INTERVISTA ESCLUSIVA – di Giulia Tellini-
Storico fondatore, insieme a Sandro Lombardi e a Marion d’Amburgo, della compagnia «Il Carrozzone» (1972-1980), poi «Magazzini criminali» (1981-1984) e «Magazzini» (1985-2000), Federico Tiezzi s’impone all’attenzione internazionale con spettacoli come Crollo nervoso (1980) e Sulla strada (1982). Negli anni Novanta e Duemila, mette in scena, fra gli altri, testi di Samuel Beckett, William Shakespeare, Giovanni Testori, Pier Paolo Pasolini, Anton Čechov, Luigi Pirandello. È ora in tournée col Calderón di Pasolini, che ha debuttato in febbraio al Piccolo di Milano.
Vorrei cominciare con una domanda sul Calderón, che, dopo il debutto al Piccolo, è stato finora all’Argentina di Roma. Perché proporre un testo così oggi?
È una domanda che mi hanno fatto di frequente dopo che, per il cinquantenario della stesura delle tragedie di Pasolini (e anche per il quarantacinquesimo della sua morte), ho deciso di realizzare questo spettacolo in collaborazione col Teatro di Roma e col suo illuminato direttore Antonio Calbi. Considero il teatro di Pasolini un punto cardine della cultura letteraria e teatrale italiana. Finora il teatro di Pasolini è stato sempre considerato irrappresentabile, incomprensibile, per iniziati. Non è affatto vero. Di Pasolini se ne parla moltissimo, ma la sua opera, in realtà, non è conosciuta.
Uno dei vari motivi, quindi, per i quali ho messo in scena il Calderón è quello di sfatare l’idea che Pasolini sia incomprensibile, irrappresentabile e soprattutto poco teatrale. Il suo teatro è di una potenza straordinaria, tutta concentrata all’interno del linguaggio. Dopo Pirandello, nel panorama teatrale italiano, vedo solo due autori veri: da un lato, Giovanni Testori, che agiva molto in termini di spreco, di apostasia, del linguaggio; dall’altro lato, Pier Paolo Pasolini, che invece cercava una nuova lingua per il teatro. Nel Calderón, che è una tragedia in versi, Pasolini utilizza un tono molto alto, alle volte anche molto retorico, ma riesce a veicolare contenuti che, se si esclude il teatro di Bertolt Brecht, di norma non si trovano nei testi scritti per le scene. I suoi drammi sono un mezzo per penetrare all’interno della società. E anche di noi stessi.
Quando ho preso in mano il Calderón, mi sono reso conto che era permeato dell’ideologia degli anni Settanta. E ho ritrovato la passione ideologica, i temi e i motivi di allora. Temi come la lotta di classe e la contestazione della società borghese, però, adesso, rischiano di essere incomprensibili per un pubblico giovane. Nell’adattare il testo, quindi, ho cercato di chiarirli, eliminando i passi più oscuri. Oltre a questa grande, assoluta, meravigliosa, passione ideologica, nel Calderón esiste un altro motivo, che sta alla base di tutta l’opera di Pasolini, e che è il mitologema edipico.
Senza l’Edipo re di Sofocle, non solo lui non avrebbe realizzato uno dei capolavori della cinematografia italiana (che è per l’appunto il suo Edipo re, del 1967, con Silvana Mangano nei panni di Giocasta e Carmelo Bene in quelli di Creonte), ma non avrebbe avuto un archetipo di riferimento per le sue riflessioni sulla società, sul mondo, su noi stessi, e su quell’istituzione, così centrale nel Calderón, che è la famiglia. Calderón è la storia di una famiglia.
Dagli anni Settanta a oggi, il tuo teatro è stato definito in vari modi: «Teatro-immagine» (uno spettacolo come La donna stanca incontra il sole, del 1972), «Teatro analitico» (gli Studi per ambiente), «Postavanguardia» (1976), e altri. All’inizio era un «teatro della fuga», come l’hai definito tu stesso, e poi cosa è successo?
È diventato un teatro del pensiero, della riflessione. Mi sono accorto, infatti, che il teatro e la letteratura sono i due linguaggi artistici attraverso i quali si può penetrare più profondamente nella testa di qualcun altro (un drammaturgo, uno scrittore), abitare la vita di qualcun altro. E a darmi questa sensazione è molto più il teatro che non il cinema. Il cinema mi piace molto, ma in qualche modo sfugge. Perché nel cinema non esistono, se non in rari casi, gli attori. Il cinema sembra quasi disinteressarsi degli attori. E il più delle volte non esiste nemmeno uno spazio vero di riflessione, perché ha dei tempi molto più violentemente sintetici rispetto al teatro.
Tu parlavi di «teatro immagine», di «teatro analitico», di «postavanguardia»: il mio teatro non ha perduto questi aspetti. Il mio linguaggio si esprime ancora per immagini; del resto ho lavorato con Bob Wilson. Quanto all’«analisi», che prima applicavo all’«immagine», rendendola simbolica, adesso la applico al testo. L’analisi è uno degli elementi ancora portanti del mio lavoro. Riguardo alla postavanguardia, è qualche cosa che ha a che fare col postmoderno. Perché noi siamo il «post» di grandi moderni come Mario Ricci, Carlo Quartucci, Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Raimondi e Caporossi. Dopo di loro c’è stata una postavanguardia di cui i principali esponenti sono stati, oltre a Sandro [Lombardi] e me, Mario Martone e Giorgio Barberio Corsetti, per esempio.
La diversità da allora è che adesso il pensiero e la testualità hanno più importanza. La testualità adesso ha messo in prospettiva il lavoro fatto al tempo del teatro immagine, della postavanguardia. In realtà, io sono partito dalla testualità, visto che a 12-13 anni misi in scena Il bugiardo di Carlo Goldoni. Sono partito dalla testualità, mi sono allontanato dalla testualità, sono ritornato alla testualità.
Alla fine degli anni Novanta, Oliviero Ponte di Pino vi ha definiti, tutti voi dei «Magazzini» (tu, Sandro Lombardi, Marion d’Amburgo), gli «analisti del nomadismo mentale». Cosa significa?
Il nomadismo era uno dei motivi ricorrenti nella cultura degli anni Settanta e Ottanta, e indicava la tendenza a non voler mettere le tende da nessuna parte. La parola «Carrozzone» (che dal 1972 al 1980 designò la compagnia fondata da me, da Sandro [Lombardi] e da Marion d’Amburgo) voleva proprio evocare quest’idea: non solo aveva un’attinenza con il circo e con la mobilità, alludendo a quei carrozzoni che portavano da una piazza all’altra gli artisti e gli strumenti circensi, ma rinviava anche alla prospettiva di spostarsi continuamente.
Per quanto mi riguarda come regista, per me, lo spostamento è avvenuto attraverso i vari linguaggi. Di solito, procedo per temi, realizzo trilogie «a tema». Adesso, per esempio, sono ossessionato dalla famiglia e dalla rilevanza che la famiglia ha nella nostra cultura.
Il regista di Questa sera si recita a soggetto di Pirandello, che ho realizzato l’anno scorso, non sembra affatto lo stesso regista del Calderón che ha debuttato quattro mesi fa. Ho una continua voglia di “sperimentare”, o meglio di “ricercare” tra i vari linguaggi. E non dimenticherò mai la definizione che uno dei due più grandi registi del Novecento, ovvero Giorgio Strehler (l’altro è Luca Ronconi, evidentemente), dette a proposito del suo lavoro sul Faust di Goethe: lo chiamò Ricerca di Giorgio Strehler. Quindi, Ponte di Pino ha ragione, d’altra parte lui è stato un interprete molto intelligente del teatro di quegli anni. Io sono un «analista del nomadismo mentale», sì. Ha ragione.

Questa sera si recita a soggetto di L. Pirandello, regia F.Tiezzi, Piccolo Teatro di Milano 2015 ( www.piccoloteatro.it)
Fra gli autori che hai messo in scena, da Pasolini a Shakespeare a Beckett a Pirandello, quali ti sono stati o ti sono più congeniali. E perché?
Non ho una congenialità; forse due autori mi sono davvero congeniali. Gli altri sono amori: Beckett, Shakespeare (anche se ne ho fatto poco…). Un autore che mi interessa più di Shakespeare, ovvero Racine, non l’ho mai fatto. Darei l’anima per fare Racine, ma Racine in Italia non è così semplice da realizzare. Due autori, invece, che trovo mi siano profondamente congeniali, perché me ne sono reso conto durante le prove, sono Pirandello (e non avrei mai pensato, nella mia giovinezza, che sarei riuscito a comprendere la sua tessitura drammatica in maniera così profonda), e Pasolini, del quale, piano piano, ho intenzione di mettere in scena tutte le opere teatrali. Quanto a Pirandello, avrei tanta voglia di rifare I giganti della montagna, con attori cambiati, più giovani. Mi piacerebbe rivedere quel testo, che per me è meraviglioso, da un altro punto di vista rispetto all’edizione che realizzai nel 2007, nella quale c’erano fin troppe idee. Vorrei allestirlo in modo più filologicamente pirandelliano, vorrei fare qualcosa di diverso.
Cosa significa per te il forsteriano «Only connect» nella tua maniera di costruire uno spettacolo?
Significa mettere in connessione i linguaggi. Mi sembra una vera stupidaggine quando dicono che dobbiamo essere interdisciplinari. Come se il teatro non fosse già per sua natura interdisciplinare. Nel teatro abbiamo la pittura, la letteratura, la musica, la danza, e infine l’attore (che significa voce, movimento, e tutto il resto): insomma, il teatro è una sintesi di tante arti, e quindi è di per se stesso interdisciplinare. Ti porto l’esempio della torta. Fare teatro, secondo me (non secondo tutti, perché ognuno ha il suo mood, il suo clima interiore), significa unire insieme diversi strati, dividere. In una torta c’è uno strato di pan di spagna, uno di cioccolata, uno di pasta frolla, uno di crema. Il teatro è il taglio verticale che tu fai all’interno di questa torta. La fetta tagliata conta in sé tutti questi vari ingredienti e li coagula, li mescola, li connette l’uno all’altro.
«Only connect» significa «fai solo delle connessioni» ed Edward M. Forster intende alludere alle connessioni che vanno fatte all’interno di Casa Howard. Questo consiglio, dai plurimi significati, può essere seguito sia dallo scrittore di un romanzo nel creare le relazioni fra i personaggi, sia dal regista di uno spettacolo nel connettere il proprio linguaggio con tutti gli altri linguaggi che in quel momento gli servono per esprimersi.

Passaggio in India, di E.M. Forster drammaturgia di F.Tiezzi e S. Lombardi regia di F.Tiezzi, Teatro Metastasio, Prato 2008 ( www.teatroecritica.it)
Quindi «Only connect» significa «fai solo delle connessioni», ma può anche voler dire «attraverso queste connessioni quello che devi fare è costruire un mondo». Quando un regista fa un’opera teatrale, attraverso il suo linguaggio, non costruisce solo uno spettacolo, costruisce un mondo. Sandro [Lombardi], interpretando un personaggio, non solo costruisce quel personaggio, ma costruisce una parte di quel mondo. Per questo ritengo l’attore essenziale alla mia espressione artistica: perché racchiude in sé gli elementi di un mondo. Gli elementi attraverso i quali io costruisco quel mondo che è poi lo spettacolo.
In che modo il tuo teatro è un teatro politico?
Non lo so se è politico. Non lo so più. Credo che il mio teatro si riferisca sempre di più alla polis, cioè alla convivenza fra esseri umani, e che si riferisca sempre di più al passato. Vorrei realizzare un vero «teatro della memoria». La memoria ha una sua possibilità di teatralizzarsi, di essere teatro, e quindi la memoria significa passato. E ciò significa che gli artisti di teatro, adesso, sono postumi a se stessi.
Oggi, col Teatro Laboratorio della Toscana, ti occupi della formazione degli attori. Secondo te, come dovrebbe essere un «attore consapevole»?
Un attore, prima di tutto, che fa le connessioni. Un attore che sa mettere in prospettiva la sua interpretazione. Arrivano da me degli attori che escono dalle Scuole, e che sanno fare tante cose, ma ho come l’impressione che non sappiano fare le cose giuste. Per essere attori non bisogna saper fare i salti come nel teatro Kathakali o muovere i piedi come nel teatro Kabuki o rifare le stesse cose che faceva Jerzy Grotowski. Grotowski è stato un genio, uno dei grandi uomini di teatro del Novecento, ma, nelle sue riflessioni, non insegna a fare l’attore.
Cosa posso insegnare a questi ragazzi che vengono al mio laboratorio? Posso insegnare loro come affrontare con libertà il linguaggio di un autore, senza restare intrappolati in certe categorie. Posso insegnare loro come raggiungere il massimo della libertà mentale nel fare il loro lavoro: non devono saper far tutto, ma devono saper mettere in prospettiva la propria anima rispetto all’interpretazione che s’impegnano a realizzare.
Come vedi il teatro oggi?
Mi sono sempre espresso in maniera positiva rispetto al teatro. Fino a un po’ di tempo fa, lo vedevo come un’evoluzione progressiva, una liberazione da codici e da schemi che lo tenevano intrappolato all’interno di strutture commerciali o strettamente elitarie. Invece, adesso mi sembra che stia male. Lo vedo dai programmi, dalle cose che vengono rappresentate, dal fatto che mi sono informato sui nuovi registi e suoi nuovi lavori che vengono messi in scena. E non vedo registi, per esempio. Nei casi migliori, esistono costruttori di spettacoli, anche geniali. Ma non dei registi, che si esprimono secondo la grammatica inventata da Stanislavskij o da Gordon Craig.
Anche fra i costruttori di spettacoli, molto spesso, noto una povertà di linguaggio. Va di moda la dislocazione drammaturgica. Cioè, se una cosa si svolge in un luogo XY, il sedicente regista la fa svolgere in un altro luogo, che gli sembra più appropriato, pensando così di essere più regista e più autore. In realtà, la conclusione è che non si capisce niente di quello che si vede.
Poi, non ci sono attori. Gli attori che ora vanno di moda sono di cinema. Ma gli attori di cinema non sono attori di teatro. Al cinema, i registi gli dicono: «devi buttare via le battute», perché detestano la timbratura della battuta.
Il teatro si è inabissato, non solo per colpa della mancanza d’attori e registi, ma anche per la mancanza d’un pubblico con uno spirito critico e un gusto formato. Fa una certa impressione vedere spettacoli brutti applauditi e accolti trionfalmente. Vedere come certi attori meno sanno fare e più hanno successo. È una cosa che mi mette in crisi perché penso: «ma allora la pervicacia con la quale io e altri autori della mia generazione abbiamo cercato di trasformare il nostro idioletto in un vero linguaggio comunicativo e non in una lingua che si capiva solo fra noi, a cosa è servita?». Vedo che in me, in Martone, in Corsetti, in Romeo Castellucci, che più che un regista è un grande artista di teatro, ci sono spunti di genialità. E poi improvvisamente vedo, in teatri prestigiosi, spettacoli brutti, senza un’idea e con attori pessimi, che riscuotono successi enormi, e non so più cosa pensare.
Mi sento come nelle Tentazioni di Sant’Antonio di Hieronymus Bosch. Nel Trittico, Sant’Antonio è circondato da diavoli, da
mostriciattoli che gli tirano la barba, gli danno dei colpi in capo, gliene fanno di tutti i colori. E Sant’Antonio cosa fa? Fa una cosa meravigliosa. Guarda fuori dal quadro. Guarda fisso verso l’osservatore. Che è il consiglio più savio che posso darmi.
Rimango, davanti a queste cose, fisso, con lo sguardo fuori del quadro, concentrato verso l’interno, intento verso il pensiero e la riflessione. E quindi, nei confronti di chi mi tira la barba, chi mi dà i colpi in capo, chi mi strappa i vestiti, reagisco come il Sant’Antonio di Hieronymus Bosch, perché è l’unico modo per resistere a un tempo così gramo.
Il ritratto di Federico Tiezzi in apertura è di Luca Manfrini