“Horcynus Festival”: la maratona cruda di Rosario Palazzolo

-di Tommaso Chimenti-

E’ notizia di questi giorni che sia stato scoperto un particolare tipo di squalo, che vive nelle acque gelide della Groenlandia, da qui il suo nome, che può raggiungere, stimato sulla sua lunghezza visto che cresce di un centimetro l’anno, i quattrocento anni. Da Shakespeare fino a Marte. A queste latitudini invece, in quello Stretto di Messina che pochi anni fa attraversò a nuoto Beppe Grillo, le barche pescano tonni e pesci spada. Si chiamano feluche, barchette esili ma con un unico albero che svetta altissimo dove un mozzo sta in avvistamento e un rostro, della stessa lunghezza, come punta aerodinamica che scruta e infilza il mare aperto per il lancio dell’arpione.

Fa caldo e tira un vento, caldo anch’esso, che si aggiunge alla temperatura già africana. Squali, tonni, pesce spada. Il quadro ittico non è completo però. Terra di mare questo lembo di Sicilia che ci ricorda il tremendo e devastante terremoto, in termini di distruzione e vite umane, dell’inizio del secolo scorso. Messina che è anche sinonimo di Caravaggio: qui infatti è conservata la grande tela (quasi quattro metri per tre) de “La Resurrezione di Lazzaro”: Caravaggio tempestoso e movimentato e arrabbiato come questa terra che si muove in continuazione con Messina e la Calabria si vogliono avvicinare per baciarsi, inutile mettere tra di loro un ponte.

Caravaggio Resurrezione di Lazzaro

Le palme s’affastellano sui viali, s’arricciolano all’afa mentre le luminarie bianche, in attesa della festa patronale di San Nicola (come Bari), si scaldano per la notte del 4 agosto. I preparativi fervono, si sente energia e fibrillazione. Qui il patrono conta di più del Natale e della Pasqua messe insieme, l’onomastico è più importante del compleanno. Terra salmastra, dicevamo: il festival messinese infatti prende il nome da quell’“Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, librone mastodontico che in qualche modo può dialogare, per corposità e argomento, con l’altro caposaldo marinaro della letteratura: il “Moby Dick” di Melville (a proposito, quest’anno sono duecento anni dalla sua nascita). Ma qui, ovunque ti giri, soprattutto attorno ai Laghi di Ganzirri, dove si coltivano cozze ed altri mitili (non militi), l’aria e i volti che incontri sembrano usciti più da “Il vecchio e il mare” con i pescatori che puliscono telline e le piccole imbarcazioni di legno, chiamate con nomi di donna e disegni di sirene, sono lì pronte a partire, che usare “salpare” sarebbe stato troppo per queste acque calme e placide.

E allora squali, tonni, spada e orche. Un affollamento di pinne senza maschere, senza boccaglio. Una torre di fortificazione del XV secolo guarda il mare. La Calabria dall’altra parte, la puoi toccare. Una grande antenna bianca e rossa (Capo Peloro la denominazione della punta di sabbia, l’angolo in alto a destra del triangolo che è la Sicilia sulle cartine) svetta a ricordo e memento mori delle prime idee, mai portate a termine, del famigerato Ponte sullo Stretto, quello che, a più riprese, viene riesumato e tirato in ballo quando si parla di far ripartire e rilanciare il Paese, quando ci si infarcisce la bocca con le infrastrutture pubbliche (senza pensare necessariamente al Ponte Morandi di Genova): un mantra insomma, una filastrocca alla quale nessuno crede più e che nemmeno i siciliani o i messinesi hanno mai chiesto con forza o sentito come esigenza, urgenza o priorità. Sotto la torre che sbircia le onde che si infrangono quando le correnti di Scilla e Cariddi cozzano e si azzuffano, si apre il MACHO, museo d’arte contemporanea Horcynus Orca, acronimo che per ossimoro diventa spiazzante e geniale, come a dire che la cultura può abbattere antichi e primitivi retaggi antropologici.

Mari-age

L’“Horcynus Festival” (dal 21 luglio all’8 dicembre, alla diciassettesima edizione, più votato al cinema che alle altre arti) ha una composizione orizzontale, democratica e non gerarchica, complessa e articolata: quattro sezioni, cinema, incontri, musica e teatro e quattro differenti direzioni e visioni. Per quest’ultima tranche la direzione è affidata a Massimo Barilla (la sua compagnia è Mana Chuma che con l’ultimo spettacolo “Come un granello di sabbia” saranno nei prossimi mesi a Roma, Parigi e Malta, dopo il debutto al Biondo di Palermo nella scorsa stagione) che ha voluto fortemente la trilogia di “Santa Samantha” di un figlio di questa terra, di questo narratore, attore, drammaturgo, regista, romanziere, figura poliedrica con la sua scrittura che sa di grano arso e pruni di fichi d’India: Rosario Palazzolo.

Una maratona i suoi tre pezzi, “Lo zompo” + “Mari/Age” + “La veglia” (per la prima volta messi in scena nella stessa serata, operazione riuscitissima, anzi dovrebbe sempre essere riproposto così), un trittico tosto, pieno, impegnativo, profondo, lacerante, amarissimo, assolutamente non consolatorio né tanto meno comodo. Le comfort zone, quando c’è di mezzo Palazzolo, lasciatele a casa. Sulla sedia lo spettatore non ha alcuna possibilità di passività, è chiamato in causa, questa sua lingua posticcia e articolata lo scuote, lo tira in ballo, non gli fa dormire sonni tranquilli, gli chiede costantemente conto. Non puoi rimanerne indifferente. Palazzolo era tra i protagonisti dell’ultima pellicola di Marco Bellocchio, “Il traditore”, e, proprio per quell’interpretazione, ritirerà in questi giorni il “Premio Notte Bianca del Cinema” di Petralia Sottana in provincia di Palermo.

La lingua dei suoi personaggi è un affresco, ogni frase un innesco, ogni parola una trappola, un tranello, un grimaldello, un volo e una caduta, un arrembaggio, ogni perifrasi ha dell’infantile, del periferico, del gioioso ma senza gioia, un impianto che ti esplode tra le dita, ti deflagra tra le labbra quando leggi il testo (la trilogia è stata appena pubblicata da Glifo Edizioni, prefazioni molto interessanti a cura di Filippa Ilardo e Roberto Giambrone), detona nelle orecchie se lo ascolti a teatro, parole storpiate che spiazzano semanticamente, termini che guastano ingranaggi, parole come sabbia che si infila in una conchiglia che a volte fanno corto circuito e altre diventano preziose perle lucenti e luminescenti, che irradiano. Linguaggio sua cifra stilistica, riconoscibile, originale, personale, neorealista, visionaria, pastosa e impalpabile, masticabile, difficilmente ingoiabile. Ti rimane addosso però. La sua è “una trilogia sull’impossibilità di superare i nostri talenti” che ci ingabbiano e non ci fanno essere nient’altro rispetto a quello che gli altri attorno a noi hanno deciso, limitandoci, che dobbiamo essere. Ma ognuno di noi è infinito. E poi il teatro di Palazzolo è “rappresentazione della rappresentazione” dove si perdono i contorni e i confini della realtà che si nasconde nell’immaginazione e del sogno che migra nel quotidiano, tutto impastato, violentato, ammucchiato.

La veglia

Un linguaggio stratificato che colora questi suoi personaggi claustrofobici che vorrebbero aprire le finestre delle loro vite e che invece devono sopportare il reale insostenibile e inventarsi un nuovo mondo fatto di polvere di stelle, desideri, aspettative finalmente senza frustrazioni, illusioni senza delusioni. Un teatro che ci parla degli ultimi, dei disgraziati, dei disadattati, degli sconfitti, dei marginali. Un linguaggio inventato, sublimato, “che fa dell’errore una forma”, parole scelte ad una ad una, faticoso, claudicante, seriamente ridicolo ma anche scherzosamente sacralizzato. Parole in dissolvenza che si appiccicano le une alle altre, che fanno una pappa, formano una sostanza collosa, parole come sangue denso che intasa le vene, s’incastrano: una lingua mordibile, fisica, terrena: “Voglio che nel mio teatro lo spettatore si senta in pericolo”, sottolinea il drammaturgo di “Letizia forever” con l sua voce calda e roca. Sta tutto qui.

Ogni spettacolo è autonomo ma la miglior cosa per comprendere tutto il processo che sta dietro “Santa Samantha” è riuscire vederli in questa successione, con questa cadenza che parte da lontano: il professore che ha avuto come studentessa questa bambina alla quale tutti attribuiscono poteri taumaturgici e miracolosi, passando per le cugine e infine la madre in un’escalation di battiti, concitazione, desolazione. Una tragedia, pubblica e familiare, devastante, marcia, tenera.

Lo zompo

In scena ne “Lo zompo” (il salto, saltare ma anche, per discesa e tracimare, lo storto, quello che non ha equilibrio, quello che sbrocca) c’è proprio Palazzolo che incarna la figura di questo professore sui generis, timido, impacciato, strano, strambo, camicia a pois e farfallino al collo. Il pubblico, come sempre nei lavori dell’autore palermitano, è un vero e proprio personaggio a tutti gli effetti, che ha voce in capitolo, può interagire, rispondere, gli viene richiesta sempre una reazione. Qui la platea rappresenta i fedeli che una volta al mese si riuniscono per parlare e confrontarsi e rinsaldarsi attorno alla figura della piccola Samantha (nome scelto perché contiene la parola santa, ma che non esiste sui calendari, e ha quell’acca sul finale che molto ci riporta ai protagonisti delle serie tv americane dalle quali molte famiglie hanno preso spunto per i loro incolpevoli e inconsapevoli figli: i Kevin, le Donna, i Maicol) che elargisce miracoli al solo toccarla. Il prof Pomara è come un Gesù nel Tempio che sconquassa lo status quo e ribalta le regole di questa congregazione che parla di guarigioni e si incensa attorno a questa bambina usata come merce e oggetto. In questo momento di preghiera collettiva e condivisa, il professor Nunzio (forse un omaggio all’omonimo pezzo teatrale di Scimone e Sframeli, drammaturghi messinesi), che si scalda come un diesel (qui Palazzolo nel suo energico stand up brioso ci ricorda, con le varie differenze linguistiche, il primo Verdone o il Michael Douglas di “Un giorno di ordinaria follia”), prende la parola e non lascerà più il microfono. Siamo nell’orbita de “Il miracolo” di Ammanniti dove il bieco sacro si fonde con il ciarlatano più rozzo. In sottofondo la stessa canzone di chiesa che riverbera ed entra sotto pelle, ti convince, ti martella, ti puntella, un loop che ammorba come acqua cheta che macera i ponti. Nella complessità del quadro di questo paese che sfrutta la bambina per denaro e fini personali rendendola di fatto schiava del suo stesso dono che la rende speciale e all’uso e consumo di chiunque ne voglia i servizi, una bambina diversa, l’insegnante sembra essere uno dei pochi che le vuole bene in quanto persona e non dispensatrice di favori e per questo, come il protagonista di “Nemico del Popolo” di Ibsen, allontanato, screditato, messo alla berlina.

Mari-age

Se il professor Pomara ha zoomato sulla vicenda facendoci entrare, accusandoci come parte in causa, nella diatriba tra il paese e la povera bambina, nel secondo step “Mari/Age”, il matrimonio di Maria, ci troviamo proprio dentro il giorno dello sposalizio della piccola, ormai cresciuta, ancora ingenua che è stata allontanata da vent’anni dalla madre, unico altro scoglio di sensatezza che le rimaneva ma che, per ignoranza, sono riusciti a mettere alla porta. La musica è fondamentale e centrale nei lavori di Palazzolo; qui le canzoni melodiche pop della tradizione sanremese (come in “Letizia”) tornano come refrain di una nostalgica contentezza che se ne è andata per sempre con l’arrivo dell’età adulta, e niente è più come prima. A gestire questo matrimonio (che forse donabbondianamente non s’ha da fare), tra la santa e un muratore, scelto quasi a caso, un novelllo San Giuseppe, sono le due cugine, quasi le sorellastre di Cenerentola, la cugina nell’omicidio di Avetrana, le cugine di Chiara Poggi nell’omicidio di Garlasco che ricrearono un fotomontaggio ad uso e consumo delle telecamere insieme alla parente scomparsa tanto per essere inquadrate e andare in televisione in prima serata: la prima, Viviana Lombardo sul pezzo, signorina Rottermeier, dura, arcigna, cattiva e nazista, la seconda, Sabrina Petyx, svampita, mentre in sottofondo continua imperterrita a ronzare “Felicità” di Al Bano e Romina o ancora Laura Pausini o Anna Oxa e Fausto Leali fino al “Tempo delle mele”. Qui la platea sono gli invitati al matrimonio, i “prescelti” dalla setta in stile Scientology, complici della situazione. Le cugine gestiscono il traffico, loro sono le vere burattinaie di questo circo mediatico che però hanno subito la cuginetta Santa dovendo rinunciare ai loro sogni, in una sorta di contrappasso; la prima voleva cantare, la seconda si voleva sposare. E questo matrimonio, che poi è soltanto frutto dell’immaginazione di Samantha che sogna una vita normale, finisce nel più tragico degli epiloghi.

La veglia

E’ qui che entra in scena “La veglia” che è chiarificatore e illuminante (un grande Filippo Luna sempre sugli scudi), lavoro più completo e maturo, con la sua lingua dove l’errore diventa istituzionale e la sgrammaticatura si fa grammatica sospesa tra Albanese e Sergio Vastano, il calabrese del Drive-In. La platea è adesso il pubblico televisivo in questo studio dove, con il televoto, si deciderà della sorte di questa donna, Carmela, madre di Samantha, in questa riproposizione-reality con le immagini salienti della vita della santa. E’ straziante e fa tenerezza questa madre-coraggio che ha perso tutto e alla quale adesso vogliono togliere anche il corpo della figlia perché le cugine e la Chiesa hanno intenzione di farne un simulacro, una cripta per le offerte, un reliquiario (in stile Padre Pio) per spillare ancora soldi ai fedeli. Il testo sprizza ilarità su un fondale amaro: “Sono recitata”, “cazzipicchia”, “non sto con la pelle”, “non sono addestrata di come parlare”, “fai tutto come se niente è”, “mi capite intera quando parlo?”, “quello è un farabucchio”, “devo fare il filo nel segno della qualunquesia”, “sono rimasta di creta, ero svanita, non mi credevo”, “amore criminato”, “siete tutti scuolati, vero?”, “amore malaminchiato”, “siamo lieti di avercela con voi”, “basta con i maliparoli”, “la matria potestà”, “telecomando pronto di spremuta”, “ridete, sfocatevi pure”, “Vanna Mark”, “piangevo colato dirotto”. E la madre, come fosse dentro “Black Mirror”, deve rifare le scene, con strazio e dolore, per le telecamere, usata e abusata per gli ascolti “da far strizzare”, con l’orchestra di “Beppe Verdicchio”, “Maria De Filippa” e “Piero Angelo” e i vari santi in processione, “Madonna Sghinocchiata” e “Padre Pio natalizio”. Un grande autore, che l’Italia ancora deve scoprire a pieno, un bel festival l’Horcynus ben organizzato, con l’aggiunta dello splendido mare siciliano. Da tornarci e ritornarci.

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