Intervista a Lino Guanciale: La classe operaia va in paradiso

– di Nadia Pastorcich –

Esiste ancora la classe operaia? Di più, in una società dove il lavoro appare ormai un disvalore, esiste ancora la classe dei lavoratori? E la coscienza di classe? Lino Guanciale porta in scena uno spettacolo basato su un film che ha segnato un’epoca, ricollocato in una stringente attualità. Di questo e molto altro Lino Guanciale ne parla con la nostra Nadia Pastorcich

Lulù Massa, il protagonista, dopo l’infortunio durante le ore di lavoro in fabbrica, riscopre la coscienza di classe. Sarà proprio questo avvenimento a risvegliarlo. Claudio Longhi propone una “Classe operaia” di grande attualità, capace di coinvolgere e far riflettere su tematiche a noi molto vicine. Il tutto è costruito attorno alla sceneggiatura originale di Elio Petri e Ugo Pirro, ma rivista in una nuova tessitura drammaturgica dallo scrittore Paolo Di Paolo.
A interpretare Lulù è Lino Guanciale, al suo fianco Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini. A Pordenone il 10 e 11 maggio, mentre dal 15 al 20 lo spettacolo sarà al Teatro Grassi di Milano e dal 22 al 27 al Teatro Argentina di Roma.

Lino Guanciale, come nasce l’idea di proporre il film “La classe operaia va in paradiso” di Petri al regista Claudio Longhi?

Da 15 anni, da quando sono uscito dall’Accademia, lavoro con Claudio Longhi; per me è come un fratello, un compagno di strada teatrale. Oggi lui, oltre ad essere un grande regista, è anche, da un anno e mezzo, il direttore di Emilia Romagna Teatro, uno dei più importanti teatri pubblici del nostro paese, non a caso uno dei pochi teatri nazionali. Quando stava preparando il bando di concorso per la direzione, ha dovuto preparare un’ipotesi di triennalità progettuale per la sua eventuale direzione. Ha elaborato il suo progetto intorno al tema della crisi e del lavoro. E visto che era da anni che cercavamo di trovare un classico cinematografico da portare a teatro, quando mi ha domandato se avessi qualche idea, gli ho risposto “La classe operaia va in paradiso”. È un film che ho visto per la prima volta intorno ai 20 anni e che ha segnato molto la mia formazione.

Il film per che cosa l’ha colpita?

Mi ha colpito non solo per la bravura degli attori – Volonté, Melato e Randone – ma soprattutto per quella serie di sequenze familiari folgoranti in cui i membri delle famiglie ritratte, sono colti nel momento in cui guardano la pubblicità televisiva; sono inquadrati di fronte al televisore e bagnati da una luce azzurrina che li rintontisce completamente. Mi sembrava che quelle immagini parlassero in maniera molto eloquente, più di tanti discorsi del processo di reificazione delle persone attraverso la pubblicità, cioè nella riduzione degli uomini e delle donne di questo paese e non solo, anche dell’intero Occidente, a numeri, a consumatori. D’altra parte se oggi si sostituisce a quella luce azzurrina quella biancastra degli smartphone e dei tablet è lo stesso processo. E poi racconta un mondo di lavoratori che per certi aspetti è molto lontano dal nostro ma per altri è molto vicino.

Lulù, il suo personaggio, lavora più ore dell’orologio; ad un certo punto si ritrova a non avere più una vita sociale, degli affetti. È una problematica molto attuale. Come vede questo correre continuo a discapito dell’umanità?

Lo vedo non solo come un rischio, ma come la dimensione in cui siamo imbevuti tutti. Questo film, secondo me, raccontava meglio degli altri, in maniera molto profetica, le sorti di questo processo di alienazione e reificazione, preconizzando il destino “complessivo” dell’alienazione. Credo che, all’epoca il film sia stato molto criticato soprattutto da sinistra, perché Petri diceva che l’alienazione è il destino di tutti i lavoratori, sia che essi siano padroni che operai.
La vita di Lulù è tanto povera di affetti nella dimensione umana dell’esistenza; forse si può dire che la sua è un’esistenza ridotta al livello più basico, al movimento che fa giornalmente per guadagnarsi il pane. Il film racconta bene gli esordi del processo in cui siamo dentro e i casi umani che siamo noi stessi. Siamo fin troppo ridotti a essere semplicemente il lavoro che facciamo; questo vale anche per il famoso cognitariato dove si fa un lavoro intellettuale o si aspirerebbe a farlo.

Forse, a differenza della gente dell’epoca di Petri, i social network ci illudono di avere una vita sociale. Arrivati a casa, stanchi, il cellulare ci permette di comunicare con chi vogliamo però questa non possiamo considerarla una vita sociale vera e propria…

Esatto e magri l’operaio di allora, per distrarsi, finiva in sezione di partito o al bar dove oltre a parlare di politica in senso astratto e di calcio, come si fa ancora oggi, si parlava di rivendicazione sindacale da fare insieme. Io e i miei compagni lavoriamo molto nelle scuole e la cosa che notano soprattutto i giovanissimi che vedono il film e poi lo spettacolo è che, all’epoca del film, esisteva una dimensione di condivisione comunitaria, delle difficoltà, dei problemi e delle rivendicazioni da fare; magari con una confusione politica fortissima, però sempre con l’idea che mettendosi insieme, condividendo con gli altri le difficoltà, si potesse essere forti al punto da cambiare le cose.
Questo oggi manca e ce lo dicono gli studenti. Chi ha delle rivendicazioni da fare, che sia uno studente o un lavoratore, è solo, come si è soli di fronte al desktop del proprio pc, apparentemente con il mondo a portata di mano, ma in realtà stretti e chiusi nella nostra bolla, più impotenti di quanto non si fosse all’epoca. La classe operaia parla di un periodo in cui le lotte sindacali portano a dei risultati. L’unione dei lavoratori fa la forza nel raggiungere alcuni obiettivi. Non ce la fa nella messa in discussione radicale del rapporto tra padroni e sfruttati, però dei risultati arrivano, grazie alla condizione comunitaria della protesta di cui oggi siamo orfani e che noi, nello spettacolo, sottolineiamo. Abbiamo perso, rispetto ad allora, la speranza che insieme si possano cambiare le cose. Una volta c’era una coscienza politica del mondo, forse anche troppo semplicistica o incomprensibile per la grande massa dei lavoratori, ma oggi non esiste più neanche in termine di proposta da parte delle forze politiche. Siamo orfani anche di questo.

Viviamo in un’epoca in cui ci sembra di essere molto liberi, idea alimentata anche dai social, dove ognuno può dire ciò che vuole, però alla fine non è proprio così. La libertà è un concetto complesso. Come vede lei la libertà di oggi rispetto a quella di un tempo?

Allora come oggi, un po’ come un’utopia. Nelle scuole facciamo sempre questa domanda: “Che cosa significa essere liberi?” E le risposte sono difficilissime da dare, perché la libertà non è l’indipendenza, non è l’autonomia, non è la possibilità di fare quello che voglio, o quantomeno non è soltanto questo. La libertà probabilmente è anche costruire un mondo in cui non ci siano necessariamente dinamiche di sfruttamento tra le persone, dove il potere viene gestito in un’altra maniera. La messa in discussione dei rapporti di sudditanza, di subordinazione, è questo che vorrebbero i liberi. A patto però – ed è l’unica utopia praticabile, e qui mi collego a Marc Augé, la mia sponda ideologica – che ci sia un livello di educazione e educazione all’istruzione, e di condivisione degli strumenti culturali adeguato da parte di tutti, perché solo così si può essere consapevoli. Non si è liberi se non si è consapevoli. Si può essere interiormente liberi se si vive una dimensione propria di messa in discussione del sistema, ma per averla bisogna essere capaci di scegliere.

Secondo lei, oggi chi sono gli operai di Petri?

A parte i lavoratori precari che siamo quasi tutti, oggi la parola operaio neanche si usa più, perché il cambiamento lessicale è quello attraverso il quale si cerca di far passare l’idea che certe cose appartengano al passato. Non è vero. Il mondo del lavoro è ancora oggi un mondo con scarse tutele, di sfruttamento reale e concreto. Non basta chiamare un ragazzo, che lavora dodici ore in un supermercato, etichettatore e fargli pensare che non sia un operaio in condizioni di lavoro miserevoli come capitava già 50-60 anni fa, perché la realtà è quella. Da un certo punto di vista vale il concetto di operaio sociale di Toni Negri.

Lei è nato qualche anno dopo l’uscita del film. Come ha vissuto quegli anni difficili?

Era un periodo difficile, sì, ma allo stesso tempo si davano per scontate alcune cose che oggi non lo sono più. Era scontato che facendo certe scelte di formazione, per esempio, si guadagnasse un lavoro stabile a tempo indeterminato; era assodato che certe tutele lavorative esistessero, era assodato che i sindacati avessero un certo ruolo nella società. Oggi tutto questo è tramontato. Io mi ricordo gli anni ’80 in cui sono stato bambino, i ’90 quando sono stato adolescente, come anni in cui si è vissuta neanche più l’onda della speranza, perché quella ce l’hai quando conquisti determinate cose, ma un’epoca dove si davano per scontate certe cose. Le decadi successive hanno invece insegnato che ogni conquista può retrocedere o essere persa.

Perché nessuno o pochi reagiscono al sistema lavorativo odierno?

Perché si ha paura di perdere tutto. I lavoratori di oggi sono estremamente ricattabili, più di quanto non lo fossero quelli di allora, proprio perché manca questa rete di condivisione comunitaria della protesta.

Nel suo ultimo film, “Arrivano i prof” di Ivan Silvestrini, viene trattata un’altra tematica importante da non sottovalutare: l’istruzione. Che ricordo ha della scuola e che ruolo ha avuto sua madre insegnante nel suo percorso scolastico?

Io stavo sempre a scuola, pure quando ero a casa. Con la mamma insegnante facevo davvero il tempo pieno. Ho un ricordo bellissimo della scuola: per me non è stata solo il luogo dell’istruzione, ma anche quello della scoperta di tutti quegli autori, di quei riferimenti culturali, anche extrascolastici, che hanno formato il mio carattere e mi hanno poi portato a fare certe scelte nella vita. Questi incontri li ho fatti appassionandomi al cinema, al teatro, alla lettura, soprattutto stando a scuola nell’orario extrascolastico. La scuola che ho fatto io, era una scuola sempre aperta al pomeriggio in cui era fortissimo l’attivismo culturale e politico da parte degli studenti. Credo che sia una dimensione che un po’ si è persa, anche se ci sono scuole che mettono in campo tutte le proprie energie per rendere interessante pure la proposta extracurricolare. Quello che vedo però è che c’è un po’ di desertificazione dell’entusiasmo da parte degli utenti della scuola. Gli studenti stessi sono diventati un po’ più “pigri” nel chiedere qualcosa di più delle nozioni che si imparano nelle cinque ore di didattica culturale.

Nel film interpreta la parte di un insegnante di storia, materia che ci dovrebbe permettere di comprendere il passato per non ripetere gli stessi errori nel futuro…

Sostanzialmente quello che faccio molto sul serio con la mia compagnia, nel film invece mi sono divertito a sdrammatizzarlo un po’. Sono un professore di storia imbranato convinto che parlare di Giulio Cesare sia la chiave per ogni presa di coscienza storico-politica. Insieme ad altri sei insegnanti disastrosi, formo una squadra di sette samurai all’incontrario. Questa commedia è una farsa di ambientazione scolastica e ha un piccolo messaggio ovvero che la pedagogia e l’insegnamento sono dei talenti e sono fatti di passione e di entusiasmo, sono un atto d’amore che si fa nei confronti degli studenti, ed è questo quello che veramente vince. Per chi impara sapere che chi insegna è veramente interessato a te, è importantissimo. Si riesce ad insegnare per davvero qualcosa a qualcuno solo se gli si passa questo dato empatico di condivisione. Per me questo film è una specie di rovesciamento parodico di quello che poi si passa sul serio dal vivo.

La sua esperienza con l’UNHCR in Libano per i bambini rifugiati cosa le ha lasciato?

Mi ha cambiato molto perché dare un corpo a una realtà che hai vissuto soltanto in termini virtuali è una cosa indescrivibile. Fare un’esperienza così ti aiuta a relativizzare meglio i tuoi problemi e a radicare la convinzione che i movimenti dei popoli, le migrazioni, siano un dato praticamente naturale, rispetto al quale è insensato voler porre dei limiti di sicurezza violenta. Il rifugiato in sé non è l’emigrato occasionale: è un uomo che scappa perché ha perso tutto nel posto dove stava. Non cerca condizioni migliori, è diverso dall’emigrante perché non può più stare a casa sua, dove la sua vita è in pericolo. I rifugiati del Libano mi hanno insegnato tanto perché pure in questa condizione di nullità delle prospettive dell’esistenza, cercano e riescono a dare una grande dignità alla loro condizione. Le loro tende all’interno sono sempre arredate in modo da sembrare delle case, a me questa cosa stringeva sempre molto il cuore, soprattutto poi quando chiedendo quale fosse il loro desiderio più grande, regolarmente rispondevano di volere per i propri figli una buona educazione scolastica. Questa è l’unica cosa che può dare loro una speranza per il futuro. Sentirsi dire queste parole da chi non le ripete per retorica ma le vive sulla propria pelle, fa male ma anche sveglia perché all’indomani della seconda guerra mondiale, noi italiani eravamo in quella stessa condizione. Bisognerebbe ricordarselo.

Fra un po’ tornerà a Trieste per “La porta rossa”: questa volta girerete in estate, che cosa si aspetta?

Di morire per il caldo! Avrò cappotto e maglione tutto il tempo: la divisa del fantasma di Cagliostro. Temo molto le intemperie! Penso davvero che stavolta ad ogni scena di buco, andrò a Barcola a farmi il bagno, a rinfrescarmi. Non vedo l’ora di tornare! “La porta rossa 2” è scritta molto bene. Credo davvero che possa essere un rilancio narrativo forte rispetto alla 1 che era già dirompente e sono felice di tornare perché mi ha dato tantissimo. Per me La porta rossa è stata una svolta sotto molti aspetti. Trieste ha dato tanto a questa nuova marcia che ha preso la mia vita.

 

La classe operaia va in paradiso, regia di Claudio Longhi. Un adattamento teatrale dell’omonimo film degli anni ’70 di Elio Petri.  10-11 maggio al Teatro Verdi di Pordenone, dal 15 al 20 al Teatro Grassi di Milano, dal 22 al 27 al Teatro Argentina di Roma.

Una produzione di ERT.

Foto di scena di Giuseppe Distefano

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