– di Stefano Fabbri –
Il silenzio è assordante. E anche gli applausi lo sono
Mario Draghi ne ha ricevuti molti, non inaspettati ma comunque tanti. Anche da coloro i quali avrebbero preferito farlo tra un po’ di tempo, quando magari Supermario sarebbe asceso al colle più alto. Eppure in questo frangente, cioè quello della fiducia all’ex numero uno di Bce nel suo nuovo ruolo di presidente del Consiglio, in pochi si sono tirati indietro dal battere le mani, sebbene la convinzione condivisa che la sfida tra le forze politiche è solo rinviata. Magari a subito dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica nei primi mesi del prossimo anno. Chiunque sarà.
Non si è trattato certo di una folgorazione dovuta all’intervento di investitura pronunciato da Draghi al Senato ed inviato alla Camera. E tantomeno alle sue repliche. Un intervento considerato oracolare, ma se ben si guarda di un profilo volutamente più basso rispetto alla statura del nuovo capo del governo.
Un discorso normale, con a tratti affermazioni al limite del banale
Ma non poteva essere diversamente. Draghi, secondo le previsioni avrebbe dovuto parlare per una decina di minuti. Ne ha impiegati quasi sessanta. La regola aurea dei dibattiti parlamentari è che se devi dire poco servono più tempo e più parole. E per lui non c’è stata eccezione. Del resto non avrebbe potuto dire di più: ogni virgola ed ogni pausa avrebbero finito per essere interpretati secondo la bussola politica che orienta i partiti e le coalizioni.
Il tempo e le parole sono innanzitutto servite per smussare, precisare, limare e addolcire alcuni concetti espressi da Draghi in modo che sarebbe stato impossibile coglierne una sfumatura di parte. Così la fondamentale riflessione sull’importanza di pensare al futuro e alle prossime generazioni si è tradotta in una delle domande che ci si può fare tra due amici al bar davanti ad una birra, e cioè se abbiamo fatto per i nostri figli quanto i nostri padri hanno fatto per noi, ma in un modo sufficiente per scatenare la ola di politici ed opinionisti.
L’affermazione che le riforme non possono essere fatte dopo, ma nel mentre si affronta la pandemia hanno fatto spalancare bocche che in altre occasioni avrebbero increspato scetticamente il labbro di fronte ad un simile concetto. Rilevare che spesso coltiviamo un concetto del nostro Paese immeritatamente peggiore di quanto lo abbiano in altri angoli dell’Europa ha provocato una spellatura delle mani. Se, parlando del clima, avesse detto che non esistono più le mezze stagioni qualcuno lo avrebbe candidato al Nobel.
Il nodo Recovery Plan
Unico elemento divisivo è stato il passaggio il cui ha ringraziato il suo predecessore ed ha dichiarato che sul Recovery Plan il governo Conte ha fatto un “grande lavoro” per il quale a lui resta solo da “approfondire” i vari punti del piano.
Ma in quel momento gli orecchi di chi si aspettava, avendola chiesto a gran voce, una riscrittura completa del piano da oltre 200 miliardi sono rimasti chiusi. Hanno fatto finta di non sentire. Così come quando, ha detto con chiarezza che dalla crisi ci saranno da salvare tutti i lavoratori ma non tutte le imprese. Pronto… pronto… è caduta la linea… non sento. Perché nella finta piattezza del suo discorso di cose Draghi ne ha dette. Ma il festoso quanto effimero clima di unità non poteva essere rotto da queste quisquilie che potrebbero però diventare macigni sulla strada del governo.
Un governo per la cui formazione Draghi ha usato la stessa tecnica: un apparente ecumenismo, ai limiti del consunto manuale Cencelli con il quale si dosavano le rappresentanze in base alla forza (presunta o effettiva) dei partiti, con il quale ha rivelato alla politica di non essere (ancora) morta. Ma se si analizza bene la composizione dell’esecutivo non può sfuggire che il nocciolo duro è costituito da “suoi” ministri, personalità che provengono dal mondo delle banche e dell’impresa. Il resto, almeno secondo le sue intenzioni, è destinato a fare volume.
Ed i partiti lo sanno e stanno, per ora, al gioco
Un gioco nel quale si punta al rimescolamento di carte usando le fiches che ogni forza politica ha a propria disposizione: Forza Italia e, più veementemente, Italia Viva rivendicando la primogenitura dell’idea di un governo di tutti, la Lega dimostrando la sua faccia più sorridente nei confronti degli imprenditori del nord che hanno folgorato Salvini, novello San Paolo, sulla via della tentazione di elezioni, il Pd che sogna di tornare di lotta e di governo, Leu che scommette sulla dimostrazione scientifica della scissione dell’atomo dividendosi tra favorevoli e contrari, il Movimento 5 stelle che paga la sua lealtà al nuovo governo lasciando sul campo un manipolo di morti e feriti ed una ormai concreta scissione, Giorgia Meloni ed i suoi Fratelli che punta ad un incasso elettorale ma senza rischiare troppo. Come chi alla roulette punta sul rosso o sul nero.
In questo caso, più tentata dal nero. Un gioco, appunto. Ma il gioco vero, anche se ripugna definirlo così, è quello delle azioni concrete sulle quali effettivamente si misurerà Draghi e sulle quali i cittadini potranno a loro volta misurarlo e forse capire davvero se dietro al siluramento di Giuseppe Conte ci sia stato o meno l’interesse nazionale o quello più oscuro di qualche potentato. Il gioco si chiama “Batti il virus”.
Come affronterà il nuovo governo la partita delle vaccinazioni?
E come il nodo del blocco dei licenziamenti sul quale Confindustria ha posto una pesante ipoteca? E, al di là delle pur importanti dichiarazioni d principio sul primato dell’istruzione, come scioglierà il nodo dell’organizzazione della scuola? Come risponderà, lui che viene considerato a ragione un vero e proprio passaporto di credibilità nei confronti dell’Europa, all’annuncio – ignorato dai media – con il quale il vicepresidente dell’Unione Valdis Dombrovskis, ha prospettato per il 2022, cioè tra una manciata di mesi, la riattivazione delle regole sui conti pubblici previste dal Patto di stabilità e di crescita con le quali l’Italia piegata economicamente dalla pandemia Covid potrebbe tornare a misurarsi anche se non uscita del tutto dal tunnel del virus?
Il vero discorso di insediamento di Draghi si dipanerà lungo questi temi e non nei 53 minuti impiegati in Senato per tratteggiare un percorso sufficientemente generico da non suscitare mugugni. E, anche in questo, Draghi si sta dimostrando il più politico dei tecnici finora conosciuti.