La geometria in trionfo al Donizetti Opera Festival

Il Donizetti Opera Festival compie 5 anni e Francesco Micheli fa trionfare la geometria

di Attilio Cantore

Festeggiare un lustro di attività musicale è senza dubbio un traguardo ma è anche una sfida per il futuro. Lo è soprattutto in una Italia troppo spesso disinteressata alla sua storia e ai fasti culturali d’un tempo: sicché tanto cronicamente parsimonioso è Papà Ministero quanto pervicacemente dispendioso è ognora il sogno musicale dei Teatri. Sotto la direzione artistica di Francesco Micheli, amazing figure of capable imagination, il Donizetti Opera giunge fra la bergamasca liesse alla sua 5a edizione, concludendosi il 1° dicembre con l’ultima recita di Pietro il Grande kzar delle Russie, titolo rientrante nel ciclo #donizetti200.

Francesco Micheli

Era infatti il 26 dicembre 1819 quando un Donizetti ventiduenne presentava per la prima volta questo melodramma burlesco in due atti al Teatro San Samuele di Venezia, seguendo di un anno il suo debutto operistico con Enrico di Borgogna e la farsa Una follia.

Il libretto venne confezionato dal marchese ferrarese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini, giovane scenografo e letterato («benché si protesti assolutamente non essere egli né Pittore, né Poeta»), fresco della collaborazione con Andrea Leone Tottola per la stesura del testo dell’Eduardo e Cristina musicato da Rossini (Venezia, Teatro San Benedetto, 24 aprile 1819); sempre lui, l’anno precedente, aveva scritto (questa volta da solo) il libretto dell’Adina, o Il califfo di Bagdad, rappresentata poi nel 1826. Il soggetto di Pietro il Grande è desunto da una fortunata commedia di Alexandre Duval, Le menuisier de Livonie, ou Les illustres voyageurs (Parigi, Théâtre de l’Impératrice, 9 marzo 1805), pubblicata in lingua italiana nel 1816; rappresentata all’Anfiteatro della Stadera di Milano (estate 1817) e al Teatro Valle di Roma nel 1818. Il falegname di Livonia piacque così tanto che anche Felice Romani ne trasse il testo di una commedia, musicata dal catanese Giovanni Pacini (Milano, Teatro alla Scala, 12 aprile 1819). A Felice Romani certamente Bevilacqua Aldobrandini dovette giocofòrza ispirarsi. Il risultato finale è un mélange di patetismo e cocasserie, saporitamente farcito con una moltitudine di riferimenti letterarî e librettistici: si va dalla scanzonata parodia del miglior repertorio metastasiano1 a succulente citazioni de Le Nozze di Figaro di Lorenzo Da Ponte.2 Come si legge nello scritto introduttivo del libretto, Il libro dell’opera al romanticismo, «Io non sono un parto d’ingegno poetico, sono un aborto sortito in luce, a discrezione del caso, ed all’impulso di varie combinazioni».

Anche a livello musicale l’opera rivela un Donizetti dedito al riciclaggio combinatorio, alla riarticolazione della tradizione e ad una sua parafrasi. Il compositore bergamasco, nel 1819 ai primi esordi della sua carriera, attinge a piene mani e senza troppi complimenti alle partiture di Mozart, Rossini e Mayr: la citazione sconfina nell’omaggio affezionato, ma è prima di ogni cosa da considerarsi come un infallibile atout giocato per assicurarsi scaltramente l’applauso del pubblico in sala. Ciononostante, scorrendo la partitura si riscontrano sovente pregevoli soluzioni armoniche (caratterizzanti le modulazioni ai toni lontani) e una generale felice invenzione melodica, a dimostrazione che Donizetti, pur alle sue primissime esperienze teatrali, era già capace di inscrire sa propre marque. Come ha giustamente affermato Rinaldo Alessandrini, «Pietro il Grande risulta un passo obbligato, forse scomodo, ma comunque un passo di rilievo». Ad ogni buon conto, non sarà peregrina o precipitata l’idea di identificare nel ritaglio il paradigma formale e fondante del Pietro il Grande di Donizetti. In questo melodramma burlesco esiste e insiste, infatti, una sovranità del ritaglio di cui la citazione è l’indispensabile “anello che tiene” (per ripiegare su sé stessi i celebri versi montaliani, facendone calco del loro opposto). Come si evince, tanto a livello testuale quanto musicale, la citazione assurge dunque al rango di diapason della fluitazione delle scene, imponendosi come autentico poteau d’angle, trave angolare dell’intero tessuto drammaturgico dell’opera. 

La trama è molto semplice ed è presto detta. Lo zar Pietro (proprio lui, Pëtr Alekseevič Romanov in persona!) giunge in incognito «in un ricco, e popolato Borgo della Livonia», presentandosi come il generale e consigliere «Menzicoff [Aleksandr Danilovič Menšcikov] di Pietro il Grande / celeberrimo boiardo». Alta cagion lo guida: è alla ricerca del fratello di sua moglie Caterina, scomparso da tre lustri. Decide di sostare presso la locanda di Madama Fritz, dove è anche «alloggiato un giovin falegname» di nome Carlo Scavronski, «Sensibil! Tanto onesto! […] Virtuoso! Ardimentoso!», che pur se lesto a menar le mani si professa «gentiluomo ogni momento», certo di blasonata nascita, testimoniata da «uno scritto… un foglio… un attestato». Madama Fritz è perdutamente innamorata di Carlo, ma deve accontentarsi del mero rango di amica. Colei che Carlo adora è infatti Annetta Mazepa, figlia del vecchio atamano dei cosacchi che si schierò contro lo zar nella guerra con gli svedesi. Pietro, nel corso dell’opera, ha modo di soppesare il bieco comportamento del magistrato Ser Cuccupis ai danni dell’onesto falegname: principalmente durante il processo contro questi intentato. Alla fine, Pietro non solo punirà il magistrato («Io vi levo di carica: / mille rubli a pagar vi condanno. / Rifarete a costor tanto danno / che ignoranza lor fece soffrir») ma riconoscerà nell’umile lavoratore il cognato disperso (consueta frettolosa agnizione, grazie ai documenti da lui conservati: «Il dolce nome, e tenero / pur di fratello io sento. / […] Per voi non son più orfano») e acconsentirà alle nozze con la figlia del suo vecchio nemico («abbracciatevi sposi…germani»). Trionfa quindi l’amore, la giustizia, la clemenza e il paternalismo illuminato: «è re chi ognor politico / internamente vede; / è padre chi provvede / l’oppressa umanità». Lo happy end è assicurato: «Dopo soffio di nembo, e procella / scintillante risorge la stella, / che consola l’afflitto nocchier».

Sono passati 15 anni dall’allestimento, ormai storico, del donizettiano Pietro il Grande al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca (prima rappresentazione assoluta in Italia in tempi moderni), firmato da Bepi Morassi. Dopo 3 lustri (lo stesso tempo impiegato da Pietro e Caterina per ritrovare il cognato Carlo!) ne propone una nuova mise en scène la compagnia romana Ondadurto Teatro, fondata nel 2005 da Marco Paciotti e Lorenzo Pasquali, avvezza all’uso combinato di oggetti in movimento, macchinari, proiezioni video e musica: un mix dal grande impatto visivo che riesce a dialogare facilmente con ogni tipo di pubblico. Al suo debutto con il teatro d’opera, la compagnia compie un vero atto d’amore. E come ogni amante risulta agitato (e talvolta incoerente) nelle manifestazioni ma fermo e risoluto nei propositi. Riflettendo su un’opera del 1819 e rivolgendosi a un pubblico del 2019, la compagnia Ondadurto decide di abbracciare il passato e il presente puntando idealmente la punta del proprio compasso creativo esattamente nel centro, in quel 1919 così indiscutibilmente influenzato dallo spirito rivoluzionario (revoljucionnost’) di Majakovskij, in poesia, e delle Avanguardie, in arte. Così come lo zar Pietro il Grande costruì un dorato impero là dove prima c’erano solo miseria e paludi, allo stesso modo l’animo missionario del modernismo novecentesco plasmò una nuova Russia «nel sacrario di un secolo deforme». Ecco che scene e costumi, citando alla lettera Paciotti e Pasquali, sono ideati «grazie a una ricerca incentrata su forme a base geometrica, come cerchi, quadrati, linee e rettangoli, verniciate in una gamma limitata di colori, assecondando una pura sensibilità plastica». Un trionfo ecumenico della geometria. Fin troppo chiaro il riferimento alla corrente artistica del Suprematismo propugnata da Kazimir Malevič, la quale auspicava appunto la supremazia assoluta della sensibilità plastica. L’assetto scenografico segue peraltro suggestioni quasi cinematografiche, che sembrano occhieggiare alla teoria del kinoglaz di Vertov: le macchine modificano di volta in volta la scena seguendo peculiari regole di montaggio, creando piani prospettici sempre cangianti e inediti; i performer di Ondadurto diventano allora attori e manipolatori al tempo stesso, promotori di una «rivolta degli oggetti» di majakovskiana memoria, muovendo con millimetrica precisione e in armonica sinergia con la musica i macchinari realizzati e decorati in ferro, legno e plastica. A coronare il tutto, in maniera spesso ossessiva se non addirittura invasiva, una profusione di proiezioni video: uno stordente caleidoscopio di colori e forme geometriche che, nell’enfatizzare una tal quale visione estetica d’avanguardia, pare essere in effetti déconnecté de la théâtralité, creando un vortice di straniamento. Calato il sipario, dissensi rumorosi in pari numero agli applausi scroscianti. Al netto di tali contestazioni (ci si riferisce alla prima recita del 15 novembre), il pubblico sembrerebbe non aver apprezzato pienamente il lavoro di Paciotti e Pasquali. È vero, originality cannot aim for instant rewards. Ma esperimenti come questo sono davvero necessari per rinnovare il teatro musicale?

Sul podio del Teatro Sociale il direttore Rinaldo Alessandrini, blasonato interprete conosciuto per la sua abituale ottica filologica, guida una compagine orchestrale di recente formazione, Gli originali. Il desiderio del Festival bergamasco era quello di “riscoprire” il suono che ascoltavano Donizetti e i suoi contemporanei. Ciò è stato possibile grazie all’impiego di strumenti originali. La concertazione di Alessandrini è accuratissima e ben calibrata, attenta a curare amorevolmente la ricchezza dei registri espressivi, così come il gioco di tensioni e distensioni dei processi formali, ponendo in rilievo plastico la drammaturgia e le sue varie articolazioni. Ottima prestazione per il Coro Donizetti Opera, istruito da Fabio Tartari, cui Donizetti riserva molte pagine di bella musica. I benefici di tale historically informed performance hanno però interessato soprattutto il cast. L’utilizzo di un diapason più basso ha consentito di ricondurre a una naturale fisiologia vocale il lavoro dei cantanti.

Paola Gardina (Madama Fritz) e Francisco Brito (Carlo Scavronski)

Vera primadonna della serata, nei panni della locandiera Madama Fritz, è il mezzosoprano Paola Gardina, che mette in campo ricchezza delle nuances espressive, impeccabile precisione tecnica e mirabile arte scenica. A cominciare dalla cavatina «Quale ardir! Qual brando ignudo?», in cui prende prontamente le difese di Carlo, contro l’usuraio Firman e il capitano Hondedisky; seguendo con il languoroso duetto «Se il mio ben, se Annetta mia», dove, mentre dispensa apoftegmi logicissimi («è maggior sempre del vero un’idea della sventura»), si strugge senza posa di non esser lei quel «caro oggetto che balzar» fa il cuore dell’adorato falegname. E che dire di quel capolavoro di esilarante seduzione che informa il duetto con il magistrato, «Gentilissimo togato», all’inizio del secondo atto? Per poi concludere con l’ultima meravigliosa aria «In questo estremo amplesso», autentico pezzo di bravura prima del Finale II. Nel ruolo di Annetta Mazepa, «figlia innocente di un ribelle», il soprano Nina Solodovnikova dimostra, nell’aria «È riposta, o caro oggetto, in te sol la mia speranza» così come nei vari concertati che la vedono protagonista, musicalità intelligente e flessibilità di una voce ben stesa e omogenea, dal timbro levigato. Il mezzosoprano Loriana Castellano, dotata di presenza emotiva e natura teatrale, con grande abilità conferisce a Caterina, seconda moglie dello zar, una personalità vocale sempre sagace e convincente. Prova eccelsa ne dà con l’aria «Pace una volta, e calma», prima del felice congedo dalla Livonia e il rientro a Pietroburgo. Francisco Brito assolve superbamente, con fraseggio elegante e rifinito, l’impervia parte tenorile del falegname Carlo Scavronski. Il tenore argentino conquista definitivamente il pubblico del Teatro Sociale con la sua interpretazione dell’aria “di mezzo carattere”, con coro, «Il dolce nome, e tenero». Ma a rendere memorabile questa produzione bergamasca è senza orma di dubbio la coppia di baritoni, già apprezzata in altri rossiniani frangenti, cardine drammaturgico e motore propulsivo dell’opera. Dopo i vari Figaro, Falstaff, Gianni Schicchi e Leporello, un favoloso Roberto De Candia, presenza di forte autorità e fisicità, ha offerto un ennesimo squisito saggio di arte canora, risolvendo il ruolo protagonista di Pietro il Grande con vocalità piena, luminosa e sempre ben timbrata, tanto nell’aristocratica austerità dell’aria di sortita, «Con menzognero vanto», quanto negli impegnativi concertati. Accanto a lui, non si poteva chiedere un Ser Cuccupis migliore di Marco Filippo Romano. Apprezzato più volte nei panni del medico Don Bartolo e del barone Don Magnifico, ma recentemente anche in quelli del mercante Geronimo (Il matrimonio segreto) e del chirurgo Michele Gamautte (Margherita d’Anjou), anche questa volta il baritono nisseno padroneggia la scena con magnetica verve da mattatore. Lo sfoggio di encomiabili qualità attoriali si accompagna a un amalgama timbrico denso e morbido e a un gusto ben misurato nel fraseggio. Cuccupis, erede de jure e de facto di «un Numa, un Fabio, un Salomone», è il prototipo del bieco magistrato sempre pronto «a improvvisar sentenze» in un lessico da Azzeccagarbugli; «gentiluomo empirico» che cita i classici (da Orazio a Ovidio) per suffragare ogni minima insulsaggine. Marco Filippo Romano si cala perfettamente nei panni del buffo con esiti di alta qualità, ma senza mai sfrontierare nel parossismo macchiettistico. L’eloquentissima albagia del venerabilissimo togato, declinata spesso a tinte rossiniane (come nella pomposa scena del tribunale: «Conciosia fosse che, essendo cosa che, nell’anno ottantatré»), gli è peraltro congeniale. Rispondono infine con discreto garbo ai requisiti della partitura donizettiana Tommaso Barea (Firman-Trombest), Marcello Nardis (Capitano Hondedisky) e Stefano Gentili (Notaio).

1 Si tratta della parodia in chiave giurisprudenziale dell’aria metastasiana Siam navi all’onde algenti, durante il processo presieduto dal magistrato Cuccupis. Il coro canta: «Siam navi all’onde algenti / lasciate in abbandono. / Impetuosi i venti / i litiganti sono. / è scoglio ogni causidico / tutta la Curia è mar». Per tutto il Settecento le riproposizioni in chiave parodica delle arie del Trapassi costituirono un rilevante pendant della popolarità raggiunta dal poeta cesareo, sottendendo una conoscenza profondissima del repertorio metastasiano da parte del pubblico e testimoniando una volta di più quanto questo fosse a tutti gli effetti patrimonio culturale ampiamente condiviso. La presenza in un libretto del 1819 di una parodia dell’arcinota aria del 1733 è un indicatore storiografico significativo: viene inevitabilmente enfatizzato il carattere di polverosa anticaglia, di residuo fossile, del testo originale del L’Olimpiade, producendo così un nettissimo ed esilarante scarto estetico-temporale di sicuro effetto sul pubblico contemporaneo, ancora ricettivo nei confronti del vocabolario letterario metastasiano. Non è un caso, peraltro, che Bevilacqua Aldobrandini scelga di collocare questa parodia in un frangente alto, austero (nei limiti di una commedia!) e formalizzato come quello di un processo. Quale miglior luogo della «Sala del Tribunale, circondata da loggie di legni verniciati, e fregiate di pitture, ed oro» per simboleggiare la vetusta antiquité settecentesca (dominata ideologicamente dalle opere di Metastasio) in cui la vicenda si svolge? A essere preso di mira qui è il causidico di turno, cioè l’avvocatuccio senza scrupoli, avvezzo alle pastoje delle farraginose intricatezze forensi. E a questo punto si potrebbe aprire un dossier digressivo su tutte le figure di avvocati, notai e giudici messe in vario modo alla berlina dalle commedie musicali sette-ottocentesche, ma non è certo questa la sede opportuna per farlo.

2 Al magistrato Cuccupis (Atto I, scena 8) è affidata, ad esempio, una citazione quasi pedissequa dell’aria mozartiana La vendetta dell’avvocato Don Bartolo: «Se tutto il codice dovessi svolgere, / se tutto l’indice dovessi leggere / colla grammatica / colla prammatica / il mio criterio giudicherà. / E coll’arguzia, / con fina astuzia, / digesto, articoli e gli adminicoli, / o in merito, o in ordine saprò intermittere / sarò qui giudice dell’equità».

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