Gianni Melotti: la sperimentazione visiva degli anni ’70-’80

di Gianmarco CaselliGianni Melotti, L’avventura dell’arte nuova, anni 70-80″. Chiude anticipatamente a causa delle restrizioni per l’emergenza Covid la mostra allestita alla Fondazione Ragghianti di Lucca dedicata a uno dei più influenti sperimentatori dell’arte visiva italiana, Gianni Melotti, curata da Paolo Emilio Antognoli.

Contemporaneamente all’esposizione di Melotti, nelle sale adiacenti, era allestita anche la mostra di un altro grande nome dell’arte visiva: “Cioni Carpi, L’avventura dell’arte nuova – anni 60-70″. Vista la chiusura anticipata a causa della pandemia, per chi non ha potuto ammirare l’esposizione sono comunque disponibili presso la Fondazione Ragghianti e acquistabili sul bookshop i cataloghi di entrambe le mostre.

Pochi giorni prima della chiusura abbiamo incontrato Gianni Melotti che ha rilasciato un’intervista esclusiva per noi.

Gianni Melotti
Gianni Melotti foto di Margherita Nuti

Le opere esposte nella mostra denotano una ricerca sperimentale molto più artigianale rispetto a quella cui assistiamo adesso che è per lo più  virtuale. Quanto influisce questo utilizzo diretto della materia nell’atto creativo? È cambiato qualcosa per lei?

Per me non è cambiato quasi nulla. Lavoro ancora come lavoravo quando ero più giovane. Cambiano le tecnologie, c’è certamente un adeguamento anche da parte mia, ma per il resto procedo più o meno allo stesso modo. Quello che voglio realizzare spunta improvvisamente dietro l’angolo quando meno me lo aspetto, sia allora come adesso. In seguito la folgorazione viene trasformata con gli strumenti che ritengo più idonei. Anche oggi nel mio lavoro c’è artigianalità e manualità. 

Come era il suo approccio con gli strumenti di quel tempo?

All’epoca facevo uso degli strumenti a disposizione ma in un modo un po’ particolare. La mia ricerca consisteva nel mettere alla prova la mia sensibilità in camera oscura: in quel laboratorio cercavo risultati differenti con procedimenti non tradizionali. Più che altro mi divertivo.

Aveva delle tecniche preferite in questa sua sperimentazione?

Ad esempio usavo l’ingranditore in maniera un po’ opposta alla sua funzione riducendo il formato originale. Oppure attraverso altri procedimenti ho ottenuto delle opere con fotografie stampate dal lato non emulsionato della carta. Cioè stampavo alla rovescia: “L’iconografia e l’iconoclasta” del 1977 è una serie di nove immagini intese come prolungamento fotografico del mio studio fino a uscire dalla finestra. Le ho stampate sulla parte opposta della carta, quella non sensibile. Così ho ottenuto un risultato un po’ da iconoclasta: non è un’immagine bella e perfetta, bensì sciupata. Ho anche strappato i bordi laterali prima di procedere alla stampa per “cattiveria” iconoclasta.

Non manca, in alcune delle sue opere, il coinvolgimento del pubblico. Le è mai accaduto in queste situazione di assistere una interpretazione dello spettatore diversa da come se la aspettava o la aveva concepita?

Abbastanza eclatante fu il caso di Come as you are/Jacket and necktie”. Si tratta di un film di 3 minuti circa ed è la proiezione in loop di una coppia che si sposa, poi entra in un albergo e si stende sul letto. Questo filmato si ripete in loop all’infinito. È la parte iniziale di un film pornografico, ma non è così scontato capirlo, e viene proiettato nel vuoto della stanza espositiva: si vede se uno si porta un foglio, una superficie su cui proiettarlo: è una cosa privata, uno se lo guarda da solo. In un’occasione dei ragazzini avevano capito che si trattava di un film pornografico e cercavano di vedere fino a che punto arrivava il tutto arrampicandosi al foro da cui usciva il fascio di luce che proiettava il film. Si trattava di una sorta di iniziazione adolescenziale alla pornografia che non avrei mai immaginato.

Come as you are/Jacket and necktie, 1981
Gianni Melotti con la proiezione del filmato su un foglio di carta – foto di Gianmarco Caselli –

Alcuni dei suoi lavori degli anni ’70-’80, paradossalmente, oggi possono avere una forza dirompente anche più potente rispetto a quando sono stati realizzati: adesso viviamo una omologazione culturale per la quale possono apparire ancora più sperimentali, mentre nel periodo storico in cui sono stati concepiti era in atto una rivoluzione culturale che proponeva continuamente lavori di ricerca 

Sì, è così. Molti mi dicono che tutti questi lavori potrebbero essere attuali. Comunque vedo che il mondo giovanile è sempre interessato, i giovani non avvertono questa distanza di tempo: la mia platea più entusiasta è sempre stata quella degli adolescenti.  

Non crede che ciò accada perché lei, come molti artisti, nell’atto creativo ricerca sé stesso proprio come fanno gli adolescenti?

Spesso realizzo dei lavori di cui non capisco immediatamente il significato, vengono dall’inconscio. L’artista cerca di scandagliare personalmente i propri stimoli e la propria creatività: ognuno quindi, come spettatore, vede il proprio sé. “Autoritratto in doppia esposizione” consta di 20 fotografie di un mio autoritratto che si deforma. Uno spettatore lo lesse come un processo embrionale di un feto che piano piano prende forma. È una lettura che non avevo mai preso in considerazione almeno consciamente. Quando non capisco il senso del mio lavoro sono il primo a cercare di realizzarlo per capirlo: alcune mie opere non li ho ancora capite.

Con la pandemia l’aspetto e la percezione degli spazi è cambiato: tutti abbiamo visto fotografie e video di piazze e città deserte. Ma è cambiato anche dal punto di vista dei tempi: molte persone hanno abbracciato un ritmo di vita più naturale e hanno saputo apprezzare momenti e spazi più intimi e personali. Come si è evoluto il suo approccio artistico in questa dimensione?

Ho avuto una sorta di blocco come molti. Aspettavo che spuntasse qualcosa dietro l’angolo. Finalmente è spuntato: abito in campagna, e di fronte alla porta di ingresso c’è un pozzo antico che sta lì da sempre ed è la prima cosa che vedo quando esco. Ho capito in quel momento che era il mio soggetto. 

Tutto il lavoro che sto facendo attualmente con questo pozzo è legato al concetto di fermare il tempo con lo scatto. 

Ho cominciato a fotografarlo con un approccio molto antico: circa un anno fa ho trovato un apparecchio fotografico costruito in pochi esemplari in Austria. Si tratta di una sorta di contenitore per una cartuccia polaroid SX 70. Questo apparecchio mi ha folgorato. Lo strumento è primordiale, è la tecnica delle macchie ottiche del Rinascimento e dei primi inventori della fotografia, ma è applicato a una pellicola polaroid. Poi passo alla scansione e alla stampa, in dimensioni molto più grandi, degli originali polaroid. Si parte quindi da una storia antichissima, quella del foro stenopeico, per arrivare alla polaroid anni ’70 e alla elaborazione digitale dei tempi nostri. 

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