SABATO 14 NOVEMBRE GARY BRACKETT RICORDA JUDIT MALINA AL LUCCA UNDERGOUND FESTIVAL rileggete la nostra intervista
– di Gianmarco Caselli –
Living Theatre, mito del teatro sperimentale, non è solo sovversione dei canoni, ma pacifismo, denuncia, lotta alle ingiustizie. Forse non adatto a questi nostri tempi anestetizzati. Dopo la recente scomparsa di Judith Malina, sua fondatrice insieme a Julian Beck, parla per la prima volta Gary Brackett, responsabile e direttore artistico del Living Theatre Europa.
Gary, la scomparsa di Judith Malina, dopo quella di Julian Beck, con cui aveva fondato il Living, e di Hanon Reznikov, che ne era co-direttore, ha lasciato un vuoto enorme.
Essendo lontano da New York, non ho seguito in prima persona la vita del Living degli ultimi tre, quattro anni. Ho lavorato con Judith fino al 2008/2009. Nel 2006 lei mi aveva chiesto di tornare per aprire il suo nuovo spazio. C’era ancora Hanon Reznikov. Ho lavorato a fianco di Judith per tre o quattro anni, ma quando Hanon morì tutto cambiò. Non andavo d’accordo con la persona che stava con Judith, un attore che, peraltro, avevo scelto io. Quando Hanon morì per un ictus, questo giovane si mise a fianco di Judith ma non aveva molto rispetto per me. Ho provato ancora per un paio di spettacoli e poi io me ne sono andato. Judith ha continuato in una situazione molto difficile: erano in affitto, la cifra da pagare era molto alta, una follia. Alla fine hanno dovuto chiudere, hanno dovuto vendere tutto l’archivio, i quadri di Beck… tutto è andato nelle tasche del proprietario dell’immobile. Judith è finita in una casa di riposo, ma è comunque riuscita a fare altri spettacoli. Non si fermava mai. Scriveva poesie. È stata attiva fino agli ultimi giorni.
Sembra incredibile, una realtà come quella del Living Theatre, in questa situazione.
The Living Theatre è un paradosso. C’erano tante persone, ma nessuno poteva sopravvivere col Living, nessuno era pagato. Il gruppo in cui ho lavorato fino a inizio anni 2000 ha dovuto chiudere, non c’era mai una lira per andare avanti. Solo in tournee, ogni tanto. Ma nessuno ha fatto questo per forza: tutti lo abbiamo fatto per amore di Judith.
Anni fa ho frequentato un corso-seminario del Living: Judith supervisionava il lavoro, passava fra le persone che provavano, a volte si fermava a chiederci qualcosa, ci incoraggiava e aveva sempre il sorriso sulle labbra. Sembrava un generale mignon che osservava il formarsi del proprio piccolo esercito pacifista. Come si conciliava questa serenità con le sofferenze che metteva in scena?
Judith diceva sempre che è più facile mettere in scena la bellezza. Il male c’è, come ci sono la sofferenza e la criminalità; il Living cerca di affrontare il lato oscuro degli esseri umani. Nell’ultimo periodo Judith continuava a esplorarli. Uno dei suoi ultimi spettacoli parlava di tutti i movimenti anarchici nel mondo. Una specie di parata storica sull’anarchismo. La cosa bella è che, per quanto parlasse di morte, aveva sempre la speranza che possiamo cambiare e che siamo anche belle persone.
Qual è stato secondo te l’aspetto più rivoluzionario del Living?
Secondo me sono gli spettacoli degli anni ‘60 quelli che continuano a colpire e ispirare. A fine anni ’50 e all’inizio dei ’60 il Living era l’avanguardia. Quando è arrivato il ’68’la maggior parte delle compagnie erano giovani, mentre Judith e Beck avevano già 40 anni. Antigone, Frankenstein, Paradise Now, sono gli spettacoli di quegli anni. La storia deve piuttosto decidere quanto impatto ha avuto il lavoro del Living degli anni ’80.
Beck e Malina raggiunsero l’obiettivo di distruggere il teatro classico con Paradise Now. Ora qual è l’obiettivo?
Eh… siamo nel postmodernismo! È strano: sono abituato al fatto che non c’è più la platea, sono abituato a performances in cui le persone vanno in scena senza recitare un personaggio. Ma queste sono scoperte del Living degli anni ’60, che prevedevano la partecipazione del pubblico. Oggi questo è un linguaggio accettato. Anche negli ultimi spettacoli che ho fatto con Judith, cercavamo sempre uno spazio creativo per coinvolgere gli spettatori. Alcuni odiavano questo tipo di partecipazione: uno era Grotowski. È sempre un fattore di rischio. Spesso inizio ancora coinvolgendo il pubblico, ma non c’è una formula. Se è uno spettacolo di denuncia, per esempio, possiamo raccontare la storia. Ti trovi a fare queste cose in strada, davanti a gente che magari non è mai andata a teatro: e ti trovi a toccare uno sconosciuto che sta guardando per caso, lo guardi negli occhi e gli dici cose tipo: “ti do la mia parola che non ti ucciderò mai”. Credo che le persone non dimenticheranno quella scena per tutta la loro vita. Con il Living non sei al sicuro, puoi essere toccato, puoi essere coinvolto. Alla fine sono proprio quelli che sembrano odiare di più lo spettacolo a non andarsene via.
Il Living nel suo nomadismo ha lasciato il seme laddove si è spostato, generando tanti piccoli gruppi indipendenti. Ci sono contatti fra loro?
Pochi e tanti. Alcuni hanno cominciato proprio con Judith e poi hanno creato un teatro loro. È impossibile capire quanto il lavoro di Judith abbia lasciato anche in grandi attori come Al Pacino. Ormai il Living fa parte della cultura, le persone che vanno a teatro oggi non sanno che certe cose vengono dalla sua lezione.
Tu hai iniziato a lavorare con The Living Theatre a fine anni ’80, in una società completamente diversa: credi che oggi si possano stimolare le stesse energie in chi si avvicina al Living?
La mia frustrazione è che nei movimenti non ci siano gruppi teatrali attivi. Ormai i Black Block sono infiltrati. Nessuna immagine può uscire da queste manifestazioni tranne quella della violenza e dei lacrimogeni. Se ci fosse un gruppo di teatranti, di poeti e musicisti con la capacità di cambiare il tempo e lo spazio, avremmo potuto fare un grande passo in avanti: un teatro al servizio della rivoluzione, Julian Beck lo chiamava Police Theatre. È più pericoloso essere pacifista che violento e aprire uno spazio in cui la polizia non deve fare il proprio lavoro. Al G8 di Genova facevamo teatro per strada. Poi con la morte di Giuliani la violenza ha preso il primo posto. La guerra contro la polizia è inutile. Il Living di Judith cercava di organizzare gli operai delle fabbriche con collettivi, creava asili nido per i bambini, organizzava eventi: non solo teatro quindi. Oggi Manca una alternativa. Una speranza.
Negli anni passati gli spettacoli del Living facevano scandalo. Quando ti sei reso conto di avere sconvolto il pubblico?
Quando si guarda negli occhi qualcuno e si trovano lacrime. È successo spesso. Una volta facevamo una performance contro la pena di morte e una del pubblico mi ha detto: “Oh tu sei così bello” [ride]. La prima esperienza di questo tipo fu a Boston. Facemmo varie scene da Mysteries: la scena in cui noi scendevamo nella platea con i bastoni di incenso come sacerdoti fu il primo momento in cui ruppi la quarta parete e guardai le persone negli occhi. Occhi che guardano te che guardi i loro occhi che guardano i tuoi. Per me fu un’illuminazione, un momento sacro. Il teatro così torna al sacro dello spazio e del tempo. Come nello yoga, nella musica, nella meditazione. Io lo trovo guardando negli occhi delle persone.
Qual è il presente e quale il futuro del Living?
Ho fatto uno spettacolo, Green Terror, che è il mio tentativo di mettere insieme varie idee su crisi economica, ambientale, spirituale, razionalità. Ho preso molti spunti da un libro, L’insurrezione che viene (Comitato Invisibile). Dobbiamo essere informati, capire le nostre scelte. Il lavoro del Living è essere al servizio del mondo in crisi.
Ora che è scomparsa anche Judith il Living esisterà ancora?
Il figlio di Judith, Tom Walker, e altri gruppi hanno intenzione di rimettere in scena alcuni spettacoli. Non so come andrà, senza Judith può essere difficile raccogliere gente, energia, soldi. Spero di sì, ma non lo so. Anche io trovo molto difficile lavorare. A settembre faremo una riunione. Tutti noi per sopravvivere facciamo mille cose, c’è chi fa anche il baby sitter. Io ho aperto uno spazio in cui cerco di aiutare con il Butoh e con lo yoga, faccio spettacoli e laboratori. Voglio sicuramente continuare ma ho bisogno di una pausa: dopo la scomparsa di Judith ho avuto una piccola crisi, ho bisogno di capire la mia strada. Anche Judith si fermò quasi un anno dopo la morte di Beck.
Nella foto di copertina una scena di Antigone © Photographe : DIAZ Marie Jésus Immagini cortesia Gary Brackett
un capitolo della rivoluzione del teatro contemporaneo, una lezione da non perdere