-di Simone Soranna-
Seconda tappa dello speciale Ingrid Bergman di Words in Freedom. Ingrid Bergman e Alfred Hitchcock collaborarono insieme in tre film. Tra loro, a sorpresa, nacque una solida amicizia e un rapporto di reciproco rispetto che il grande maestro del brivido non era per nulla solito riservare alle sue attrici. LEGGI QUI L’ARTICOLO PRECEDENTE VAI ALL’ARTICOLO SUCCESSIVO
Che Alfred Hitchcock avesse un rapporto particolare con le sue attrici protagoniste è cosa risaputa. Il regista inglese lavorò talmente tanto con un archetipo di donna sempre identico da riuscire a creare, in qualche modo, l’etichetta di donna “hitchcockiana”. Attratto prepotentemente dal fascino dei capelli biondi, il cineasta era solito scegliere come protagoniste dei suoi film attrici sensuali ma non troppo, sempre pronte e dedite a sguardi misteriosi e intriganti ma mai troppo espliciti per non distrarre lo spettatore. La figura femminile dei suoi film è dunque una femme fatale algida e fredda, distaccata, cinica e spietata ma allo stesso tempo assai desiderabile e profondamente emotiva. La pelle candida, l’eleganza, la raffinatezza del profilo sono tutte qualità obbligatorie che l’autore ricercava continuamente poiché il primo uomo a dover subire il fascino di queste attrici era proprio lui. E guai a contraddire il grande maestro o a rifiutare qualcuno dei suoi inviti, Hitchcock era solito reagire malissimo e trattare alla stessa maniera tutte le sue protagoniste (sono svariati gli aneddoti e le testimonianze di molte bionde che raccontano come la lavorazione su un film del cineasta sia stata la loro peggiore proprio a causa della durezza e maleducazione del regista nei loro confronti).
Eppure, una di queste damigelle d’onore non ebbe mai da subire alcuno sgarro o insulto. Ingrid Bergman era perfetta per le caratteristiche di cui sopra, la sua provenienza svedese inoltre non poteva che correrle in aiuto. Hitchcock la chiamò a raccolta per la prima volta nel 1945 per farla recitare come protagonista in Io ti salverò. Fu amore a prima vista. La Bergman è bravissima nella parte, ma soprattutto rispecchia fedelmente ciò che l’autore andava cercando. Non solo tra i due nacque una profonda amicizia, ma vi si instaurò un’ottima alchimia lavorativa tale che sir Alfred decide di scritturarla immediatamente per i due titoli successivi. Il primo di questi, fu un successo senza precedenti.
Notorius (1946) infatti è una pellicola grandiosa studiata ancora oggi in molte scuole di cinema. Il film venne persino definito da Truffaut uno dei suoi preferiti nella celeberrima intervista che tenne insieme al maestro inglese. Hitchcock stesso doveva avere avuto un buon presentimento riguardo al progetto perché non solo lo diresse in maniera eccezionale (memorabile il lunghissimo zoom dall’alto della scalinata sino al pugno in cui vi è nascosta la chiave) ma fu particolarmente ispirato dalla sua musa che decide di trattare con una grazia fuori dal comune. Molti critici notarono questa caratteristica del film e lo espressero apertamente affermando che «raramente nella storia del cinema un’attrice era stata ripresa con tanta delicatezza e una tale adorazione»[1]. Come se non bastasse, è proprio con questo titolo che il cineasta decide di stabilire un Guinnes World Record valido per l’anno di realizzazione dell’opera, ovvero quello di girare la scena del bacio più lungo della storia del cinema. Coincidenze che tutto accada proprio con la Bergman protagonista del film?
Il peccato di Lady Considine (1949) fu l’ultimo titolo al quale i due collaborarono, il meno riuscito e il più bistrattato. Dopo l’esperienza di Notorius, il maestro non poteva fare altro che richiamare la sua diva. E così fu. I problemi nacquero dal fatto che la Bergman intanto, anche grazie al merito di
Hitchcock, era diventata una diva internazionale riconosciuta in tutto il mondo. Il suo stipendio dunque era schizzato alle stelle e la produzione negò al regista la scelta di averla come attrice principale. Hitchcock non ne volle sapere, era persino disposto a non girare il film se Ingrid non fosse stata la prima attrice. Fu il suo errore più grande. Costrinse alla banca rotta la casa di produzione e realizzò uno dei tasselli meno significativi della sua prolifica carriera. Egli stesso si confessa a Truffaut dicendo: « Ho commesso l’errore di pensare che avere Ingrid Bergman fosse la cosa più importante per me»[2]. Eppure, nonostante i tagli finanziari, il flop preannunciato, la tensione alle stelle, e il pubblico che denigrò l’opera, un aneddoto vuole che il maestro, forse per consolare la sua musa, abbia esclamato: «non ti devi preoccupare Ingrid, dopotutto è solo un film». Incredibile se pensiamo alle pene dell’inferno che invece fece passare ad altre sue, o alle dichiarazioni al vetriolo rilasciate dopo anni dall’uscita di una pellicola secondo lui malriuscita per via della presenza della donna sbagliata.
Un rapporto unico nel suo genere, un’amicizia insolita ma proprio per questo estremamente affascinante e curiosa. Solo tre collaborazioni, come il numero perfetto. Tre pellicole, ma tanto, tantissimo di cui parlare. Contro il pregiudizio del cineasta misogino e spietato, ecco che Ingrid calmò le acque e divenne leggenda.
L’eccezione che conferma la regola, probabilmente.
[1] Donald Spoto, Il lato oscuro del genio, Lindau, Torino, 2006.
[2] Hitcock in Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, il Saggiatore, 2009.
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