-di Silvia Poletti –
Tra essere una superstar e un artista vero il danzatore argentino Herman Cornejo ha scelto la seconda via. INTERVISTA ESCLUSIVA IN OCCASIONE DEL DEBUTTO SCALIGERO AL FIANCO DI ALESSANDRA FERRI
Tra essere una superstar e un artista vero il danzatore argentino Herman Cornejo ha scelto la seconda via. Più rigorosa e impegnativa specie se il talento naturale ti porta ad essere un virtuoso puro: uno strabiliante technicien, dal salto elastico e senza gravità e supersonica velocità nei giri. E’ così,del resto, che è diventato un beniamino del pubblico americano, grazie al suo ruolo di principal all’ American Ballet Theatre ( dove danza dal 1999), culmine di una carriera fulminante, iniziata a quattordici anni al Ballet Argentino di Julio Bocca e abbellita, tra l’altro, dalla medaglia d’oro – a sedici anni!- al Concorso di Mosca. Da adagiarsi sugli allori. E invece no. Perché danzare non può essere solo una prova atletica, o un delirio visivo per esteti. E allora per Herman è cominciata la ricerca. Fino alla svolta: Chéri, dal triste e dolce racconto di Colette, storia di un amore tra un ragazzo viziato e una donna matura e consapevole. La coreografa e regista Martha Clarke crea una piéce toccante. Ma è l’alchimia con la sua Léa – Alessandra Ferri – che fa ‘sbocciare’ definitivamente l’intenso talento interpretativo di Herman. E da lì, in una serie di appuntamenti coreografici e progetti immaginati sempre con Alessandra, è continuato il cammino. Al punto che anche i titoli di repertorio ora assumono per lui un’altra dimensione, un altro senso. Come Romeo, con il quale debutta al Teatro alla Scala il 31 dicembre, a fianco ancora una volta ad Alessandra Ferri, che torna nel ‘suo’ teatro per una serata speciale, nel suo balletto iconico, nella sua interpretazione leggendaria.
In occasione dell’evento, ecco dunque che abbiamo scambiato una lunga conversazione con la stella argentina, che molto ci ha rivelato della sua visione dell’arte
“ Ho sempre considerato il fatto che un danzatore debba essere un interprete. Del resto ho iniziato a danzare perché mi piace creare dei ruoli. La mia tecnica mi ha portato fin dall’inizio a essere immaginato soprattutto in ruoli da ‘virtuoso’ come Basilio del Don Chisciotte con tutti i suoi salti. Amo molto questi ruoli, proprio in virtù dell’impegno atletico, ma ho sempre cercato di focalizzarne la parte interpretativa.
Quando ho avuto l’opportunità di Chéri ho però capito un’altra cosa. Sì amo recitare ma si deve trovare l’altra metà per entrare in connessione. Con Alex è successo dal primo momento: è bastato guardarci negli occhi e tutto è venuto naturalmente.
E’ bello ciò che sta dicendo , perché come lei ben sa le grandi partnership nella danza sono state formate da due ‘metà’ complementari – basti pensare a Nureyev e Margot Fonteyn, così diversi non solo per età, ma soprattutto per stile. Se dovesse descrivere Alessandra come persona quali qualità sottolineerebbe?
Mi piace pensare a lei come a un gatto. Sensuale, elastica, vivace ma anche così delicata allo stesso tempo.
E lei che persona, o animale, è?
Sono molto calmo, riflessivo. Forse dipende dal mio segno zodiacale, il Toro. Tranquillo, ma pronto a partire quando vedo il drappo rosso. Quando voglio qualcosa. Ma devo raggiungere i miei obiettivi in pace e con amore. Vedo un sacco di danzatori frustrati. Per me invece è così bello quello che facciamo che non voglio vivere la mia professione in costante preoccupazione. Mi godo ciò che faccio momento per momento e cerco di non farmi stritolare dall’ingranaggio.
Forse proprio perché è al top si può permettere quest’atteggiamento: non ha mai sentito la competizione?
Nella nostra arte la competizione è più tra le donne che tra gli uomini. Ritengo una benedizione che non l’abbia mai vissuta. Non sono in gara con i miei colleghi, così diversi da me. Ho avuto anche i miei tempi duri in compagnia: ho iniziato nella studio company. Poi ho fatto parte del corpo di ballo anche se sono diventato velocemente solista e primo ballerino. Ma per la mia altezza non venivo mai considerato per i ruoli principali. C’è voluto del tempo per convincere il mio direttore che invece ero pronto per farli; certe volte dicevo a me stesso: non mi interessa il titolo di primo ballerino, voglio farcela proprio solo perché voglio quel ruolo.

da sinistra Friedman Vogel, Herman Cornejo, Denis Matvienko e Marcelo Gomez nello show The Kings of Dance foto S.Levshin
Così tra i venti e trent’anni ho davvero dato il massimo per convincerlo e a darmi i ruoli che desideravo, anche quelli per i quali non mi vedeva adatto. E’ stato soprattutto il mio carattere a farmi raggiungere gli obiettivi: mi dico sempre “ continua a ‘dare’ e qualcuno un giorno se ne accorgerà”
Non si sente un po’ stretto nel repertorio di American Ballet Theatre così vincolato ai grandi titoli classici? Non crede che a questo punto della sua carriera sarebbe bello fare anche altro? Per noi europei è sempre molto strano che una scena come New York abbia sempre molta difficoltà a ricevere i maestri della coreografia europea…
In effetti non è sbagliato pensare che ABT ha un repertorio molto blindato. Quando grazie e Chéri e all’incontro artistico con Alessandra si sono aperti un sacco di progetti, da Le Jeune Homme et la Mort a creazioni fatte per noi da autori come Wayne Mc Gregor e Russell Maliphant, è stata una bocca di aria nuova. Il problema di un certo immobilismo di proposte è che i direttori non vogliono disaffezionare il pubblico, e così si continua a programmare in sicurezza. Bisogna gradualmente portare gli spettatori a capire che di fronte a loro ci sono mille direzioni.
C’è un coreografo che sente particolarmente adatto alla sua personalità o che le ha fatto scoprire qualcosa di nuovo di sé stesso?
Ho fatto molti lavori con Twyla Tharp e ho ripreso molti titoli che ha creato per Mikhail Baryshnikov, ma lei me li lascia fare a modo mio. Ho un background di tango e così per me è più facile muovermi in maniera molto cangiante, secondo il mio ‘tango feeling’. Twyla è una persona con cui si può entrare in ‘contatto’.
Ma esattamente cos’è questo tango feeling di cui parla?
E’ qualcosa di molto intimo, con tocchi melanconici, nostalgici Ma può essere inteso in modi diversi, può riferirsi al pensiero del futuro, ai ricordi del passato…è qualcosa di estremamente personale, interiore che non si deve mai rendere esplicito al pubblico. E’ un soliloquio, tutto con te stesso. E anche se si danza con una partner è come se ognuno vivesse sempre in sè stesso senza mai entrare in contatto con l’altro. Non a caso nel tango non ci si guarda mai, ci si sente.
Ho letto che uno dei suoi miti di danza è Vladimir Vasiliev. Perchè?
Perché basta che metta piede in palcoscenico, immediatamente mi ‘dà’ tutto. Senza fare un passo di danza. E io considero danzatore non solo quello che sa fare speciali prodigi acrobatici. Deve avere magia nella pelle, deve saperla proiettare intorno a sé. Vasiliev è così. Ed è così virile in scena.
Ma è vero che in Argentina – patria di eccellenze mondiali della danza, specie in campo maschile- il balletto è popolare quanto il calcio?
Si e no. Quando Julio Bocca ha fondato la sua compagnia, il Ballet Argentino, c’erano ancora un po’ di prpblemi, sempre per i soliti pregiudizi sessuali. E’ stato Julio a renderlo molto popolare. Purtroppo io però non danzo troppo nel mio Paese e mi dispiace.
Lei però è uno dei ‘Re della Danza, come viene chiamato nello show di grandi stelle maschili della scena mondiale curato dall’impresario Sergei Danilian. In nome della sua autorevolezza le chiedo allora un parere: dove sta andando la figura del ballerino classico? Quali le qualità che deve avere, oggi?
A prescindere dal fatto che credo che il balletto, arte creata secoli fa, rimarrà sempre, per me la danza sta andando in una direzione sbagliata. Spinti dal pubblico che richiede sempre maggiori estensioni, salti sempre più alti, sta diventando un circo. Certo la tecnica deve perfezionarsi, ma non deve essere la finalità della danza. Lavora e incrementa la tua tecnica in sala prove, ma tieni a mente sempre che serve per tenere vivo l’aspetto artistico.
Quale personaggio le piacerebbe affrontare?
Sicuramente Onegin, Des Grieux in Manon. E naturalmente Spartacus, che ho ballato in Argentina. Spartacus con Vasiliev è stato il primo video che ho
posseduto, il primo spettacolo che ho visto dal vivo. Ho voluto diventare danzatore dopo averlo visto.
Ma ci sono momenti in cui si dice ‘ok ne ho abbastanza’?
Ora no. Mi capitò da ragazzino, quando praticavo allo stesso tempo calcio e danza. Vinse la danza,la mia vera passione. Anche se come tifoso, seguo ovviamente il calcio.
Un grande artista ha sempre dietro di sé grandi maestri. E’ d’accordo?
Sì, specialmente il primo che si incontra. Nella danza è un fattore importantissimo. Ero disperato ad andare a studiare: le classi, all’inizio sono così dure, noiose, ripetitive! Il mio maestro però ha saputo essere gentile e mettermi a mio agio. Mi ha fatto sentire nel posto giusto. Poi a quattordici anni, quando sono entrato nel Ballet Argentino ho avuto il grandissimo esempio di Julio Bocca. Da lui ho imparato quanto, ogni giorno, tu debba essere disciplinato per servire la nostra arte. E che senso di responsabilità devi costantemente esercitare per andare in scena al massimo del tuo potenzia
le, fisico e emozionale.
in apertura Herman Cornejo in Le Jeune Homme et la Mort, con Alessandra Ferri foto F.Ferri