Gianfranco Jannuzzo: L’importanza dei dialetti

-di Nadia Pastorcich-

L’eleganza nel porsi. La simpatia nel raccontare. L’amore per la propria terra. Gianfranco Jannuzzo nel suo “Recital” riesce a far ridere ma anche a riflettere, senza mai dimenticare che siamo tutti figli di questa terra. Da subito, con scioltezza, cattura il pubblico portandolo con sé per tutta la durata dello spettacolo.
A fare da filo ai vari sketch è l’Italia con le sue mille sfumature a volte così diverse ma che alla fine nella loro diversità racchiudono un’unicità. Non possono mancare i dialetti, da quello siciliano della sua amata Sicilia a quello veneto, i luoghi comuni, il calcare certe peculiarità regionali, immaginando perfino un’Italia ribaltata dove il Sud diventa il Nord e viceversa.

Gianfranco Jannuzzo, uomo da palcoscenico, non si risparmia, nemmeno nei momenti più toccanti, accompagnando per mano chi lo ascolta, in un viaggio di emozioni. E martedì 22 gennaio, al Teatro Sociale di Gemona del Friuli (FVG), in una sala gremita, ci è riuscito egregiamente.

Gianfranco, come nasce l’idea di questo “Recital”?

Gianfranco Jannuzzo interpreta “La signora veneta”, Gemona 22 gennaio 2019. Ph Nadia Pastorcich

Nasce dalla volontà di voler fare qualcosa. Il recital è una serata in cui l’attore da solo intrattiene gli spettatori prendendo dal suo repertorio i pezzi che ritiene migliori per quel tipo di pubblico. È chiaro che se “la signora veneta” la faccio in Sicilia ha meno successo che se la faccio in Friuli Venezia Giulia o in Veneto o “l’Italia rovesciata” che di solito funziona più al Nord che al Sud.
Un recital anche perché si parla proprio della recitazione, del fatto che un attore dovrebbe essere una spugna capace di assorbire ovunque, dalla vita quotidiana – come succede nella signora veneta ma anche quando faccio il muto – dalle cose che ti capitano, dagli scherzi che hai fatto, dagli episodi della tua infanzia, dalla tua vita di uomo, di artista e nel mio caso di siciliano.

Molti degli sketch li ha scritti con Renzino Barbera…

Il funerale siciliano” è di Barbera e anche un pezzo de “Il muto” lo è, gli altri li ho scritti io negli anni, prendendo spunto anche dallo spettacolo “Grigenti amore mio” che ho amato molto e che avevo scritto con Angelo Callipo, un poeta. Tutto il versante malinconico-sentimentale fa parte della scrittura che ho fatto con Callipo che, pur non essendo siciliano, scrive della Sicilia meglio di uno che ci è nato.

C’è anche qualche insegnamento di Gino Bramieri?

C’è sempre. Io ho avuto il privilegio di lavorare con lui per sei anni consecutivi. Qualcosa da Gino l’ho presa e qualcosa me l’ha regalata. Il rapporto che aveva con il pubblico era di grandissimo rispetto, quasi sacrale. Da lui ho colto che si doveva essere sempre preparati e che non bisognava mai dare l’idea di fare una cosa svogliatamente. Gino era il primo ad arrivare a teatro e l’ultimo ad andarsene. È importante avere rispetto per i tecnici, per i collaboratori del teatro, per il pubblico che viene in camerino. Ho imparato tante cose, alcune facevano già parte della mia indole, del mio carattere, ma altre me le ha trasmesse questo grandissimo attore che è stato Gino Bramieri. Mi ha voluto molto bene.

Nel suo spettacolo parla in dialetti diversi. Secondo lei, i dialetti possono ancora oggi essere considerati una sorta di “lingua identitaria”?

Gianfranco Jannuzzo e la sua “Italia rovesciata”, Gemona 22 gennaio 2019. Ph Nadia Pastorcich

Lo sono di fatto e guai a dimenticarseli. È bello coltivare il proprio dialetto, fa parte della nostra tradizione e della nostra cultura. La cultura è anche tradizione, è l’uso quotidiano delle parole; le parole arrivano da dominazioni diverse. I dialetti sono parte della nostra storia, sono – come ha ben detto lei – una lingua identitaria. Bisogna essere orgogliosi e insegnarli a casa ma anche avere il coraggio di farlo nelle scuole. È chiaro che la lingua italiana è meravigliosa, ma resta convenzionale, invece le “lingue” siciliana, piemontese, lombarda, friulana, sono modi di esprimersi prima ancora di usare la lingua convenzionale. Non va dimenticato però che l’italiano ci ha uniti. Penso all’analfabetismo che c’era fino a pochi anni fa. Negli anni ’60 per TV il maestro Manzi insegnava agli analfabeti la lingua italiana e la sua grammatica.

Cosa ne pensa del teatro dialettale?

È una forma anche quella per perpetuare la cultura. Chiaramente finisce per essere relegata alla regione di appartenenza, però è una tradizione che bisogna portare avanti e non trattarla come una cosa di second’ordine. I limiti sono quelli dati dalla peculiarità e dalla territorialità della lingua, in questo caso intesa come dialetto.

Che ricordi della sua famiglia porta con sé?

Tantissimi. Nel recital racconto della riunione di famiglia che si fece per decidere tutti insieme se fosse stato opportuno o meno trasferirsi dalla Sicilia a Roma – avevamo le nostre compagnie, i nostri amici. E la famiglia è stata fondamentale: i genitori sono esempi viventi, si occupano della crescita ma soprattutto dell’educazione dei figli. Sono grato ai miei genitori per aver dato a me e ai miei fratelli un’infanzia molto serena e tranquilla. A casa non si alzava mai la voce, non c’erano mai liti furibonde, quelle che possono procurare dei traumi ad un bambino. Sono tragedie che noi spesso sottovalutiamo.

Suo papà, oltre a fare l’insegnate, riparava pianoforti e lei gli dava una mano. Presuppongo che sappia anche suonare…

Sì, un pochino. Di solito, in scena, quando faccio questo spettacolo, c’è un pianoforte e suono quello che suonavo a mio padre quando accordava i pianoforti, oppure faccio sentire quanto è bella “The Man I Love” di Gershwin. Il pianoforte lo so strimpellare, sono un autodidatta. Mio padre avrebbe voluto che imparassi a suonarlo, mi aveva fatto studiare, per qualche anno, con un maestro; sapevo leggere la musica, ero bravino, avevo del talento, però poi non l’ho coltivato.

Durante il recital dice una frase molto bella: “Dalle diversità nasce la nostra unicità”. Oggi si tende a omologare tutto, dimenticando un po’ chi si è. Cosa ne pensa?

Spesso ce lo dimentichiamo. La storia che si insegna a scuola è parziale. Se ci pensiamo bene, la speranza di un’Italia Unita ha fatto sì che tanti giovani di allora dessero la loro vita per questo sogno che alla fine si è realizzato. Nello stesso nostro inno “Fratelli d’Italia” si racconta di questi giovani ragazzi che persero la vita per fare in modo che siciliani, piemontesi, calabresi, friulani, lombardi fossero uniti in un unico paese. Penso quotidianamente che l’Italia sia affascinante, proprio perché noi che la abitiamo siamo così diversi fra di noi. Come dico nello spettacolo, tante culture diverse ne formano una unica più grande che le comprende tutte, che è quella italiana. Dobbiamo esserne orgogliosi. Dobbiamo ricordarci che siamo straordinari per queste nostre diversità, per questa ricchezza che abbiamo di varietà culinarie, letterarie, morfologiche. Basti pensare alle culture che si sono stratificate negli anni, che hanno lasciato cattedrali, monumenti, ma anche lingue – in Sicilia si parlava il francese, l’arabo, il turco – e religioni diverse. Noi abbiamo anche dato i natali a Federico II che ha permesso agli ebrei, musulmani e cattolici di convivere. L’italiano fondamentalmente è una persona meravigliosa soprattutto dal punto di vista umano.

Lei parla di mare, di Mediterraneo ma lo fa in maniera poetica ed elegante in un periodo in cui, quando si parla di questo tema, sembra naturale veicolare un messaggio in modo violento. Come mai oggi c’è tanta violenza verbale?

Credo che sia frutto di questo periodo che stimola la paura di tutti noi. È normale che si abbia paura. Si dice “tutta questa gente che arriva”, in realtà sono numeri piccoli, sono una goccia in un oceano. Il posto c’è. Noi siciliani abbiamo accolto per anni, senza mai discutere. È chiaro però che ci vogliono delle regole molto precise, senza mai dimenticare che fondamentalmente noi italiani siamo predisposti ad accogliere, ad aiutare, ad ospitare, sempre ricordando che “est modus in rebus” (c’è una misura nelle cose n.d.r). Bisogna parlare del mare non solo puntando il dito su un’immagine di mare che è, soprattutto in quest’ultimo periodo, molto violenta, ma anche sul mare inteso come fonte di culture. La ringrazio di aver capito l’essenza del mio pezzo sul Mediterraneo dove parlo di cose profonde, belle, ma tocco anche momenti delicati. Di solito quando si pensa al mare vengono in mente cose meravigliose che io metto in evidenza, senza dimenticare però le brutture che ci sono. Voglio far riflettere. Bisogna essere consapevoli, questo è il senso del brano.

“Amo la mia città come se fosse una donna”, dice lei. Ogni giorno si sentono cose terribili, manca il rispetto per le donne. Da dove iniziare per evitare queste tragedie quotidiane?

Dall’educazione. Bisognerebbe educare subito i bambini a proteggere la sorellina, la mamma. Noi uomini siamo stati dotati di una forza tale che con una mano possiamo uccidere una donna, invece dovremmo imparare fin da piccoli – come io sono stato educato – a proteggerla. Che forza ci vuole a dare uno schiaffo a una creatura più debole di te? Ma invece bisogna capire che questa forza va usata in modo corretto. Gli uomini dovrebbero essere orgogliosi di prestare il fianco, di dare la vita per le creature più fragili che gli stanno vicino. Invece ce lo dimentichiamo. Non basta che i genitori diano l’esempio: devono educare i bambini. È una questione di civiltà e la civiltà passa attraverso l’esempio e l’educazione. Bisogna stigmatizzare tutti gli episodi di violenza, di brutture, fare un confronto per far ragionare anche i bambini. Se si deve parlare di religione, bisogna anche parlare di scelte. Ci sono alcune religioni che prevedono che la donna sia poco meno di un oggetto. I ragazzi devono essere messi in condizione di fare le loro scelte, a seconda dell’educazione che hanno ricevuto nelle scuole, ma soprattutto nelle famiglie. È un problema delicato che non si risolve in pochi anni. Ma è anche questa una questione di cultura.

Partire o restare. Che consiglio darebbe ai giovani?

Di andare dove vogliono per formarsi, per studiare, per migliorarsi, per fare un progetto di sé, ma di ritornare, se è possibile, ad esercitare le loro professioni in Italia, perché è il posto più bello del mondo. I giovani ci stanno già dimostrando che vanno a studiare fuori, ma che poi vogliono ritornare in Italia. Se cominciassimo, piano piano, a capire che questi cervelli non devono essere in fuga ma devono essere valorizzati da noi – sono delle risorse straordinarie –, investendo nella ricerca o dando infrastrutture, se il denaro pubblico imparassero a distribuirlo anziché a rubarlo, se i cittadini capissero che se con il voto non si fanno le scelte giuste si perde solo tempo, sarebbe un passo in avanti. Ormai hanno scambiato i diritti in favori, hanno fatto in modo che quelli che sono i nostri diritti debbano diventare dei privilegi, perché solo se conosci qualcuno di importante puoi fare qualcosa. Noi cittadini dovremmo ribellarci e lo possiamo fare attraverso il voto, ma a volte ci dimentichiamo anche di questo. Tutti noi siamo un po’ colpevoli: guardiamo al potente come a quello che ci può risolvere un problema. Dobbiamo essere più orgogliosi e più dignitosi.

Dopo questo recital, cosa ha in programma?

Continuo con questo recital sporadicamente ancora per un po’: il 6 febbraio, ad esempio, sarò a Marsala. Dalla prossima stagione teatrale invece il recital parte abbastanza strutturalmente e lo farò per tutto ottobre, novembre e dicembre, mentre da gennaio in poi riprenderò “Il berretto a sonagli”. Per ora mi godo il “Recital”.

 

 

Le foto sono state scattate da Nadia Pastorcich durante il Recital di Gianfranco Jannuzzo a Gemona.

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