-di Silvia Poletti-
Il ritorno di Mikhail Baryshnikov in Italia con il suo spettacolo omaggio a Josef Brodsky -poeta premio Nobel, esule e sodale (a Napoli Teatro Festival il 28 e 29 giugno, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dal 3 al 5 luglio e alla Fenice di Venezia dal 13 al 15 luglio) – ci offre l’occasione per ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, perché siamo di fronte a un artista leggendario.
Non tanto per la sua vicenda personale, certo già di per sé appassionante fin dalla defezione dall’Unione Sovietica, nel 1974. Questa la cronaca: durante una tournée del Balletto del Kirov di Leningrado a Toronto, sebbene controllato a vista dagli agenti del KGB, Baryshnikov guadagnò di soppiatto l’uscita artisti del teatro e si infilò in un’auto che lo condusse via. Si favoleggiò che dentro ci fosse la figlia di un eminente politico canadese, affascinata dal danzatore. Chiunque fosse, il ventiseienne ballerino raggiunse così la libertà, terzo per eco mondiale, dopo Rudolf Nureyev e Natalia Makarova. E’ piuttosto proprio la sua personalità artistica, grazie alla quale Baryshnikov ha compiuto una carriera eccezionale, ma anche ha aperto inattese vie di progresso all’arte dell’essere danzatore.
Fusione perfetta tra atletismo, tecnica smagliante e inarrivabile souplesse – con un salto felpato e senza peso che letteralmente toglieva il fiato alle platee e giri adamantini, elastici e vorticosi e un legato di rara musicalità. All’inizio il danzatore conquistò nei ruoli classici (anche quelli che al Kirov gli era proibito danzare, dato il suo fisico non sufficientemente nobile ed elegante per i canoni accademici). Quasi subito però si capì che il suo corpo era pronto ad assorbire, elaborare e restituire ben altro- a padroneggiare con uguale maestria danza classica e jazz, contemporaneo e broadway style. A regolare ogni assetto fisico, infatti, c’era un’intelligenza vigile, curiosa, esigente. E totalmente devota all’apprendimento e alla comprensione di cosa il pensiero coreografico avesse saputo generare, in tutti gli stili e estetiche, in due secoli di danza teatrale. Già nei primi quattro anni all’American Ballet Theatre il giovane transfuga aveva creato con Neumeier (Hamlet Connotations) e Jerome Robbins (Other Dances), John Butler ( Medea) e Alvin Ailey ( Pas de Duke). Senza contare Twyla Tharp, che gli aveva confezionato lo strepitoso Push comes to shove, una sorta di extravaganza in cui il Mikhail sembrava squagliarsi come neve al sole e poi rimbalzare come gomma, volteggiare e fendere l’aria nei più eterei dei tour en l’air e improvvisamente atteggiarsi in un inequivocabile gesto dell’ombrello: un inno al ‘take it easy’ e l’ingresso ufficiale di Baryshnikov nel mondo della danza contemporanea tout court.
Ma fu quando il ballerino scelse di andare a lavorare con George Balanchine che si capì veramente di cosa era fatta la sua urgenza artistica. La scelta di lasciare l’American Ballet Theatre che l’aveva accolto trionfalmente per lavorare con il leggendario coreografo pietroburghese al New York City Ballet (a paga sindacale e senza ordine gerarchico), con il senno di poi la dice lunga. Facendo così Baryshnikov anteponeva la necessità di ‘conoscenza’ e approfondimento della sua arte a tutto il resto: “ voglio essere uno strumento nelle mani di Mr Balanchine” aveva infatti dichiarato; e Balanchine di ritorno: “sono felice non perché arriva una superstar, ma perché arriva un danzatore.” C’est tout.
Perché di fatto, anche in seguito, quando gradualmente abbandonò la danza classica in purezza e si trasformò in un eccezionale danzatore contemporaneo, si comprendeva che dietro quel movimento sempre nitido, elegante, intelligentemente stilizzato e sinteticamente raffigurante la poetica di ciascun autore interpretato, c’era una straordinaria intelligenza interpretativa e una visione della danza assoluta. E così Baryshnikov ha spaziato per tutto lo spettro della danza di oggi, attraversandolo con quell’incredibile apparente facilità nel generare ogni tipo di movimento, come se fosse solo quello possibile e ‘giusto’ per quella certa danza.
Certo il suo legame con l’America, che l’ha adottato totalmente, lo ha trattenuto dall’approfondire la conoscenza con i massimi autori europei del nostro tempo – salvo una piccola felice parentesi con Mats Ek e Bejart- ma sono solo valutazioni minori nel contesto di una lezione artistica straordinaria. La quale, oltre ad avere dimostrato che un danzatore può essere longevo e contribuire all’arte anche in età matura, nel caso di Baryshnikov più di altri si è gradualmente ampliata ad altre esperienze creative. Fin dal 1978 arrivò il cinema con un film ben fatto sulla vita in una grande compagnia di balletto ( Due vite una svolta di Herbert Ross, con Anne Bancroft e Shirley McLaine); poi, in pieno reaganismo, fu interprete del discutibile White Nights, con Isabella Rossellini e il grande tap dancer Gregory Hines, dove però ebbe il merito di lasciarci alcune meravigliose sequenze di danza.
Poi la televisione con special vincitori di Emmy (come quello con Liza Minnelli dedicato al musical) e apparizioni in serial cool come Sex & the City, in cui, seducente e ombroso scultore russo, veniva ohimè piantato a Parigi dalla svalvolata Carrie per il futile Mr Big.
E anche la fotografia, al punto che i suoi scatti – impressionisti, spesso sciabolate di colore che rendono idea delle dinamiche della danza- sono considerati opere d’arte ed esposti in gallerie d’arte come la Contini di Venezia. Negli ultimi anni è il teatro che però sembra attrarre maggiormente la sua attenzione. Sono sempre progetti sofisticati, calibrati sulla sua personalità ma allo stesso tempo fortemente autoriali per testi, scelte registiche e mises en scene. Ancora palpita nella memoria, visto al Festival di Spoleto sei anni fa, il crespuscolare, malinconico e struggente In Paris del Nobel Ivan Punin in cui, diretto da Dmitry Krymov, Baryshnikov interpretava un generale dell’Armata dello Zar in esilio,solitario e malinconico, che nell’umile grazia di una cameriera ritrovava una speranza di vita. Anche qui a colpire era la sua sobrietà, la capacità di andare all’essenza del personaggio, ed evocare il suo mondo fatto di rimembranze e nostalgie con gesti scarni e voce sommessa. Con Bob Wilson ha virato sul grottesco e il surreale in due pieces ancora legate alla Russia – The Old Woman di Daniil Kharms e Letter to a Man dai diari di Nijinsky.
Ma è con Brodsky/Baryshnikov che compie un passo ulteriore nel testimoniare come l’arte, lo afferma spesso, sia il fondamento della sua vita.
Perché in questa piéce dedicata alle poesie del Premio Nobel 1984, Baryshnikov ha scelto di rivelarci molto anche della sua anima: attraverso le nostalgie, i rimpianti, i sogni e il gusto per la vita che lo accomunavano al poeta Brodsky, che il destino gli concesse di conoscere a New York e di trasformare nel suo mentore e sostegno, guida culturale e amico fraterno. Un omaggio sentito, intenso, commosso, che diventa anche una chiave per comprendere la personalità segreta di questo artista sommo, affascinante ed elusivo, pronto a deviare dalle strade più facili e inoltrarsi in quelle più ardue e sconnesse. Che non si è fatto relegare ad icona pop e proprio per questo, ancora oggi, a settant’anni suonati è ammirato, amato, rispettato dal pubblico di tutto il mondo, il quale comprende di essere di fronte a un maestro d’arte. Di quelli veri.