamate l’artista colpita dai colori degli abiti leggeri indossati da quelle sarte instancabili, sedute alle macchine fino a sedici ore al giorno, Made in Bangladesh cerca appunto di raccontare la vita, i sogni, le frustrazioni.
Waldmann,che non è coreografa pura ma ‘regista di danza’ usa il vocabolario dei gesti per la forza simbolica che hanno. Così l’uso del Kathak ( qui regolato da Vikram Iidyegart) viene sottolineato perché idioma coreografico di quella terra, ma in questo caso è destrutturato dagli stilemi classici e ricontestualizzato in una scena che rievoca uno stanzone di fabbrica, ricoperto di tavoli e di macchinari. Con metodo documentaristico Helena e i dodici danzatori hanno seguito in loco il lavoro puntiglioso e senza sosta delle lavoranti, spesso concentrate su piccole parti di un tessuto che verrà assemblato altrove.
Senza i sonagli della tradizione il ritmico energetico battito dei piedi, l’accurata gestualità delle braccia diventano rimandi al rumore eterno dei macchinari, allo zelo del dettaglio. “ io sono un’artista – dice Helena Waldmann, che in passato si è occupata attraverso il teatro di danza della condizione femminile in Afghanistan e in Iran – e anche se non è il mio linguaggio di formazione trovo che la danza possa dire tutto. Anche di chi proibisce al corpo di esistere, non parliamo di muoversi. “
Ma l’arte deve essere politica? “ Innanzi tutto faccio arte- spiega- anche se talvolta l’arte deve diventare necessariamente politica. La mia esperienza in Bangladesh è filtrata allo spettatore attraverso la mia visione, e sensibilità. Ma è importante che arrivi in qualche modo. Perché in occidente, non immaginiamo cosa ci sia dietro a quelle magliette alla moda che vogliamo comprare assolutamente per pochi euro.” Oggi, anche in seguito alle ultime tragedie c’è da scommettere che ci staremo più attenti.