Il Grande Quaderno della guerra: l’innocenza infranta

-di Claudia Porrello-

“Quando le ideologie si discostano dalle leggi eterne della morale e della pietà cristiana, che sono alla base della vita degli uomini, finiscono per diventare criminale follia. Persino la prudenza dell’infanzia ne viene contaminata e trascinata da un orrendo delitto ad un altro meno grave, nel quale, con la ingenuità propria dell’innocenza, crede di trovare una liberazione dalla colpa.” [Didascalia introduttiva di Germania Anno Zero di Roberto Rossellini, 1948]

Poster del film "Il Grande Quaderno"

Poster del film

Lo vedremo nei cinema italiani solamente dal 27 agosto, sebbene già nel 2013 fosse stato designato dall’Ungheria come film candidato ai successivi Premi Oscar. Nel luglio dello stesso anno ha ottenuto il Crystal Globe alla 48esima edizione del Festival di Karlovy Vary ed è stato in concorso al Giffoni Film Festival 2014. Stiamo parlando de Il Grande Quaderno, tratto dal bestseller Le Grand Cahier di Ágota Kristóf , scrittrice ungherese naturalizzata svizzera. È il primo dei tre romanzi appartenenti alla fortunata Trilogia della Città di K, tradotto in oltre trenta lingue e premiato come “Libro Europeo”.

Vedere il film per intero è un’esperienza che “destabilizza”, soprattutto alla sua prima visione, per la visuale estrema e violenta con cui viene mostrato lo stato di sfacelo della condizione umana nel periodo conclusivo della Seconda Guerra Mondiale. Il punto di vista è quello di due gemelli in età preadolescenziale (interpretati dagli attori non professionisti László Gyémánt e András Gyémánt) dei cui nomi non si fa cenno nell’arco del plot se non con l’appellativo di “l’uno” e “l’altro”. È attraverso il loro sguardo che assistiamo a quello che gli accade intorno, mentre attraverso le loro voci narranti veniamo coinvolti dal modo in cui vi reagiscono, ovvero il tentativo coraggioso di innalzare uno scudo per proteggere la propria fanciullezza violata.

Ungheria, agosto 1944: la gente è in balìa delle incursioni aeree e della carestia. Una giovane madre, per timore che i propri figli corrano rischi eccessivi, li conduce in uno sperduto villaggio senza nome, nell’arida campagna ungherese, lasciandoli in affidamento alla nonna. La vecchia, denominata “la strega” e conosciuta come un’alcolista inumana e crudele, li costringe a lavorare duramente per guadagnarsi da mangiare: li tratta con violenza, a suon d’insulti e schiaffi, senza riservar loro un briciolo di affetto. Nei due bambini s’innesca ben presto un meccanismo comportamentale di autodifesa nei confronti dell’ambiente ostile che li circonda. Come sopravvivere? Si rendono conto che l’unica via d’uscita per affrontare il mondo degli adulti e la guerra in corso, assurda e disumana, è riuscire a privarsi di qualsiasi emozione ed imporsi di essere spietati. Si impegnano in esercizi di irrobustimento del corpo, di cecità e sordità, per imparare a resistere al dolore e a non vedere e sentire ciò che li sconvolge, sforzandosi di dimenticare il sentimento d’amore verso la madre che li ha abbandonati, il cui ricordo è troppo forte e li rende deboli. Si picchiano a vicenda, resistono al freddo, arrivano a digiunare per giorni nel tentativo di vincere lo stimolo della fame; non sorridono più e si trasformano in selvaggi.

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Una scena da “Il Grande Quaderno”

Un grande diario, donato loro dal padre (interpretato da Ma Ulrichtthnes Apa) prima che si separassero dalla famiglia, diventa un “codice di sopravvivenza” in nome della loro personale giustizia, dove annotano una sorta di piano di reazione all’orrore provocato dai forti turbamenti psicologici che stanno vivendo. “Chi fa del male deve essere punito, solo così imparerà la lezione. […] È la guerra, e in guerra la gente si ammazza”: convincersi di questo assunto condurrà i due bambini ad azioni orribili lucidamente premeditate e all’inevitabile separazione.

Il racconto dei due gemelli assassini, che appartengono l’uno all’altro, può considerarsi una dura allegoria sulla guerra raccontata attraverso i sentieri tormentati della loro storia, in un viaggio esistenziale che oscilla tra fantastico e crudo realismo, nel quale ciascun personaggio è una caricatura di se stesso, a tratti grottesca e a tratti macabra, senza alcuna speranza di sviluppo in positivo. Il quadro a tinte rosse (come i disegni dei due bambini sulle pagine del loro diario), di fronte al quale viene messo lo spettatore all’inizio del film, diventerà via via sempre più scuro: perché nessun senso salvifico può emergere dalla desolazione dipinta dal regista János Szász, esaltata dai colori asettici di una splendida fotografia del candidato all’Oscar Christian Berger e da una colonna sonora martellante e ripetitiva, come se qualcuno in scena dovesse andare al patibolo da un momento all’altro. Non c’è spazio per la redenzione di alcuno, né tantomeno per i due fratelli, che rimarranno per sempre in due corpi distinti, ma uniti in un solo spirito.

Il ritratto quasi da fine del mondo rappresentato ne Il Grande Quaderno ci fa pensare ad Edmund Kolher, il bambino di tredici anni che vaga tra le macerie desolanti di una Berlino distrutta in Germania anno zero (1948), la punta di diamante neorealista della trilogia delle guerra di Roberto Rossellini. Anche Edmund appartiene a quella schiera di giovani vittime innocenti della folle dittatura nazista. Non perde la speranza in un futuro migliore ma è costretto a farsi carico dei disagi familiari che pesano enormemente sulla sua stabilità di individuo e sulla sua infanzia rubata. I due gemellini ungheresi de Il Grande Quaderno resistono a tutto, Edmund invece no, e rimane vittima della “soluzione finale” che sceglie di compiere, il parricidio, indotto dalle tipiche idee dell’ex propaganda tedesca, inculcategli da un suo ex maestro filonazista e pedofilo: “I deboli e gli inutili debbono essere eliminati per purificare la razza”. Il senso di colpa è troppo forte e si riversa sulla sua spensieratezza ormai repressa: non vede vie d’uscita al di fuori dell’unica che percorrerà.

Una scena da "Germania Anno Zero"

Una scena da “Germania Anno Zero”

Che dire invece di Liesel, Bruno, Shmuel, Giosuè e Jona, giovani protagonisti dei film Storia di una ladra di libri (2014), Il bambino col pigiama a righe (2008), La vita è bella (1997) e Jona che visse nella balena (1992)? Altri caratteri, altre storie di bambini, tra le mille che hanno attraversato gli orrori che scuotevano il mondo 70 anni or sono, prima, durante e dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

Liesel, la “ladra di libri”, scopre come il mondo dell’immaginazione possa essere alimentato dalla lettura e impara a leggere divorando libri su libri, mentre i nazisti li bruciavano per far trionfare la propria idea di cultura. Giosuè è dolcissimo nella sua ingenuità, e il padre Guido (Roberto Benigni) – ebreo, deportato insieme al figlio in un campo di lavoro – lo difende a spada tratta e con la non-violenza, per fargli vedere quanto la vita, di cui gioisce fino all’ultimo, sia “bella” e da assaporare fino in fondo nonostante tutto. L’amicizia e l’affetto che lega invece Bruno, figlio del comandante di un campo di concentramento, e Shmuel, piccolo e indifeso prigioniero col suo “pigiama” a righe, resisterà alla Shoah nonostante il sacrificio cui Bruno va incontro con il suo gesto eroico e non pienamente consapevole: oltrepassare il filo spinato del campo per andare in aiuto all’amico e non per uscirne, con la conseguenza di entrarci per sempre. Ed è proprio sul dramma dell’Olocausto che è incentrata la pellicola del regista Roberto Faenza: Jona Oberski vive ad Amsterdam e a soli 4 anni viene deportato insieme a madre e padre in un campo di concentramento, il luogo dannato in cui “sopravviverà” dal 1942 al 1945.  Non basterà aver patito freddo, fame, paure, sofferenze e angherie… Jona dovrà anche assistere, da impotente, alla peggior perdita che un bambino potesse subire in quei tragici anni.

Questi piccoli eroi – protagonisti sono tutti fanciulli che sognano, che danno un pizzico di positività alle vite dei loro genitori e di chi gli sta vicino. Dato per assodato il contesto drammatico in cui si trovano a vivere, non smettono però di credere che il mondo è a colori, anche se in quel momento fortemente offuscati, e si dimostrano più maturi degli adulti stessi. La seconda guerra mondiale, insensata, ormai lontana, è una guerra che, insieme a tanti altri eventi della nostra epoca, ha scorticato l’innocenza. Un tempo trascorso, che resterà indefinitamente custodito nella memoria collettiva e in quella del cinema.

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