– di Stefano Fabbri – Il governo Draghi va. Ancora non si è composto, né ha giurato, ma già va. Per quanto tempo (la rima non è voluta) non si sa. Può contare su una maggioranza inedita, almeno a giudicare dalle promesse che le delegazioni dei partiti hanno scambiato con il presidente incaricato, alle cui richieste l’ex numero uno di Bce ha risposto, a quel che si sa, sempre di sì. Probabilmente nella certezza che poi avrebbe fatto come dice lui.
D’altro canto, per i partiti, era difficile dire di no non solo alla parte poetica della questione, e cioè all’appello all’unità a loro rivolto dal Presidente della Repubblica, ma anche a quella pragmatica.
Ci sono almeno 209 miliardi di buone ragioni, tanti quanti gli euro stanziati per l’Italia col Recovery Fund, per dire di sì. Restano fuori Giorgia e i suoi Fratelli (d’Italia) che hanno scelto una strada rischiosa ma probabilmente remunerativa sul piano elettorale. Un po’ come gli operatori di borsa più spericolati che puntano sulla possibilità di incassare molto giocando tra ribassi e rialzi. Nel caso della Meloni la cedola potrebbe essere staccata quando e se si voterà, dopo il classico tramonto della luna di miele dell’esecutivo Draghi, che prima o poi arriverà.
La prova d’amore di Salvini
Naviga a vista Matteo Salvini, folgorato non già sulla via di Damasco ma su quella del Terraglio, la bella strada che collega Venezia con Treviso, arteria di una delle aree a più alta densità di imprenditoria a vocazione leghista che non ne ha voluto sapere di restare senza un punto di riferimento in un governo che dovrà gestire una mai vista mole di denaro, alla cui ripartizione le imprese anelano comprensibilmente.
La prova d’amore Salvini non l’ha fornita a Draghi in qualche alcova di Montecitorio ma a Strasburgo, dove ha convinto i suoi parlamentari europei a votare a favore del regolamento del Recovery Fund.
Non aveva invece bisogno di fornire ulteriori prove Silvio Berlusconi, king maker di Mario Draghi ai vertici della Banca d’Italia e suo sponsor per la candidatura, coronata da successo, alla guida della Bce. Della vecchia compagine di governo il Pd ha ceduto, ma con fermezza, prima dalla linea “o Conte o elezioni”, poi da quella strenuamente difensiva “mai con Salvini”. E infatti: niente Conte, niente elezioni e insieme a Salvini.
Se il Movimento 5 Stelle fosse un film…
Anche i mal di pancia del M5s, in caduta da tempo nei sondaggi ma pur sempre detentore della golden share parlamentare in seguito al successo delle ultime elezioni politiche, quelle del 2018 per cui può contare attualmente (al netto delle espulsioni e degli abbandoni) su 190 deputati su 629 e su 92 senatori su 321, sono stati placati dall’annuncio dell’istituzione di un ministero per la transizione ecologica (o qualcosa di simile) che non è una “supercazzola”, bensì un centro di comando e controllo sulla destinazione di una delle parti più consistenti della provvista di miliardi in arrivo.
Un’operazione con cui Grillo, forse grazie alla sua esperienza attoriale, ha messo a segno un colpo da maestro: per dirla con Mario Monicelli di Amici miei “che cosa è il genio: è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione”.
…con la regia di Rousseau
Così come, nella faticosa formulazione del quesito da proporre agli attivisti del movimento sulla discussa piattaforma Rousseau perché si potessero pronunciare per il sì o per il no alla partecipazione al governo Draghi, deve essersi ispirato ad un altro capolavoro cinematografico, “Mediterraneo”, ed in particolare al democratico referendum indetto dal tenente Montini tra i suoi soldati: “Chi è d’accordo a requisire la barca al povero Aziz, affrontando un viaggio pericolosissimo per andare a Rodi, di almeno due giorni, senza peraltro avere la certezza di arrivare, alzi la mano…”.
Un’operazione che ha fatto passare in secondo piano le astuzie di Matteo Renzi, la cui urgenza in materia di temi e contenuti agitata durante la crisi è attualmente non pervenuta. Dunque, tutti insieme appassionatamente (mi scuso se la deriva cinematografica mi ha preso la mano, nda), almeno per ora nella convinzione, oggettivamente salda, che Draghi saprà gestire al meglio uno dei dossier più delicati e cioè quello della interlocuzione con la Ue per quanto riguarda l’arrivo in porto del Recovery plan.
Ricordando super Mario (Monti)
Per il resto lo aiuterà una narrazione molto popolare, ma non del tutto veritiera, sul confronto con l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte: l’abbassamento repentino dello spread sotto quota 95 (ma durante il precedente governo non era a 600 come quando intervenne Monti, bensì a 105), la speranza di un andamento vaccinale soddisfacente (ma la performance italiana prima dell’incarico a Supermario era nella fascia alta del range europeo, come testimonia la stessa presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) e magari una soluzione per le centinaia di migliaia di studenti costretti a fare lezione con il proprio hi-phone (ma la prospettiva lasciata trapelare dall’entourage di Draghi circa l’ipotesi di prolungare l’anno scolastico, salutata con una ola, era stata sommersa da improperi quando a proporla fu la ormai ex ministra Azzolina).
Insomma, per ora solo applausi dei partiti per i tre matrimoni ed un funerale (rieccoci con il cinema): i primi sono le nozze incrociate tra destra, sinistra ed un centro che pareva scomparso, il secondo è il rito funebre per la politica così come l’abbiamo vissuta fino ad ora. Lo spettacolo è appena cominciato.